"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

6 lug 2025

VIAGGIO NEL DUNGEON SYNTH: BURZUM

 


Il metodo burzumiano: Burzum, "Dauði Baldrs" (1997) 
 
Ritorno a Dauði Baldrs...

In questo blog ci siamo imbattuti innumerevoli volte nel nome di Burzum. Lo abbiamo trovato nei piani alti della nostra (personalissima) classifica dei migliori album di black metal norvegese (che per il sottoscritto equivale a dire i migliori album black metal in generale); lo abbiamo visto in testa alla classifica (altrettanto personalissima) dei cantautori del metal (se vi state chiedendo cosa sia un cantautore nel metal andatevi a leggere questo articolo). Burzum, inoltre, è stato da noi indicato come il “punto zero” sia dell’epopea dell'atmospheric black metal che per quella del depressive black metal. Ed adesso eccolo di nuovo a ricoprire un ruolo cruciale nella storia del dungeon synth, dove, sempre a nostro personalissimo parere, Varg Vikernes merita un posto d’onore insieme al più decantato Mortiis.
 
Ci eravamo già occupati del “Burzum ambient” in tempi in cui il dungeon synth per noi non era altro che sinonimo di "pianoline medievaleggianti". In quella mini-rassegna, tuttavia, non fummo teneri nel giudicare "Dauði Baldrs" che abbiamo stroncato senza mezzi termini. Vediamo dunque se, dopo esserci immersi fino al collo nel dungeon synth (dove certamente non son tutti Mozart!) ed aver abituato le orecchie a queste "pianoline medievaleggianti", la nostra opinione su quell’album è rimasta la stessa o è in parte migliorata...
 
Facciamo un passo indietro, anzi due. Due passi concettuali, intendo dire. 
 
Uno: il linguaggio burzumiano possiede intrinsecamente una componente ambient. Anche le composizioni che vengono inequivocabilmente etichettate come black metal possiedono un “alone ambient”. Suscitano, in altre parole, un effetto ipnotico, immersivo, e questo grazie al riffing ossessivo, alla ricorsività dei temi melodici, nonché per l’approccio radicalmente minimale ed un rigoroso metodo compositivo volto alla riduzione della complessità esecutiva. Il tutto condito da un mood riflessivo che conferisce connotazioni meditative persino ai momenti più efferati. In altre parole, il black metal di Burzum era già a suo modo ambient, anche senza considerare quegli intermezzi di tastiere che erano presenti nei due primi album (utile comunque ricordare che già in tempi non sospetti, ossia nel 1992, l'omonimo debutto si congedava con una strumentale ambient di quasi cinque minuti intitolata “Dungeons of Darkness- sarà una coincidenza?). 
 
Due: da un certo punto in poi Vikernes si sarebbe cimentato in tracce strumentali di estesissima durata che non potevano essere più considerate semplici interludi atmosferici per far riprendere fiato all'ascoltatore fra una randellata e l’altra. Esse, semmai, andavano ad introdurre una dimensione autonoma nella visione artistica burzumiana e che in futuro avrebbe preso corpo tramite album interi dedicati a quel tipo specifico di sonorità, non più definibili metal in senso stretto. Mi riferisco alle arci note “Tomhet” (da “Hvit Lyset Tar Oss”, 1994) e “Rundtgaing av den Transcendentale Hegenhetens Stotte” (da “Filosofem”, 1996), rispettivamente di quindici e venticinque minuti!
 
Tutto questo per dire che Vikernes è stato incontestabilmente fra i primissimi a rileggere il metal estremo in un'ottica ambient. In più c'è da dire che, come Mortiis, già godendo di una discreta fama, poteva permetterersi di rilasciare album veri e propri che potettero godere di una degna distribuzione, contrariamente a quanto successo a tanti eroi ignoti del dungeon synth che si muovevano ancora in dimensioni iper-underground pubblicando demo a tirature stra-limitate. Anche grazie a questa maggiore visibilità Burzum si è affermato fra le figure più influenti nella genesi e nello sviluppo del dungeon synth, e per questo merita un'attenzione particolare nella nostra rassegna. 

Beninteso, questa attenzione l'avrebbe meritata anche senza realizzare album strumentali, perché già solamente le idee messe in campo nei suoi primi quattro tomi elettrici sarebbero bastate affinché si potesse parlare di uno "stile burzumiano" all'interno del range espressivo del dungeon synth: uno stile "isolazionista" fatto di poche note ripetute a lungo e che tornano ossessive producendo un effetto straniante nell'ascoltatore
 
Non solo: più che costituire una via di fuga verso luoghi fiabeschi o torbidi scenari medievali, l'ambient music di Burzum, pur includendo suggestioni arcaizzanti, porta con sé una connotazione che potremmo descrivere metafisica, se non esistenziale, a metà strada fra l'intimo sentire e la dissertazione filosofica (e ...ehm... ideologica...).  
  
Ci sarebbero bastati dunque gli spunti disseminati nei primi album, ma Vikernes ha anche realizzato album interi di sole tastiere: all’inizio per motivi di forza maggiore (in galera gli era permesso suonare solo questo strumento), poi dando seguito a questo percorso una volta tornato a piede libero. Per rappresentare degnamente il musicista norvegese nella nostra rassegna avevamo dunque bisogno di pescare uno di questi lavori (ad oggi cinque in tutto) e la nostra scelta è ricaduta sul primo della saga, "Dauði Baldrs", sebbene non sia a nostro parere quello meglio riuscito. 
 
Eccci dunque ritornati a "Dauði Baldrs" ed alla domanda inziale: lo abbiamo forse rivalutato una volta che è stato analizzato inserendolo nel contesto del dungeon synth oppure continuiamo a vederlo come un esercizio puerile e a tratti imbarazzante? 
 
L’opera continua a non convincerci, lo chiariamo subito, ma ci sono delle attenuanti che vanno riconosciute per meglio capire questa opera controversa, da taluni apprezzata ma anche trascurata o rigettata da molti altri. Le condizioni in cui questo album è stato concepito e realizzato, infatti, non sono state certo ottimali per il musicista, considerato che l’album venne registrato in carcere, pare nell’arco di una sola settimana. Ma al di là delle condizioni oggettive, pensiamo anche solo allo stato mentale del suo autore, poco più che ventenne e con davantì a sè molti anni di galera da scontare. L’album risente ovviamente degli umori che la prigionia deve aver trasmesso al giovane Vikernes: si percepisce infatti un senso di reclusione, di isolamento e di malinconica contemplazione ( ma non certo di pentimento per i reati commessi!) fra le pieghe di questi brani, sebbene il Nostro non giochi a viso scoperto e preferisca nascondersi dietro ad un concept basato sulla mitologia norrena
 
Il titolo dell’album si traduce infatti come “La morte di Baldr”, dio della luce, figlio di Odino, irretito nelle trame malefiche ordite dal dio Loki: tragici avvenimenti a cui sarebbero seguiti il crepuscolo degli dei e il noto Ragnarök. L’opera inevitabilmente porta con sè i toni luttuosi di cui si ammantano queste vicende, ma, come si diceva, è lecito pensare che in essa si siano riversate le sensazioni del giovane recluso. A corredare il tutto, una insolita (almeno fino a quel momento) copertina variopinta: un bel lavoro della illustratrice Tania Stene che avvicina l'opera all'immaginario più tipico del dungeon synth e lo allontanava da quello del black metal in senso stretto di cui Vikernes rimaneva all'epoca un alfiere emblematico (da sottolineare la coerenza che l'immagine ritratta in copertina conserva con il pensiero del musicista - con il Dio Baldr inchinato e in procinto di ricevere l'eucarestia da un poco raccomandabile prete cristiano, a simboleggiare la caduta in Scandinavia del paganesimo per mano del Cristianesimo sanguinario conquistatore).
 
Si dice che in carcere il Nostro avesse ripudiato il metal e che ascoltasse per lo più musica elettronica, fra cui anche Aphex Twin e New Order, ma sinceramente niente di tutto questo è percepibile in modo tangibile nelle sei tracce che compongono i 39 minuti di "Dauði Baldrs", che guardano piuttosto ad atmosfere folk e medievaleggianti. Di sicuro hanno influito certi ascolti extra-metal che il Nostro pare avesse maturato prima della reclusione, nomi come Tangerine Dream e Dead Can Dance che già costituivano delle significative influenze nel classico Burzum sound. Per il resto, l'impressione è che la stessa metodologia di composizione si sia trasferita dalla chitarra elettrica alle tastiere. Ne è una dimostrazione il tema melodico portante della title-track, lo stesso tema melodico che, anni dopo, verrà riproposto nel riff di chitarra di “Belus' Død” in “Belus” (interessante notare che se prima quel giro rappresentava la morte del dio Baldr, successivamente avrebbe celebrato la morte del dio Belus). Un altro esempio è la terza traccia “Bálferð Baldrs” che riprende chiaramente gli intrecci chitarristici della mitica “Jesu Død” di “Filosofem” (curioso osservare che qui, invece, a morire era il Cristo). 
 
In entrambi i brani accordi spigolosi di tastiere delineano i contorni delle consuete geometrie dello stile burzumiano giocato principalmente sull'intreccio (dis)armonico di accordi da un lato e giri di singole note dall'altro, il tutto ripetuto ossessivamente per quasi nove minuti nel primo caso, per sei nel secondo. Il Nostro ci aveva già abituato ad un tale modus operandi, ma questa metodologia compositiva, spogliata delle vesti metal e rivestita da suoni poveri ed arrangiamenti approssimativi, non sembra sortire i medesimi risultati. In particolare è la qualità dei suoni ad azzoppare l'operazione, e non mi riferisco alla registrazione, che tutto sommato restituisce suoni intellegibili, ma proprio alla mancata profondità del suono per via di una strumentazione povera che offre soluzioni sonore anche troppo stilizzate e con esiti a tratti irricevibili (si pensi ai goffi e singhiozzanti interventi di quello che dovrebbe essere un trombone, con gli immancabili "buchi" fra una nota e l'altra).  
 
A spezzare il flusso claudicante di questi due composizioni troviamo due episodi molto brevi, uno venuto bene, l’altro meno: ci piacciono, per esempio, i due minutini e quaranta della seconda traccia “Hermoðr á Helferð”, uno svolazzo di pianoforte a momenti commovente che ci restituisce un Vikernes più intimo e meno interessanto a riprodurre scenari fantastici di cartapesta. Ci piacciono di meno i due minuti più concitati della quarta traccia “Í Heimr Heljar”, maldestro passaggio di orchestrazioni sintetiche e nervose ritmiche marziali, dove il Nostro dà il peggio di sé penalizzato da quei limiti di strumentazione che abbiamo indicato sopra.
 
Le cose indubbiamente migliorano quando il musicista norvegese decide di "giocare in casa" e rifugiarsi nel tocco ipnotico del pianoforte, cosa che ci riporta ai migliori stralci ambient della passata produzione discografica: è il caso (soprattutto) dei dieci minuti e mezzo di “Illa Tiðandi” (non a caso una rielaborazione di “Decrepitude II”, sempre da “Filosofem”) e del requiem conclusivo “Móti Ragnarǫkum”, altri nove languidi minuti che lasciano tutto sommato un buon sapore in bocca. 
 
Abbiamo dunque rivalutato “Dauði Baldrs”? 
 
La risposta è ni. L’opera nel complesso, fra suoni di bassa lega e temi melodici anche troppo tirati per le lunghe, non solo si colloca molto al di sotto degli standard qualitativi delle opere dei maestri dell’ambient music, ma anche al di sotto della produzione discografica di Burzum stesso. Secondo i criteri di giudizio pertinenti ad un genere come il dungeon synth (ammesso che “Dauði Baldrs” possa essere classificato come un album di dungeon synth – e io non ne sarei così sicuro), troviamo sicuramente lavori più validi e centrati dal punto di vista sonoro. E senza doverci riferire per forza ai capolavori del dungeon synth, abbiamo trovato decisamente di meglio anche approcciandoci ad opere di artisti minori.
 
D’altra parte non è che di colpo il talento di Vikernes si viene ad azzerare: seppur in modo non continuativo, l’antica magia a tratti riaffiora in superficie. “Dauði Baldrs”, opera di riassestamento psichico di un artista alle prese con la disgregazione della sua stessa esistenza, offre senz’altro dei momenti positivi, ma non nel senso in cui oramai il dungeon synth ci ha abituati, ossia sul fronte della suggestione e della capacità descrittive. Semmai come saggio di introspezione dal quale trapelano elementi biografici e vissuti del suo apparentemente “infangibile” ed imperturbabile autore: sensazioni di isolamento e frustrazione che permangono fra le pieghe di questi brani. E se da un lato è vero che “Dauði Baldrs” è in parte un'opera di riciclaggio, nel senso che rivisita temi melodici già utilizzati in passato e setaccia e raccoglie idee e motivetti che ronzavano da tempo nella testa di Vikernes (e che probabilmente egli aveva in origine pensato per un album black metal), dall'altro è altrettanto vero che questi contenuti sono resi più profondi e penetranti grazie ad un carico psicologico ed emotivo non da poco. 
 
Insomma, l’album presenta dei guizzi di umana intimità che è una dimensione tutto sommato estranea alla vocazione "fantasticheggiante" di molto dungeon synth, e in questa ottica, l’opera viene in qualche modo a riabilitarsi sebbene permangano vistosi i limiti sopra evidenziati. Ma del resto il Nostro era ancora alle prime armi di fronte ad un medium espressivo di quella fattispecie. Già con il successivo “Hliðskjálf” di due anni successivo (e sempre realizzato in carcere), il Nostro avrebbe fatto di meglio, dimostrando una maggiore self-confidence nel maneggiare quel linguaggio che “Dauði Baldrs” aveva inaugurato quasi con timidezza... 
 
A dimostrazione che il paradigma "ambientale" non era stato approcciato solo per necessità circostanziate alla sua prigionia, Vikernes pubblicherà altri lavori di questa tipologia una volta fuori dalle sbarre mettendo a punto e perfezionando una formula che andrà ad integrare in modo riuscito le consuete escursioni di tastiere con ulteriori elementi che già abbiamo incontrato nel percorso artistico del Nostro: tornerà la chitarra, vuoi nella forma di ipnotici arpeggi vuoi in quella di riff ossessivi lasciati a girare nel vuoto come da migliore tradizione burzumiana; tornerà anche la voce, narrante o addirittura salmodiante in intensi lampi di lirismo folcloristico. Titoli come “Sôl austan, Mâni vestan” (2013), “The Ways of Yore” (2014), “Thulêan Mysteries” (2020) e in parte l’ultimissmo “The Land of Thulê” (2024) - per metà elettrico, per metà ambient - rappresentano la vitalità di questa modalità espressiva che, nel bene o nel male, costituisce una componente irrinunciabile nella visione artistica burzumiana