Dungeon synth anno zero: Mortiis,"Født til å Herske" (1994)
Ogni genere (o sottogenere che sia) ha i suoi artisti emblematici, le sue opere fondanti. Per il dungeon synth certamente Mortiis e “Født til å Herske” lo sono. Basti pensare che il nome stesso del genere, molti anni dopo, avrebbe tratto ispirazione proprio dal nome della etichetta personale di Mortiis, la Dark Dungeon Music, tramite la quale il musicista norvegese avrebbe realizzato i suoi primi seminali lavori.
Håvard Ellefsen, in arte Mortiis, aveva militato nei leggendari Emperor all'inizio della loro storia ma decise di lasciarsi presto il metal alle spalle, avviando, nemmeno ventenne, una brillante carriera solista che lo avrebbe innalzato ad esponente più importante di un genere a sé stante: il dungeon synth, appunto. Questo accadeva almeno per tre validi motivi.
Punto primo: Mortiis è stato fra i primissimi, se non il primo, a cimentarsi nell’impresa di realizzare album interi con quelle che diveranno le caratterisiche identitarie del dungeon synth. Voglio essere subito chiaro: anche altri, come Burzum e Satyricon, avevano nello stesso periodo realizzato composizioni strumentali, anche molto lunghe, che sarebbero poi divenute una fondamentale fonte di ispirazione per molti alfieri del dungeon synth. Era indiscutibilmente già in atto nel black metal scandinavo una tendenza ad introdurre nel proprio linguaggio arie medievaleggianti operando non con strumenti acustici bensì
tramite tastiere, e facendo leva sull'alto potenziale di suggestione
nonostante la povertà dei mezzi e dei limiti tecnici. Ma quelle composizioni erano intro, interludi, singoli brani, non album; mentre Mortiis ha alzato l'asticella dell'ambizione definendo e sdoganando il format del dungeon synth, ossia quello dell'album interamente strumentale. Insomma, Varg Vikernes ha forse fatto anche di più a livello di definizione del linguaggio del dungeon synth (e lo vedremo nei capitoli successivi della rassegna), ma Mortiis ha dato forza e spinta a questa visione, scommettendo sulla carta dell'album intero. Una prova di coraggio e determinazione non da poco.
Punto secondo: non solo Mortiis fu tra i primissimi, ma lo fece meglio degli altri. Il suo debutto discografico “Født til å Herske” del 1994 è ancora oggi considerato l’opera archetipica del dungeon synth, mentre risultano risibili gli esiti di esperimenti analoghi di altri musicisti nel medesimo periodo. Mi vengono in mente i Dark Funeral, non quelli svedesi che tutti noi conosciamo, ma una band danese che è campata il tempo di due demo e che già nel 1993 dava alle stampe lavori di sole tastiere come "In Thy Forest..." e "The Awakening", opere abbastanza mediocri, a dire il vero, che certo non potevano custodire il germe di un nuovo genere. Del resto il confine fra atmosfera e cialtroneria è molto labile in questi casi e Mortiis ha dimostrato grande consistenza e sostanza artistica in questo percorso.
Punto terzo: Mortiis non avrebbe scommesso solo sul format, ma anche su un'intera carriera, visto che nel corso degli anni successivi avrebbe rafforzato la sua innovativa visione artistica con una manciata di ulteriori opere estremamente valide, se non superiori, che a ragione sarebbero divenute seminali ed un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si sarebbe voluto in seguito confrontare con il dungeon synth.
Mortiis del resto non è uno qualunque e, nell’arco di una carriera oramai trentennale, è stato in grado di sorprenderci in più di una circostanza, sempre positivamente. Nel nostro blog abbiamo avuto modo di trattarlo un paio di volte, analizzando il testo di “I am the Black Wizards” che lui scrisse per gli Emperor e riconoscendogli una posizione di rilievo fra coloro che, dal metal, hanno saputo con successo muoversi verso lidi extra metal - ma all’epoca ci riferimmo alle scorribande nell’industrial rock con l’album “The Smell of Rain”, che avrebbe inaugurato la cosiddetta Era II.
Fra il black metal degli Emperor e l’appena menzionata Era II (a cui sarebbe seguita anche una Era III), vi è stata appunto l’Era I: un quinquennio circa in cui il Nostro ebbe modo di rilasciare una serie di album che avrebbero letteralmente fatto la storia del dungeon synth. Non solo genesi, dunque, ma anche consolidamento di stilemi.
Facendo un discorso a posteriori, già nel suo contributo negli Emperor possiamo intravedere un anticipazione di quella che sarebbe stata la successiva carriera solista. Suoi erano i testi di “Cosmic Keys to My Creations and Times” e della già citata “I am the Black Wizards”: rileggere questi versi con il senno di poi ci restituisce la figura di un artista che con la propria arte intendeva edificare mondi immaginari, ma anche quella del ragazzo che, nel chiuso della propria cameretta, divorava romanzi fantasy ed amava viaggiare sulle ali della propria fantasia. Un tratto naif che viene tradito da un verso come il seguente: “I enjoy those moments I may haunt with these beasts of the night”. Ma si colga anche il senso di onnipotenza che si percepisce in frasi come: “All these landscapes are timeless, and this is all just a part of cosmos, but all is mine and past and future is yet to discover...” (da “Cosmic Keys to My Creations and Times”) e "Mightiest am I, but I am not alone in this cosmos of mine” (da “I am the Black Wizards”).
Non è difficile a questo punto riconoscere nel primo bassista e paroliere degli Emperor colui che quegli stessi infiniti mondi di fantasia li avrebbe creati autonomamente tramite l'impiego delle sole tastiere. Già di per sé la demo del 1993, “The Song of a Long Forgotten Ghost”, lunga circa un’ora, afferma in modo compiuto il Mortiis-pensiero, predisponendo una serie di giri melodici memorabili volti a generare scenari arcani capaci - ai limiti dell’ipnosi - di condurre la mente dell’ascoltatore letteralmente Altrove. Le melodie evocano il folclore medievale, ma la cosa strana è che, al posto degli strumenti acustici e di un suono corale ed articolato, troviamo una tastiera a buon mercato e delle dita che si muovono in modo dilettantesco lungo i tasti.
La ricorsività delle melodie, ora rese con un pianoforte claudicante, ora con suoni sintetizzati di trombette od organo, sovente incalzate da timpani o percussioni, è ovviamente ereditata dal black metal, che faceva esattamente la stessa cosa con le chitarre in un contesto di metal estremo. E’ naturale che ad un orecchio non abituato tutto questo possa sembrare un esercizio prolisso e nemmeno riuscito troppo bene, ma proprio l’utilizzo di mezzi poveri e il disporre di una scarsa preparazione tecnica diverranno degli aspetti cardine del dungeon synth ed uno spiccato tratto identitario che lo distinguerà dall’ambient o dalla musica da camera. E’ come se il dungeon synth intendesse massimizzare il rapporto fra risultato e mezzi impiegati, facendo leva principalmente sulla capacità di immaginazione dell’artista come dell’ascoltatore.
Bene, a questo punto mi posso anche togliere l’armatura e deporre la spada e ammettere che l’ascolto di “The Song of a Long Forgotten Ghost” non è per tutti, e non per tutti i giorni, rivelandosi il prodotto ancora acerbo, eccessivamente scarno e ripetitivo. Poi si potrà dire che il risultato è altamente suggestivo (per carità!) e capace di conservare fino ad oggi un discreto fascino, ma probabilmente se Mortiis si fosse fermato qui, non parleremmo oggi di Mortiis e forse non parleremmo nemmeno di dungeon synth.
Con “Født til å Herske” la musica cambia, o meglio, non cambia, ma diviene palese il salto in avanti fatto dal musicista nel confezionare le sue idee, sia in termini di suoni che di scrittura ed esecuzione. Tanto per iniziare “Født til å Herske” in norvegese significa “Nato per regnare”, un concetto di emperoriana memoria che ribadisce quel desiderio di onnipotenza che aveva contraddistinto i testi scritti da Mortiis per la sua prima band. Troviamo ulteriore conferma di questo concetto nelle note di copertina:
“He was born before his own time,
Yet he wandered through his own lands,
Before he raised his iron fist in wrath there for the first time,
It was in a different world than that to which he belonged,
His spirit was given a living body,
But the old spirit still remembered it’s time as ruler of the right world,
The time that has already been but which will be,
And always shall remain, the time of times.”
Parole che a loro volta trovano riscontro nel soggetto della copertina, dove campeggia lo stesso Mortiis in veste di cavaliere, anticipando una teatralità pagliaccesca che ritroveremo successivamente nel suo celeberrimo look da troll, con tanto di orecchie a punta e naso adunco (del resto il Nostro si è dichiarato fan dei Kiss e dunque ben propenso alle pagliacciate).
Ovviamente la musica non tradisce le aspettative: diviso in due parti (“Født til å Herske” part I e II), il platter raggiunge la considerevole durata di 53 minuti e nel suo svolgimento concentrico racchiude un po’ tutti i topoi del dungeon synth che verrà, mostrando un suono senz’altro più curato e dinamico del suo predecessore.
Chi si aspetta un solo tema melodico reiterato fino allo sfinimento si dovrà in parte ricredere: la ripetizione di arie assai elementari rimane al centro del modus operandi del norvegese, certo, ma c’è da dire che il Nostro riesce a scongiurare il 'rischio noia' grazie ad una certa varietà nella scelta dei suoni e degli effetti sonori. Rigorosamente confezionato con tastiere, “Født til å Herske” si muove lentamente passando da uno scenario all’altro con diverse linee melodiche che si susseguono ed accavallano attraverso pattern di poche ma incisive note. Fra trombe solenni ed avvolgenti cori “Født til å Herske” si dilata nell'etere come una lenta processione di suggestioni che vanno ad evocare un gelido medioevo fatto di castelli avvolti nella nebbia e sentieri misteriosi.
Come in una sceneggiatura di un film, le scene si susseguono fra momenti più rarefatti e fasi in cui i temi melodici si impongono con maggior vigore. Il soffiare del vento inspessisce il suono, sporadici colpi di gong imprimono pathos. Sebbene l’album proceda in modo coerente incarnando il rigore di un rituale, non si può dire che si tenda ad un vero climax, fatta eccezione per la voce filtrata nel finale che, adottando la lingua norvegese, decanta parole incomprensibili, non andando dunque ad alterare la vocazione irriducibilmente strumentale dell’opera.
L’ascolto, sia ben chiaro, continua ad essere ostico per l’orecchio non allenato e probabilmente un approccio di abbandono agli sviluppi imponderabili di un concept a sfondo mistico è preferibile ad uno più analitico e volto a cogliere il dettaglio. E’ chiaro che il fine ultimo di Mortiis è realizzare una musica atmosferica, meditativa che permetta all’ascoltatore, chiusi gli occhi e sdraiatosi comodamente su un letto, di immergersi in una dimensione propriamente mentale (o spirituale, se vi si vuol riconoscere una natura esoterica): una musica che funge più da trampolino di lancio che da punto di approdo.
Tutto questo veniva formalizzato in maniera egregia in “Født til å Herske”, il resto sarà storia: “Ånden som Gjorde Opprør” (1995), “Keiser av en Dimensjon Ukjent” (1995), diversi EP, la raccolta “Crypt of the Wizard” (1997 e “The Stargazer” (1998), insieme ad ulteriori progetti come Fata Morgana e Vond (sempre gestiti in beata solitudine) andranno a consolidare quanto enunciato nel folgorante debutto, descrivendo una crescita ulteriore sia nella scrittura che negli arrangiamenti, e facendo guadagnare al folletto norvegese lo status di maestro assoluto di quelle sonorità che un giorno sarebbero state definite dungeon synth.
Imprescindibile.