13 dic 2020

I MIGLIORI BRANI DEL METAL ESTREMO


Le classifiche, le top-ten fanno schifo, sono una orribile semplificazione delle realtà. Ci va bene tutto, siamo capaci di tutto, vi abbiamo detti quali sono i dieci migliori ALBUM metal di sempre, quali i dieci migliori BRANI metal di sempre, ma con l’Estremo non si scherza.

Abbiamo provato a mettere dieci titoli in fila, ma non ce l’abbiamo fatta: ogni volta che pensavamo di aver raggiungo un equilibrio, qualche importante “pezzo di estremo” rimaneva tagliato fuori. Per questo motivo, questa volta - solo per questa volta - abbiamo deciso di fare un’eccezione… 

Venom dentro Venom fuori? Mercyful Fate dentro o fuori? Per oggi ci accontentiamo di buttar giù dieci titoli in modo rozzo, di getto, fuori da ogni ambizione di esaustività. Abbiamo semplicemente chiuso gli occhi e pensato: ecco dieci brani di metal estremo emblematici, non i migliori, ma forse i più seminali, di sicuro quelli da ricordare, anthemici a modo loro. Ma poi torneremo sul tema, in modo più scientifico, seguendo il nostro approccio rigoroso, stilando ben altre tre top-ten più specifiche: "I dieci migliori brani del Death Metal", "I dieci migliori brani del Black Metal", "I dieci migliori brani di metal estremo evoluto" (gothic/doom, melo-death, death-progressive ecc.). 

Stileremo presto queste liste (il grindcore al momento lo lasciamo stare), ma per prepararci adeguatamente oggi ci concentriamo su dieci brani seminali che certamente hanno segnato le origini e la storia del metal estremo....

Venom: “Welcome to Hell” (“Welcome to Hell”, 1981) 
Dispiace sempre tirare in ballo quei cialtroni dei Venom, ma è innegabile che è proprio con loro che si è iniziato a parlare di “metal estremo”. Poi si potrà dire che erano la brutta copia dei Motorhead, che non sapevano suonare, che facevano solo casino, ma nel bene o nel male il trio di Newcastle è stato il punto di riferimento per molti giovani musicisti che dalla loro musica avrebbero preso lo spunto (e il coraggio) per cimentarsi nel metal "più duro e malefico possibile". E la title-track del loro primo album è un pugno in faccia non indifferente per l’ascoltatore dell’epoca: suoni da acciaieria/fonderia, chitarre sferraglianti e il latrato mefistofelico di Cronos, il tutto impastato in un magma di suoni indistinti, ma con un conturbante ritornello sussurrato (rozzo ma efficace il cambio di tempo) che ereditava la schiettezza e l'approccio anthemico dal rock'n'roll delle decadi precedenti. Loro malgrado: seminali. 

Mercyful Fate: “The Oath” (“Don't Break the Oath”, 1984) 
Mercyful Fate si o Mercyful Fate no? Alla fine non ce la siamo sentita di fare a meno di King Diamond e compagni. Pur ancora iscrivibili alla categoria dell’heavy metal classico, i Mercyful Fate hanno avuto una indubbia influenza sugli sviluppi del metal estremo, a partire dal face-painting e dalle urla orripilanti del loro cantante. “The Oath” si apre con lo scroscio di un temporale, campanacci a morto,  organo da chiesa, canti rituali e beffarde risate: quanto di meglio per introdurre il metal orrorifico dei Nostri, tanto pacchiano quanto inquietante. La struttura del brano, come al solito, è farraginosa, chiamata più che altro a supportare gli sviluppi narrativi del testo. Ed è proprio il modo di procedere del brano stesso (oltre i sette minuti di durata!) la componente destabilizzante, quello che rendo la musica dei danesi disturbante e lontana dalle rassicuranti movenze del metal classico. Ritmiche incalzanti, assoli piazzati in ogni dove e cambi di tempo snervanti, il tutto confezionato con suoni marci e riverberati: questo è il malsano palcoscenico ove si può manifestare la messa in scena del camaleontico Re Diamante, diviso fra rantoli, sibili di streghe, voci demoniache e il consueto falsetto che andrà ad ispirare niente meno che gli screamer del black metal. Imprescindibili.

Destruction: “Total Desaster” ("Sentence of Death", 1984) 
Intro cacofonico con tanto di vocione gutturale, partenza della batteria a razzo e la vociazza acida di Marcel "Schmier" Schirmer: l'approccio del trio teutonico è squisitamente artigianale, ma proprio questo è il fascino di "Total Desaster", cinque minuti e mezzo che non lasciano tregua all'ascoltatore. Ad aggiungere gloria alla gloria, una fase centrale da infarto con accelerazioni assassine, riff epici e grida disumane in sottofondo. Non c'è da aspettarsi prodezze tecniche o chissà quali sofisticherie dal thrash metal furibondo dei Destruction, ma è chiara l'intenzione della band nel non volersi limitare al classico episodio mordi-e-fuggi. La velocità, l’approssimazione esecutiva e la bassa definizione del suono, in anni in cui il thrash metal (soprattutto in U.S.) tentava di "raffinarsi" come genere, rendono "Total Desaster" una perla grezza che affascinerà senz'altro le nuove generazioni, con gli artisti black metal in prima fila a prendere appunti. 

Celtic Frost: “Circle of the Tyrants” ("Emperor's Return", 1985) 
Fra i maestri dell’Estremo vanno sicuramente annoverati i Celtic Frost, scaturiti dalle ceneri degli ancora più estremi Hellhammer, che non figurano nella nostra rassegna solo perché non hanno da offrire, nella loro breve esistenza, singoli brani che passeranno alla storia. Dei Celtic Frost, invece, di brani mitici ne abbiamo a volontà. Scegliamo uno dei loro più violenti, “Circle of the Tyrants”, apparso per la prima volta nell'EP "Emperor's Return" e poi confermato nel masterpiece "To Mega Therion". Caratterizzato da una morbosa atmosfera e da una attitudine ferocemente minimale, nonchè dal canto gutturale (ad un passo dal growl) e dal riffing ossessivo del leader Tom G. Warrior, il brano è da considerare fra i più seminali per le sorti del metal estremo, lo dimostra il fatto che verrà coverizzato da una miriade di gruppi. I Nostri non sono certo dei virtuosi, ma sanno essere terribilmente efficaci, con decelerazioni e ripartenze collocate al punto giusto, il tutto condito da quel mood oscuro che ha reso unica la formazione elvetica. Si parla ancora di thrash metal, ma non è un caso che con le loro torbide visioni i Celtic Frost abbiano saputo spalancare le porte al gothic/doom metal, al black metal e all’avantgarde metal. UH!

Possessed: “Death Metal” (“Seven Churches”, 1985) 
Sulla paternità del death metal si discute ancora oggi, e se il sound violento del debutto dei Possessed è ancora circoscrivibile nell’alveo del thrash metal, molti spunti di “Seven Churches” li ritroveremo in “Scream Bloody Gore” dei Death. Lo stesso Chuck Schuldiner ammise di dover molto ai quattro della Bay Area ed in particolare alla voce tremenda di Jeff Becerra, da cui trasse ispirazione per il suo caratteristico growl. “Death Metal”, appunto, era l'atto che chiudeva l’album, non il migliore (noi preferiamo episodi come “The Exorcist” e “Pentagram”), ma di certo il più eloquente nel descrivere la missione artistica dei Nostri, fatta di velocità, riff vischiosi e ritmiche epilettiche (non erano certo degli sprovveduti i Nostri). “Death Metal”, a scapito di una struttura più lineare rispetto ad altri brani presenti nell'album, offriva un paio di decelerazioni da brividi che ritroveremo spesso nel death metal a venire ed un ritornello anthemico che, nella sua ingenuità, innalzava la musica dei Nostri a manifesto programmatico per il metal estremo. 

Slayer: “Angel of Death” (“Reign in Blood”, 1986) 
Adesso però tutti in silenzio che salgono in cattedra i maestri. Con “Reign in Blood” gli Slayer avrebbero letteralmente scritto la Bibbia dell'Estremo, raggiungendo, artisticamente parlando, la quadratura del cerchio nell'ammaestrare la furia esecutiva in schemi che poi sarebbero divenuti l’abc per chiunque si fosse voluto cimentare in sonorità estreme. “Angel of Death” era il brano che apriva degnamente questo album-capolavoro, e lo faceva nel migliore dei modi, con il drumming impeccabile di Dave Lombardo e il grido di battaglia di Tom Araya, alle prese con uno dei suoi ultimi acuti. I Nostri dimostravano di padroneggiare velocità sostenute con frequenti cambi di tempo e sottili variazioni di tema, come accadeva in occasione del proverbiale ritornello. Nei suoi quasi cinque minuti di durata, “Angel of Death” non era solo il brano più lungo e composito dell’album, ma anche quello che avrebbe destato più scalpore, con il suo testo che descriveva senza tanti giri di parole gli esperimenti fatti sui reclusi nel campo di concentramento di Auschwitz. Ed è davvero impressionante la "forza" dell'intero ensemble nella fase centrale dove Lombardo pesta alla grande e i riff schiacciasassi dell'accoppiata Kerry King/Jeff Hanneman si susseguono senza pietà alcuna per l'ascoltatore. Ciliegina sulla torta: la doppia-cassa lasciata ticchettare da sola prima della ripartenza dell’ultimo micidiale ritornello. Chapeau. 

Bathory: “Call from the Grave” (“Under the Sign of the Black Mark”, 1987) 
Torniamo un attimo al caos e volgiamo l’attenzione ai suoni rozzi e disarticolati dei Bathory, entità fondamentale per lo sviluppo del black metal nelle sue derivazioni scandinave. In "Call from the Grave" si accantona per un attimo la velocità forsennata del thrash per abbracciare con convinzione un mid-tempo dal sublime flavour epico. Svettano fra gli accordi marci e mal suonati l’acido screaming del buon Quorton (da solo a capo del progetto) ed un terribile organo nel finale, culmine di un devastante viaggio nelle profondità di una cripta. La parte finale del brano, nello specifico, tocca vette di cattiveria mai udite prima, con strilla agonizzanti che si mischiano efficacemente al grandeur rituale di tastiere e percussioni. L’impostazione lirica, infine, rimaneva ancora legata ad un satanismo naif e gli umori sepolcrali ambivano ad evocare un’atmosfera da film horror, ma la morbosità messa in campo diviene asfissiante mano a mano che i minuti trascorrono. E già, fra i gangli di questo gioiello proto-black, fa capolino quella spiritualità che caratterizzerà in modo crescente il genere. 

Napalm Death: “Multinational Corporations” / Instinct of Survival” (“Scum”, 1987) 
I Napalm Death costituiscono un capitolo a parte in questa nostra rassegna: pionieri ed interpreti insuperati del grindcore, i Nostri traevano ispirazione più che altro da punk ed hardcore, estremizzandone la portata. Il risultato sembrava quasi uno scherzo di cattivo gusto, con brani dalla durata infinitesimale lanciati a velocità supersoniche. “Scum”, l’album manifesto del genere, si apriva con il caos apocalittico di “Multinational Corporations”, un vortice di chitarre dissonanti e vocalità efferate che recitavano proclami anticapitalistici ("...Multinational corporations... Genocide of the starving nation... Multinational corporations... Genocide of the starving nation..."). Un'introduzione che conduceva direttamente ad "Instinct of Survival" che dall'alto dei suoi due minuti e mezzo di durata si piazzava fra le tracce più lunghe del lotto. La chitarra pastosa di Justin Broadrick disegna un accattivante riff thrash metal, presto risucchiato nel tritacarne ritmico di Mick Harris, che porta all'esasperazione la tecnica del blast-beat: un magma indistinguibile di suoni in cui l'urlo da cavernicolo di Nick Bullen sembra affogare. Provvidenziale sarà il ritorno impovviso del riff iniziale, che si apre un varco nel fango per permettere al mantra di "Multinational Corporations" di materializzarsi nuovamente. Devastanti. 

Mayhem: “Deathcrush” (“Deathcrush”, 1987) 
Furia cieca, violenza incontrollata, morte certa: queste le sensazioni che trasuda la musica dei Mayhem in questo loro EP d’esordio, quando erano una band molto diversa rispetto a quella del grandioso e seminale “De Mysteriis dom Sathanas”. Dimenticatevi quindi il gelido black metal di "Funeral Fog" o "Freezing Moon": Euronymous all’epoca componeva ancora secondo i canoni del thrash metal, privilegiando un riffing tagliente e martellante, pronto a deragliare verso lidi non preventivati. “Deathcrush” (il brano) è un capolavoro nella sua semplicità, forte di un riff rozzo quanto efficace e di una sezione ritmica micidiale, per quanto sgraziata (da sottolineare il basso distorto di Necrobutcher). Le grida dilanianti da psicopatico di Maniac sono il carico da novanta e rendono il brano quanto di più violento e malato potesse offrire il metal all’epoca. 

Death: “Pull the Plug” (“Leprosy”, 1988) 
Finiamo in bellezza con il grande Chuck Schuldiner e i suoi Death. Il repertorio di coloro che sono considerati i fondatori ufficiali del death metal offre un'infinità di brani eccezionali; in questa top-ten in cui andiamo a sondare il lato più selvaggio del nostro genere preferito, rispolveriamo un classico della prima ora, quella “Pull the Plug” che rimarrà fino alla fine a chiudere i concerti della band. Si capisce che sì, è metal estremo, ma sotto l’egida di ordine e disciplina: l’elevato bagaglio tecnico dei musicisti e l’eccellente song-writing del loro leader permettono di coniare un nuovo linguaggio in cui l’assalto sonoro viene modulato con raziocinio e lucidità. Anche i testi, dietro a vivide metafore a sfondo orrorifico, offrono interessanti considerazioni su tematiche sociali. "Pull the Plug" , da parte sua, offre la consueta struttura a specchio, ove diversi passaggi si susseguono sullo schema di strofa-e-ritornello. In mezzo, un rallentamento in palm-muting da brividi impreziosito da un superbo assolo che porta in nuce il talento melodico che, album dopo album, occuperà spazi crescenti nella visione artistica della seminale band americana. 

Ci fermiamo quindi nell'anno di grazia 1988, appena prima degli anni in cui il metal estremo avrebbe raggiunto le sue forme mature, con il perfezionamento del death metal prima, con l'esplosione del black metal scandinavo in seguito ed infine con il fiorire di estrinsecazioni evolute che, dell'Estremo, avrebbero fornito versioni inedite, come il gothic/doom o il melodic death metal...

Alle prossime puntate!