"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

25 dic 2020

LE MIGLIORI DIECI BALLAD DEL METAL


Nonostante tutto oggi è Natale e ci sentiamo stranamente buoni, pertanto andiamo a parlare di cose buone, di buoni sentimenti, delle buone ballad nel metal: il famigerato “pezzo lento” che si apre il varco fra le batoste sonore offerte, per missione e predisposizione, dal nostro genere prediletto. 

Andiamo a vedere meglio di cosa si tratta facendoci aiutare da Wikipedia: il termine “ballad” indica “un brano lento e melodico, caratterizzato da sonorità dolci, toccanti ed evocative e che arriva ad esplorare temi sentimentali come la nostalgia e la gelosia, la rottura, l'abbandono o ad esprimere semplicemente una dichiarazione d'amore. Le atmosfere possono essere malinconiche, ma anche romantiche o vigorose. Solitamente si fa distinzione fra ballad convenzionale e power ballad se vi è la presenza di una chitarra elettrica distorta che sopraggiunge nel climax del brano per conferire maggiore enfasi emozionale al culmine della canzone e maggior vigore al fraseggio”. 

C’è da dire che, almeno nella sua fase di formazione, l’heavy metal non ha saputo offrire esempi edificanti di ballad propriamente dette, probabilmente perché il genere, per distinguersi dall’hard-rock, trascurava o ripudiava questa forma di espressione, vista come antitetica alla propria missione. I Black Sabbath degli esordi, in linea con gli umori seventies, si concedevano al massimo brevi parentesi psichedeliche come “Planet Caravan” o “Solitude”, ma certo non per stregare le masse. Il repertorio di Judas Priest ed Iron Maiden, che hanno offerto fin dagli esordi un canzoniere superbo, scarseggia di ballate convincenti, preferendo i Nostri non spingersi oltre il modello della semi-ballad (“Beyond the Realm of Death” per i Judas, “Remember Tomorrow”, "Prodigal Son" o “Children of the Damned” per gli Iron), dove gli stilemi metal prevalevano ancora sulla dimensione melodica. 

L'avversione "ideologica" alla ballad è stato un moto di reazione comprensibile a livello culturale ed identitario se si pensa che essa veniva negli anni ottanta e novanta favorita dall’industria discografica ed utilizzata come gancio e traino per le vendite. Essa divenne presto sinonimo di "sputtanamento commerciale", mano a mano che sul fronte del rock e dell'hard rock proliferavano le hit dei vari Bon Jovi, Aerosmith, Def Leppard, Van Halen, Whitesnake ecc, maestri nell’incantare il proprio pubblico (e non solo) con canzoni che sono divenute leggendarie nell’immaginario della musica popolare (con folle di ragazzette dagli occhioni a forma di cuore ed accendini oscillanti nel buio delle arene). Gli intenti commerciali erano evidenti in queste operazioni, e se anche a volte ciò non precludeva la buona fattura del prodotto, quando la cosa sfuggiva di mano era facile raggiungere tassi glicemici poco digeribili da parte di qualsiasi rocker o metallaro che dir si voglia. 

Eppure il successo non faceva schifo a certe band dedite a sonorità più pesanti che iniziavano ad acquisire maggiore visibilità. Gli Scorpions, per esempio, diverranno dei veri maestri del settore, tanto che per molti il loro nome sarebbe rimasto per sempre associato ad una ruffiana “Wind of Change” (di loro noi preferiamo ricordare la splendida “Still Loving You”). Persino Ozzy, Principe dell’Oscurità, non potette esimersi, lui che si era distinto per ballate visionarie come “Goodbye to Romance” o “Killer of Giants” e che di colpo si ritrovò a duettare con Lita Ford nell’imbarazzante “Close My Eyes Forever” (meglio allora rimembrare la più dignitosa, seppur radiofonica, “Mama, I am Coming Home”). Giocavano in casa i protagonisti del glam-metal, che hanno sempre saputo trovare lo spazio per una ballata nei loro album, con risultati anche buoni (come la struggente “Home Sweet Home” dei Motley Crue” o l’epica “The Price” dei Twisted Sister) o persino ottimi (come la mini-suiteNovember Rain” assemblata da dei Guns’n’Roses in stato di grazia). 

E poi non dobbiamo dimenticare che la ballata era pur sempre un cliché irrinunciabile dell’hard rock classico da cui l’heavy metal proveniva (si pensi ai Led Zeppelin di “Babe, I’m Gonna Leave You” o i Deep Purple di “Mistreated”, con un grande Coverdale dietro al microfono): impossibile dunque voltare le spalle senza la curiosità di poterci provare. Si creò, pertanto, una certa zona di compromesso dove la ballad non era vista necessariamente come il male assoluto: a patto che venissero conservate chitarre potenti o altri stilemi caratteristici del genere, essa poteva offrire una variante di registro all’interno dell’album. E così la prassi della ballad per album (spesso collocata a metà, per dare respiro all'ascoltatore, o quasi alla fine, dopo aver chiarito per bene che il metal era al cuore del discorso) si consolidò finché essa divenne un vero must. Vediamo dunque quella decina di titoli che secondo noi rappresentano la categoria della metal-ballad (da non confondere con la power-ballad dell’hard-rock, di cui abbiamo menzionato qualche mirabile esempio di sopra). 

Manowar: “Heart of Steel” (“Kings of Metal”, 1987) 
I Re del Metallo, fra uno spadone ed un perizoma, si sono insospettabilmente dimostrati prolifici nell’arte della ballata – inevitabile risvolto romantico del loro baldanzoso epic-metal. Reduci dal bell’esperimento “Defender” (dall’album precedente “Fighting the World”), i Nostri si offrono al popolo metallico con la loro prima vera ballad, “Heart of Steel”, dal cui titolo si evince che di certo DeMaio & company non si sono abbandonati a sdolcinatezze da alta classifica. Ma anche musicalmente è quanto di più fiero i Manowar potessero concepire. Il brano, un classico riproposto sistematicamente dal vivo, presenta una prima parte pianistica dove Eric Adams sfoggia le sue doti da saltimbanco: un’espressività, la sua, rafforzata nel ritornello da rintocchi di campana e cori odinici. Ma se avessimo ancora qualche dubbio sul fatto che abbiamo a che fare con i veri ed inimitabili Kings of Metal, ecco che chitarra elettrica e batteria irrompono ex abrupto avviando una seconda parte da vera power-ballad (più power che ballad) dove il copione si ripete ma con toni decisamente più enfatici. Epicità al cubo. 

Metallica: “One” (“…And Justice for All”, 1988) 
Non potevano mancare in questa top-ten i Four Horsemen, maestri insuperabili nel confezionare ballad, mai meno che ottime. Se forse tutti avranno pensato alla celebre “Nothing Else Matters”, noi preferiamo fare un passo indietro ed optare per l’altrettanto mitica “One”. Degna erede delle monumentali “Fade to Black” e “Welcome Home (Sanitarium)”, delle quali viene conservata la struttura (partenza introspettiva, corpus metal con coda strumentale), “One” porta con sé i suoni duri dell’album a cui appartiene, resi ancora più aspri dal tema bellico che ispira le litiche (ed anticipato dagli spari in sottofondo ad inizio brano). Nei suoi sette e passa minuti di durata essa offre uno schema elaborato che rifugge dal semplicismo delle ballate che vivono del solo ritornello. L’incipit brilla di un bellissimo arpeggio e dei solismi raffinati di Kirk Hammett, fra cui svetta la bella voce pulita di James Hetfield, pronta ad indurirsi nel ritornello; nella seconda parte i Nostri rompono definitivamente gli indugi e tornano ad indossare le vesti degli spietati thrasher, con un finale al fulmicotone che, nelle celebri smitragliate di chitarre e batteria, evoca i suoni atroci della guerra. Capolavoro. 

Pantera: “Cemetary Gates” (“Cowboys from Hell”, 1990) 
I Pantera, come i Metallica, hanno dimostrato negli anni un insospettabile talento nel cimentarsi nel campo delle ballad: paradossale il fatto che poi i Cowboys from Hell avrebbero dato l’avvio alla stagione del granitico groove metal. Groove metal che sopravvive nelle pieghe anche dei loro momenti più intimi, come accade in questa lunga e coinvolgente ballata che si fregia dei riff taglienti di Dimebag Darrell e delle stoccate alle pelli del fratello Vinnie Paul. “Cemetary Gates” ha veramente tutto quello che deve avere una metal-ballad che si rispetti, dall’arpeggio evocativo al ritornello potente e sostenuto con vigore. Da menzionare un sorprendentemente Phil Anselmo che, prima di fottersi definitivamente la voce a forza di grugnire, qui dimostrava di essere anche un cantante intonato ed espressivo nelle parti pulite, deciso nell’impetuoso ritornello. Ad un passo dall’esplosione del grunge, i Pantera già mostravano di essersi lasciati alle spalle gli anni ottanta, con un sound fresco e con in corpo i semi di quei suoni alternative che avrebbero trionfato di lì a poco. 

Death Angel: “A Room with a View” (“Act III”, 1990) 
Anche l'Angelo della Morte mostra un suo animo gentile: questa sorprendente ballata acustica tradisce le origini latine del combo, con umori solari, chitarre spagnoleggianti e armoniose linee vocali che si intrecciano in modo fluido ad accompagnare il canto da eunuco di Mark Osegueda (significativo il supporto dietro al microfono del resto dei componenti della band). Chitarre elettriche irrompono con gentilezza a metà del brano, forse per quel senso di colpa che spesso affligge i metallari in queste circostanze, ma qua, più che mai, le chitarre impediscono al brano di scivolare nell’“eccessivamente radiofonico”. Impossibile indovinare da queste note che la band è solitamente dedita al thrash metal, difficile persino affermare che essa suona metal, ma “A Room with a View” rimane un gioiello prezioso da non dimenticare nel vasto campionario delle metal-ballad

Queensryche: “Silent Lucidity” (“Empire”, 1990) 
Si scrive “Silent Lucidity” ma si deve leggere “Comfortably Numb”. La band di Seattle non ha mai nascosto la propria ammirazione per i Pink Floyd, facendosi ispirare in modo significativo dalla storica band inglese fin dal concept-capolavoroOperation: Mindcrime”. In “Empire”, più orientato verso un hard-rock pomposo di stampo americano, queste influenze affievoliscono per riemergere prepotentemente in questa straordinaria ballata, il cui video circolava nelle notti dei metallari insonni. Non a caso il tema trattato era quello dei sogni lucidi, aspetto che si ripercuote nelle atmosfere sognanti del brano. Per il resto, “Silent Lucidity” ha tutte le caratteristiche per piazzarsi nelle zone alte di ogni classifica di metal-ballad: arpeggio iconico, solita magistrale interpretazione di Geoff Tate, arrangiamenti di archi ed un ritornello corale che sembra uscire direttamente da “The Wall”. Ad aggiungere gloria alla gloria, un clamoroso assolo da parte del sempre grande Chris De Garmo, autore del brano. Come non poter contemplare questa gemma di “metal pensante” nella nostra top-ten? 

Savatage: “Believe” (“Streets: A Rock Opera”, 1991) 
E non potevano certo mancare i Savatage che con le loro strazianti ballate hanno dato letteralmente il loro meglio, grazie all’ugola arrochita di Jon Oliva, le sigarette spente ma ancora fumanti sul suo pianoforte suonato con disperazione, l’innato estro melodico del fratello Criss e le orchestrazioni messe a disposizione dal produttore Paul O’ Neil. “Believe”, per giunta, rappresenta l’acme emotivo del concept raccontato in “Streets”, avendo l’onore di concluderlo. E' una ballata pianistica percorsa da emozioni incredibili, con inizio in punta di piedi a base di voce e pianoforte, ma presto stravolta da un epico crescendo dove la chitarra di Criss fa prodezze, fra accordi potenti e sublimi assoli che si intrecciano in modo miracoloso al canto tormentato (ma per l'occasione pregno di speranza!) del fratello Jon. A parere di chi scrive, la miglior ballata metal di sempre. 

Dream Theater: “Another Day” (“Images and Words”, 1992) 
Si rasenta il pop (d’autore) con questo brano sentimentale che John Petrucci dedica al padre a cui era stato diagnosticato un cancro. Sarà la voce vellutata di James LaBrie, gli inserti discreti di un sax, il mood zuccheroso, ma non tutto sembra essere congeniale all’orecchio del metallaro. In “Another Day”, tuttavia, si compie un miracolo più importante, ossia il raggiungimento da parte dei Dream Theater del perfetto equilibrio fra tecnica ed esigenze melodiche. Il miele viene controbilanciato dall’approccio ai rispettivi strumenti da parte dei cinque musicisti, ognuno intento a valorizzare ogni singola nota, e lo si capisce a venti secondi dall’inizio, quando l’assolo di John Petrucci ci avvolge in un caloroso abbraccio, supportato dai preziosismi dietro alle pelli di Mike Portnoy. Le prodezze si sprecano in questi quattro minuti, che hanno il pregio di scorrere via come un bicchier d’acqua, merito di un ensamble al top dell'affiatamento, prima che il manierismo o la voglia di esagerare prendessero il sopravvento sulla ispirazione. 

Blind Guardian: “The Bard’s Song” (“Somewhere Far Beyond”, 1992) 
Questo gioiello interamente acustico ha il pregio di saper trasudare spirito heavy metal da ogni poro, pur non dovendo ricorrere ai classici espedienti della metal-ballad, come le chitarre distorte che irrompono nel ritornello, dove si è soliti fare la voce grossa. Qui la voce grossa, quella di Hansi Kursch, c’è dall’inizio: la sua raucedine marchia a fuoco le chitarre acustiche di André Olbrich e Marcus Siepen, muovendosi con la grazia di un orco nel tessere immaginifiche melodie da menestrello medievale. Tanto che l’impressione è quella di trovarsi, insieme ai quattro bardi, vicino ad un crepitante falò notturno, niente meno che nelle foreste della Terra di Mezzo. Potere alla fantasia! 

Bruce Dickinson: “Tears of the Dragon” (“Balls to Picasso”, 1994) 
Se si diceva in apertura che gli Iron Maiden non sono mai stati particolarmente portati a scrivere pezzi lenti, c’è da dire che Bruce Dickinson da solista se l’è cavata decisamente meglio. Maideniana fino al midollo (si pensi al ritornello), questa epica ballata è quanto di meglio le orecchie del metallaro possano incontrare sull'argomento: caratterizzata da un incipit acustico (bellissimo l’arpeggio) e chitarre elettriche che compaiono nel ritornello, essa rappresenta sei minuti di estasi metallica che brillano non solo per le doti interpretative del sempre ottimo Dickinson, ma anche per la chitarra infuocata di Roy Z, responsabile, fra le altre cose, di un pregiato assolo nell’incalzante parte centrale. Come gli Iron, ma meglio degli Iron...

Nevermore: “Believe in Nothing” (“Dead Heart in a Dead World”, 1999) 
Accompagnato da un video assai ruffiano (con tanto di bellona di turno), questo brano ci offre dei Nevermore intenti ad agganciare fasce più ampie di pubblico, ma senza perdere un briciolo quanto a rigore ed autenticità. Solita prestazione maiuscola di Warrel Dane, corredata da un ritornello potente e chitarroni sempre pronti a sbucare fuori a movimentare il tutto. Un suono moderno e le prodezze degli abili musicisti fanno da utile cornice a questa ballata che, se negli intenti era forse stata concepita come traino commerciale per l’album, conserva tutta la classe compositiva e gli umori amari che sono parte irrinunciabile della cifra stilistica della band. 

P.S. Ci dicono dalla regia che sarebbe poco cortese non segnalare “Snuff” degli Slipknot, successone del metal del terzo millennio corredato da un signor videoclip che ha le fattezze di un cortometraggio. Si, tutto molto bello, ma il brano in sé non ci sembra vada più di tanto oltre certi stilemi del filone post-grunge ben noti da tempo nell'empireo del rock alternativo. Niente di particolarmente caratteristico od innovativo, a nostro parere, tale da scalzare alcuno dei dieci nomi sopra elencati. 

Allora piuttosto, se si deve parlare di illustri assenti, preferiremmo menzionare le bellissime ballate di band come Opeth, Anathema, Katatonia, Tiamat o Gathering che abbiamo deciso di omettere in questa sede semplicemente perché i Nostri, dedicandosi ad altre sonorità esterne al metal, non si sono cimentati nella metal-ballad in senso stretto, che era il tema del nostro scritto di oggi. Chissà, se un giorno avremo voglia di indugiare sul tema, potremmo anche stilare una top-ten dedicata alle più belle ballate suonate da coloro che una volta suonavano metal...