"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 gen 2021

I MIGLIORI DIECI BRANI DEL DEATH METAL


Facendo seguito al post di introduzione sui migliori brani del metal estremo (dove ci eravamo limitati ad elencare dieci titoli di proto-extreme metal che avevano segnato la storia di questo tipo di sonorità), ci addentriamo adesso nello specifico mondo del death metal

La genesi di questo sotto-genere si era compiuta sostanzialmente in due-tre balzi nella seconda metà degli anni ottanta con opere seminali quali “Seven Churches” (Possessed), “Scream Bloody Gore” e “Leprosy” (entrambi rilasciati dai Death), e con la benedizione degli Slayer che, prima con “Hell Awaits” e poi (soprattutto) con “Reign in Blood”, avevano letteralmente messo nero su bianco la grammatica del metal estremo. 

Oggi ci concentriamo sulla fase della maturità del death metal, quella che potremmo definire “classica” (e daje!), consapevoli che il death metal è arrivato ai nostri giorni non solo consolidando gli stilemi delle origini, ma anche evolvendosi tecnicamente, toccando vette compositive che avrebbero sospinto il genere fuori dalla forme classiche, quelle che appunto vedremo oggi; con un paio di eccezioni che ci condurranno dalle parti del technical death metal ed agli albori del melodic death metal
Ulteriori sviluppi verranno sondati nella rassegna dedicata al metal estremo "evoluto"… 

Entombed: “Left Hand Path” (“Left Hand Path”, 1990) 
Il death metal vide certamente i suoi natali negli Stati Uniti, ma la Svezia in particolare sarebbe stata capace di intercettare quelle sonorità in tempo reale, rivelandosi un terreno fertile per il genere. Fra i primi mover vanno senz’altro indicati gli Entombed, considerati, se non i padri del death metal svedese, gli esponenti più importanti della scena. Prima della svolta death’n’roll, la band avrebbe realizzato un paio di album storici, fra cui l’incredibile debutto “Left Hand Path”, dal quale oggi peschiamo in modo scontato la celebre title-track. In quasi sette minuti i Nostri offrono una loro personale visione del death metal, tanto efferata quanto complessa. Aperto da pochi secondi di grida allucinate, il brano si compone di una prima parte adrenalinica che alterna fasi tiratissime e puntuali rallentamenti: un'epica cavalcata impreziosita dagli ispirati assoli della premiata ditta Uffe Cederlund/Alex Hellid. Il sound degli Entombed si caratterizza fin da subito per chitarre ruvide (un suono che farà scuola) ed un dinamismo sconosciuto al death metal del periodo (un plauso all'eccezionale lavoro dietro alle pelli del carismatico Nicke Andersson). Ma il vero colpo di scena è l'orrorifico giro di tastiere (in stile “L’Esorcista”) a due terzi del brano, preludio ad una maestosa coda doom che svanisce in dissolvenza portando con sé solenni umori da trapasso... 

Obituary: “Chopped in Half” (“Cause of Death”, 1990) 
Gli Obituary hanno fin dagli inizi offerto una visione peculiare del genere, non premendo eccessivamente sull’acceleratore e puntando sull'atmosfera (vengono in mente i Celtic Frost, di cui i Nostri non hanno mai nascosto di essere dei grandi ammiratori). Dal punto di vista compositivo, i brani si mostravano sempre ricchi di spunti interessanti, spesso disseminati in strutture che regolarmente se ne stavano alla larga dal classico formato strofa-ritornello. Da qui l’impossibilità di individuare la vera “hit” degli Obituary. “Chopped in Half”, dal capolavoro “Cause of Death”, si fa precedere da un intermezzo ambientale ed irrompe brutalmente con la voce strascicata di John Tardy, fra le più riconoscibili del genere, supportata da chitarre intermittenti e la puntale doppia-cassa del fratello Donald. La seconda parte, per lo più strumentale, si sviluppa attraverso un granitico riffing di marca slayeriana, intervallato talvolta da asfissianti rallentamenti o brusche accelerazioni, il tutto illuminato da un grande equilibrio compositivo. Ciliegina sulla torta: i begli assoli dell’ex Death James Murphy, che solo in occasione di questo album avrebbe prestato il suo talento agli Obituary, prima di concentrarsi sul suo progetto personale Disincarnate

Deicide: “Dead by Dawn” (“Deicide”, 1990) 
I Deicide hanno senz’altro rappresentato il fronte più avanzato quanto a blasfemia in campo death metal. Il credo satanico del front-man Glen Benton caratterizza testi ed umori di brani spesso brevi e veloci come da tradizione. Se il drumming quadrato e potente di Steve Asheim e le trame chitarristiche dei fratelli Hoffman non hanno mai brillato per eccessiva fantasia, è capacità indubbia della band quella di dare a ciascun brano specifici tratti distintivi, grazie soprattutto alla prova sopra le righe di Benton che, almeno ad inizio carriera, amava miscelare le tecniche del growl e dello screaming in malefiche commistioni. L'ottima “Dead By Down”, per esempio, si distingue per una prova eccezionale dietro al microfono, con un Benton invasato che, fra ira mefistofelica e spasmi fantasmatici, vomita blasfemie in perfetta simbiosi con le ritmiche furibonde. Ma la vera ciliegina della torta è il ritornello a metà del brano, dove il titolo viene mitragliato con furia epilettica (DE-BA-DA DE-BA-DA DE-BA-DAAA) mentre chitarre e batteria scatenano letteralmente l'Inferno. 

Bolt Thrower: “Cenotaph” (“War Master”, 1991) 
Gli inglesi non sono uno di quei gruppi che amano variare più di tanto la propria proposta: con i piedi ben saldi sulle certezze della Vecchia Scuola, i Bolt Thrower si meritano comunque il loro posto d’onore nella nostra top-ten, se non altro per presenziare con questo brano che si apre e si chiude con un riff portentoso che non potrà non esaltare chiunque ne entri a contatto: chitarre che girano come rulli di schiaccia-sassi, doppia-cassa a manetta e rullate al posto giusto per un ingresso in fade in che parte dal silenzio per farsi progressivamente sempre più devastante. In mezzo al brano: rallentamenti funerei ed epiche ripartenze che ben supportano il tema bellico che da sempre sta dietro al concept lirico degli album dei Nostri, ben esposto dalla voce impastata di Karl Willets. A loro modo: unici. 

Morbid Angel: “Blessed are the Sick” (“Blessed are the Sick”, 1991) 
A parere di chi scrive i Morbid Angel sono, insieme ai Death, la band death metal per eccellenza. Le rimiche contorte, gli assoli malati di Trey Azagthoth, il drumming marziale ed urticante di Pete Sandoval, la voce imperiosa di David Vincent: tutto è estremamente caratteristico nel death metal dell’Angelo Morboso. Scegliamo un loro brano molto particolare, quella “Blessed are the Sick” dall’incedere scricchiolante, dominata da riff fangosi e tempi cadenzati. Certo essa non rappresenta il lato più violento della band, ma di certo ad emergere è quello più malsano, dove la chitarra disegna geometrie sbilenche e i colpi singhiozzanti della batteria, accompagnati dallo scorrere velocissimo della doppia-cassa, creano scenari diabolici dove il canto teatrale di David Vincent può esprimere tutto il suo potenziale visionario. Da applausi il ritornello con echi e minacciose sovrapposizioni di voci e i misurati interventi di tastiera chiamati a conferire un'atmosfera solenne alle deliranti costruzioni di chitarra e batteria. Il sinuoso flauto in coda (la breve “Leading the Rats”) compensa in parte l’assenza di un assolo propriamente detto, terreno in cui Azagthoth si muove con la destrezza del vero genio. 

Cannibal Corpse: “Hammer Smashed Face” (“Tomb of the Mutilated”, 1992) 
I Cannibal Corpse sono un altro fondamentale pilastro del death metal americano. Per gli amanti delle tematiche splatter, i Nostri hanno da sempre rappresentato una garanzia con i loro testi truculenti e una proposta fra le più brutali in circolazione. A colpire, prima di tutto, è il contrasto fra l’alta preparazione tecnica dei musicisti (che permette loro di variare in un contesto dove i margini di manovra sono davvero limitati) e il rantolo putrescente di Chris Barnes, che a modo suo ha saputo fare scuola. “Hammer Smashed Face” è il loro brano più noto, caratterizzato da un solidissimo riff che ti si stampa subito in testa ed un ritornello dove le chitarre edificano un qualcosa di intellegibile per l’ascoltatore. Per il resto siamo ai cospetti della consueta carneficina messa in atto dai Nostri con lucido raziocinio, fra cambi di tempo spezza-collo e riff trita-ossa, ma non priva di guizzi individuali degni di nota (si guardi, per esempio, alle linee di basso dell'estroso Alex Webster, dispensatore di magie con uno strumento da sempre trascurato nel death metal). 

Carcass: “Heartwork” (“Heartwork”, 1993) 
Partiti dalle stesse premesse liriche e concettuali dei Cannibal Corpse, gli inglesi Carcass, contrariamente ai loro colleghi americani, sapranno evolvere in forme più raffinate di death metal, per arrivare all’approccio melodico del loro capolavoro formale “Heartwork”. La title-track costituisce quanto di più audace, in tal senso, i Nostri avessero combinato fino ad allora, e lo si capisce già dall’incredibile incipit del brano: riff intricati e blast-beat intermittenti e poi l’esplosione inaspettata di un assolo melodico mutuato dall'heavy metal classico. Il corpus del brano si evolve in un agguerrito riff thrasheggiante, dove il grugnito a denti stretti di Jeff Walker interpreta i testi con rinnovata espressività, senza cedere di un grammo quanto a cattiveria. Ma a parte il coinvolgente ritornello, il brano verrà ricordato per le sue frequenti aperture melodiche che mettono in mostra la preparazione tecnica e il gusto delle due asce Bill Steer e Michael Ammott (anche negli Arch Enemy), musicisti sopra la media che non a caso fanno parte della Storia del death metal

Death: “The Philosopher” (“Individual Thought Patterns”, 1993) 
Ci vorrebbe una rassegna a parte per celebrare la grandezza di Chuck Schuldiner e della sua band. Di brani epocali il Nostro ne ha scritti a palate, dalle forme più rozze delle origini a quelle più sofisticate dell’ultima fase, dove parlare di death metal in senso stretto diviene fuori luogo. In mezzo, un paio di capolavori di technical death metal come “Human” ed “Individual Thought Patterns”. Alla fine scegliamo uno dei brani più noti del canzoniere dei Nostri, quella “The Philosopher” di cui esiste persino un videoclip. L’approccio tecnico alla materia death metal qui raggiunge il suo apice grazie ad una formazione stellare: il drumming intricato e pulito del maestro Gene Hoglan (ex Dark Angel), il basso jazzato di Steve DiGiorgio (Sadus), i preziosismi solistici di Andy LaRoque (King Diamond) rendono ancora più elaborata la visione artistica del leader della band, tanto fantasioso alle sei corde quando feroce dietro al microfono. Il brano presenta, senza perdere in scorrevolezza, svariate sezioni che come al solito si spalmano su una struttura in cui si conserva il formato strofa-ritornello. Ma a scapito dello schema, forse prevedibile in quanto adottato sistematicamente dalla band, tutto è sorprendente in questo brano: dall’introduzione melodica, alle progressioni di riff e batteria, al minaccioso susseguirsi di bridge e ritornello, fino all'assolo centrale ed alla maestosa coda in dissolvenza dove chitarra e basso si affronteranno in un epico duello all’ultimo assolo. 

Cynic: “Veil of Maya” (“Focus”, 1993) 
I dotati Paul Masvidal e Sean Reinhert si erano fatti le ossa nella prestigiosa "Università dei Death", avendo prestato rispettivamente chitarra e batteria nel mitico “Human”. E con "Focus", folgorante esordio dei Cynic, confezionavano al primo colpo una perla inarrivabile di technical death metal, spingendo i confini del genere laddove nessun altro aveva mai osato prima, lambendo i territori del jazz, della fusion e della new age. Sono gli anni in cui esperimenti analoghi venivano compiuti da band come Atheist e Pestilence, ma i Cynic rappresentano veramente il top di gamma. L’openerVeil of Maya” è il perfetto biglietto da visita per accedere al mondo dei Cynic, ove voci pulite, modulate da un vocoder, e interludi acustici da brividi (a tratti farà persino capolino una gentil donzella) convivono pacificamente con un raschiante growl ed intricate trame chitarristiche che evocano per forza le prodezze dei Death. Tecnica&Cuore trovano il perfetto equilibrio nel modus operandi di questi quattro audaci alfieri del death metal più illuminato, dando al genere inediti risvolti spirituali. 

At the Gates: “Blinded by Fear” (“Slaughter of the Soul”, 1995) 
Avevamo aperto con la Svezia e chiudiamo il cerchio con un’altra band svedese, gli At the Gates: pionieri e promotori del cosiddetto Gothenburg sound, altresì detto melodic death metal. Brano breve ma intenso, l’opener del bestsellerSlaughter of the Soul” indugia qualche istante fra ronzii di spinotto, clangori industriali ed una voce campionata, per poi esplodere in tutta la sua furia con un riff selvaggio e il piede ben premuto sull’acceleratore. I suoni grezzi, come da tradizione svedese, esaltano la violenza hardcore che anima il sound dei Nostri e l'acido screaming di Tomas Lindberg ne è il perfetto complemento. Si prega tuttavia di notare come l'assalto frontale degli At the Gates non perda mai di vista la melodia, non solo nel riffing, sempre ispirato, ma anche negli assoli. Ulteriore elemento degno di menzione è l'arpeggio piazzato inaspettatamente prima dell'assolo, prova della capacità della band di saper condensare idee vincenti in spazi ristretti. Il futuro del death metal sarebbe passato anche da qui...

Si conclude nell'anno 1995 la nostra dissertazione odierna sul death metal, ma, come si diceva sopra, il genere continuerà il suo cammino fino ai giorni nostri, sia in forma ortodossa che attraverso interessanti mutazioni. A tratti, come genere, esso verrà adombrato dalle nuove sensazioni del metal estremo, fra le quali va di sicuro contemplato il black metal  così come sarebbe stato rielaborato in terra scandinava nel corso degli anni novanta. Abbiamo già dedicato al tema un'intera rassegna, ma vorremmo ripercorrerne velocemente la saga con la prossima top-ten...