"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

2 feb 2018

L'ULTIMO SCHULDINER



Ogni album dei Death ha descritto una particolare fase di un percorso che, unico nel metal, ha rappresentato il fruttuoso equilibrio fra evoluzione e conservazione: una progressione ragionata che ha rispecchiato la crescita dell’artista Chuck Schuldiner senza stravolgerne i caratteristici tratti identitari.

Unico nel metal perché questo percorso è stato animato da una costante ricerca volta a sviluppare uno stile originale che se in un primo momento è stato copiosamente imitato, successivamente si è fatto cammino solitario indirizzato ad integrare arte ed artista in ogni singola nota. Una parabola che dal death metal ha condotto ad un qualcos’altro che a noi piace chiamare semplicemente “arte schuldineriana”: un amalgama di note, parole e dinamiche che è divenuto un unicum indistinguibile di cuore, mente, mani e voce del suo artefice.

La scomparsa prematura del leader dei Death ha interrotto un percorso virtuoso che avrebbe potuto dire molto altro ancora. Oppure no, chi lo sa: probabilmente, come successo anche ai migliori, con il trascorrere degli anni si sarebbe presentata una fisiologica fase di calo, nessuno può saperlo. Quello che è certo è che finché è stato su questa terra il buon Chuck non ha sbagliato un colpo. Questa sorta di infallibilità è derivata in gran parte da un rigoroso modus operandi basato su una ferrea aderenza alla propria visione artistica e sulla volontà di migliorarsi continuamente. Un tale metodo, in un certo senso, ha anche imposto delle rigidità e c’è sicuramente chi non ha apprezzato fino in fondo il risultato finale. I brani (salvo i rari episodi strumentali) hanno sempre mantenuto la stessa struttura e così, varcato il momento dell’assolo centrale, c’era ogni volta da rassegnarsi alla pedissequa ripetizione della prima parte del brano, salvo poi sperare in qualche variazione in coda. La tanto decantata evoluzione, inoltre, è stata compiuta gradualmente, senza che le regole del gioco venissero mai stravolte. E tutto questo insieme di cose, indubbiamente, ha portato con sé un certo grado di prevedibilità. Non facciamo infine fatica a credere che molti appassionati di death metal avranno trovato oziosi molti passaggi dei Death della maturità. Vi erano infatti caratteristiche intrinseche del processo creativo che hanno in un certo senso ingessato il sound della band: anzitutto una scrittura cerebrale e poco incline a concedere spazio all’improvvisazione. Ma anche l'esclusione a priori della jam intesa come luogo ove tutti i componenti della band potessero in simultanea fornire un contributo: tutto questo, ovviamente, marciava nella direzione opposta ai gusti di chi invece richiedeva scorrevolezza e fluidità.

Eppure, una volta entrati nel mondo di questo grande interprete del Metallo, è facile constatare come ogni singolo album incarni una sua intrinseca perfezione, costituendo il massimo che ogni volta la band poteva dare. “Scream Bloody Gore” (1987) e “Leprosy” (1988) gettarono le basi stilistiche di un nuovo genere, il death metal, che proprio dai Death prendeva il nome. I suoni erano violenti ed enfatizzati, ma dietro di essi già operavano una mano sapiente ed una mente lucida che manifestava la volontà di intraprendere una direzione personale, disancorandosi dalle lezioni di quegli Slayer che nella seconda metà degli anni ottanta dettavano legge in materia di metal estremo.

Con “Spiritual Healing” (1990) a gettare un ponte verso un approccio più complesso sia in sede di scrittura che di esecuzione, i Death approdarono ai lidi del technical death metal con capolavori ineguagliabili come “Human” (1991) ed “Individual Thought Patterns” (1993). Anche i testi, come i temi ritratti in copertina, si portavano ad un livello di maggiore profondità: dalle visioni mostruose e sanguinarie degli esordi (visioni che in realtà erano già dal principio metafore per descrivere la realtà sociale) si progrediva verso acute e spesso ciniche analisi sociologiche.

Con “Symbolic” (1995) si apre una terza ed ultima fase che “The Sound of Perseverance” (1998) porterà avanti con convinzione: le liriche si ammantavano di suggestioni filosofiche ed esistenzialiste, mentre il sound si faceva sempre più raffinato, tanto da portarsi fuori dai canoni classici del death metal. Un procedere in avanti che di traverso guardava anche in dietro, recuperando gli stilemi del metal classico: intento che poi si sarebbe realizzato in modo compiuto con l’album “The Fragile Art of Existence” (1999), rilasciato dai Control Denied, ma degno e coerente continuatore della crociata artistica di Chuck Schuldiner, che nel frattempo combatteva contro quel male che l’avrebbe poi condotto, di lì a poco, al termine del suo viaggio su questo mondo.

Commovente è stato questo ultimo tratto di strada percorso a fianco dello spettro della morte: per questo la musica dell’ultimo Schuldiner, già di per sé complessa e stratificata, si è impregnata di significati ulteriori, ammantandosi di malinconia, amarezza, disperazione, ma anche di forza, determinazione e voglia di continuare ad agire nonostante tutto stesse svanendo: la fragile arte dell'esistenza. Ripercorriamo insieme questi ultimi passi.

“Symbolic” (1995)

Dei musicisti che avevano contribuito alla gestazione di “Individual Thought Patterns” la spunta solo il maestro Gene Hoglan, il quale avrebbe fornito la sua miglior prestazione di sempre. Il suo drumming intricato raggiunge qui vette di virtuosismo inaudite, ma quello che genera stupore più di ogni altra cosa è constatare come ogni colpo di bacchetta, ogni singolo tintinnar di piatti, ogni clamoroso cambio di tempo sia funzionale a supportare la crescita di Schuldiner, sia come autore che come interprete ed esecutore. Il suo stile chitarristico progredisce ulteriormente plasmandosi in un riffing sempre più fantasioso e perseguendo una ricerca melodica che fiorisce in assoli superlativi (inseriti in ogni dove) e soluzioni inedite: effetti, riverberi, delay, giochi di volume, pizzicati di chitarra classica si accompagnano ai minacciosi pulm-muting, ai tapping vorticosi, alla tecnica del legato ed alle proverbiali scale (quella minore armonica in primis). Il growl si inasprisce affilandosi in un uno screaming tagliente: medium ideale per supportare una visione spietatamente cinica della società e delle relazioni interpersonali. Le composizioni, parimenti, si fanno sempre più complesse e ricche di sfaccettature: se negli album appena precedenti la durata dei brani si concentrava fra i tre e i quattro minuti, in “Symbolic” le tracce si muovono mediamente fra i cinque e i sei, con picchi di otto minuti, denotando un modo di procedere più ragionato e per certi aspetti progressivo. Quanto al resto della band, l’operato alle quattro corde del discreto Kelly Conlon non è ovviamente all’altezza di quanto fatto in passato dall’inarrivabile Steve DiGiorgio, mentre la chitarra di Bobby Koelble si ritaglierà solo qualche sporadico momento solistico. Questi, tuttavia, sono dettagli irrilevanti se messi accanto al raggiungimento di una maturità artistica che sa portarsi oltre i cliché del death metal per divenire pura espressione di talento, al di fuori di ogni possibilità di catalogazione.

“The Sound of Perseverance” (1988)

Sciolti dopo il tour promozionale di “Symbolic”, i Death si riformano per dare alla luce quello che rimarrà il loro ultimo album. La formazione, come da copione, viene ancora una volta rivoluzionata e per l’occasione vengono impiegati i musicisti che erano stati reclutati per dare vita ai Control Denied, il nuovo progetto di Schuldiner, il quale aveva espresso il desiderio di orientarsi verso sonorità più classiche: rispondono così all’appello Shannon Hamm (chitarra), Scott Clendenin (basso) e Richard Christy (batteria), tutti mostruosi ai rispettivi strumenti. In particolare Christy, batterista straordinariamente dinamico e dotato di immane potenza, riuscirà nell’impresa incredibile di non far rimpiangere la dipartita del veterano Gene Hoglan, in compagnia del quale il nuovo sound dei Death era stato sviluppato. Le influenze del metal classico si sentono, ma esse si fondono, senza disturbare, alla sempre più pronunciata vocazione melodica di Schuldiner. In una sorta di percorso a ritroso condotto verso le sue origini, il chitarrista decide di lasciar affiorare con maggior libertà l’amore/devozione per quelle band con cui si formò in gioventù: questo avverrà senza strappi, in modo naturale, cosicché a tutti risulterà finalmente chiaro da dove era originato quel linguaggio così rivoluzionario che aveva fatto scuola in campo estremo. Ogni nota di “The Sound of Perseverance” trasuda passione. Ogni sillaba (scandita con ferocia chirurgica attraverso smorfie digrignanti non più riconducibili all’antico growl) è letteralmente una rasoiata esistenziale e si incastra alla perfezione fra riff e trame melodiche. Ogni passaggio, in definitiva, è pregno di quella poetica pragmatica che ha animato, fra ragione e sentimento, l’opera omnia di Chuck Schuldiner, infaticabile promotore del suono della perseveranza, vivida espressione artistica di una necessità di agire nonostante la caduta di ogni illusione. La priestianaPainkiller”, inserita come bonus-track, viene degnamente interpretata dalla band (emozionante e schuldineriano fino al midollo l’assolo) con un Chuck inedito dietro al microfono che tenta strade prossime al canto pulito: citiamo questo episodio atipico perché esso costituisce il ponte verso quei Control Denied che, in modo definitivo, sposeranno la causa del metal tradizionale.

“The Fragile Art of Existence” (1999)

Il titolo è eloquente nell’introdurre quelle che sono state le ossessioni che hanno impregnato l’ultimo periodo di vita dell’artista. Nel maggio del 1999 la malattia che avrebbe condotto il Nostro alla morte aveva iniziato a manifestarsi e “The Fragile Art of Existence”, pubblicato a fine anno, si consegna alle nostre orecchie come il testamento artistico di Chuck Schuldiner. L’album presenta una formazione simile a quella presente su “The Sound of Perseverance”, fatta eccezione per il ritorno dell’amico Steve DiGiorgio al basso e per l’innesto del cantante Tim Aymar, chiamato a dispensare dal canto lo stesso Schuldiner che aveva espresso a più riprese la sua inadeguatezza dietro al microfono. I brani vennero scritti pensando a Rob Halford e vi furono persino dei contatti con l’amico Warrel Dane, il quale dovette declinare la succulenta offerta in quanto impegnato in un tour con i suoi Nevermore. Aymar, da parte sua, si rivelerà tutt’altro che un ripiego, presentando peraltro uno stile vocale molto simile a quello di Dane. Nonostante l’album si scolleghi definitivamente dall’universo estremo in cui il sound dei Death si era forgiato, esso suona esattamente come un album dei Death: riffing, assoli, trame melodiche, struttura dei brani, songwriting, tutto evoca l’ultima fase dei Death. Persino le vocalità pulite del versatile Aymar, il suo modo di scandire le parole, di recitare i testi ricordano a tratti il modo di cantare di Schuldiner. “The Fragile Art of Existence” è ben più che il classico album power metal della seconda metà degli anni novanta. Esso si distingue per i suoni rocciosi e la potenza delle ritmiche, le quali rinvigoriscono una intensa ricerca melodica; i brani, inoltre, presentano strutture dinamiche e risultano continuamente illuminati da funambolismi che vengono profusi a tutti i livelli grazie all’altissimo tasso tecnico dei musicisti; l'album, nel complesso, portava con sé un reale e sincero mood malinconico conferito dal periodo di travaglio esistenziale vissuto da chi aveva scritto musiche e testi. Ma soprattutto "The Fragile Art of Existence" suonava unico per via dello stile inconfondibile di Chuck Schuldiner, inesauribile fonte creatrice che sovrasta i generi (death, thrash, power, prog ecc.), finendoli per trascendere.

“The Fragile Art of Existence” è una istantanea che immortala per sempre l’arte schuldineriana nel suo ennesimo momento di perfezione, sospendendo in eterno una ricerca stilistica che ha finito per coincidere con quell'arte fragile che è l'esistenza.

Bello ricordarti così, Chuck!

Playlist essenziale:

1) “Symbolic” (“Symbolic”)

2) “Empty Words” (“Symbolic”)

3) “Crystal Mountain” (“Symbolic”)

4) “Spirit Crusher” (“The Sound of Perseverance”)

5) “Flesh and the Power It Holds” (“The Sound of Perseverance”)

6) “Voice of the Soul” (“The Sound of Perseverance”)

7) “Painkiller” (Judas Priest cover, bonus-track in “The Sound of Perseverance”)

8) “Consumed” (“The Fragile Art of Existence”)

9) “Expect the Unexpected” (“The Fragile Art of Existence”)

10) “The Fragile Art of Existence” (“The Fragile Art of Existence”)