"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

5 dic 2020

I MIGLIORI DIECI BRANI METAL DI SEMPRE


Le top-ten comportano sempre un processo di semplificazione della realtà, ma in questa perdita di complessità o di importanti pezzi di significato, guadagniamo in termini di sintesi e visione d’insieme. Sono operazioni faticose, a volte dolorose, e spesso conducono ad esiti opinabili, irrimediabilmente affetti da gusti o percezioni personali (ma quale umana speculazione, del resto, non lo è?). 

I migliori dieci brani di sempre del metal. Non è la prima volta che Metal Mirror si cimenta in una prova di estrema semplificazione metallica: ricordate “I migliori dieci album metal di sempre”? Bene, oggi alziamo ulteriormente l’asticella delle nostre ambizioni e ci poniamo l’obiettivo di selezionare i dieci brani che secondo noi sono i più “belli” dell’heavy metal, quelli che faremmo ascoltare ad un neofita per fargli capire, al primo colpo, la grandezza del nostro genere preferito. Ma se individuare dieci album fu una strage, fermarsi a dieci brani è un vero genocidio, considerata la ricchezza e la varietà di espressioni che il metal ha saputo offrire nel corso delle sue cinque decadi di esistenza. 

Per noi, questi dieci brani, non sono solo belli, ma sono anche significativi, iconici, portatori di un valore simbolico che li rende universali, in altre parole imprescindibili per chiunque si approcci al metal per la prima volta, indipendentemente dai gusti e dalle propensioni personali. 
E ci perdonino gli estimatori delle sonorità alternative od estreme se anche questa volta abbiamo privilegiato l’heavy metal classico. Del resto bisogna sempre partire dalle basi… 

Black Sabbath: “Heaven and Hell” ("Heaven and Hell", 1980) 
Inauguriamo la rassegna con questo monumento dell’heavy metal, partorito da coloro che comunemente vengono considerati gli inventori del genere stesso, ma in una fase delicata: all’indomani del divorzio con Ozzy Osbourne (non un rimpiazzo proprio da poco...). “Heaven and Hell” (l’album), lungi dall’essere un passo incerto e tremolante, segna in realtà l’inizio di una nuova era per Tony Iommi & Co., grazie proprio all’ingresso dietro al microfono del grandissimo (oserei dire immenso) Ronnie James Dio, che porta nel Sabba Nero sonorità ed umori delle sue esperienze passate, in particolare le atmosfere e il tocco fantasy dei Rainbow. Il sound rimane pesante, ma una volta spurgato dagli strascichi freak, psycho e blues che avevano caratterizzato i lavori della decade precedente, le nuove composizioni acquisiscono un inedito dinamismo ed una rinnovata freschezza, con la benedizione del ruggito grintoso di Dio che offre una prestazione eccellente. E nei suoi molti e svariati sviluppi, la qui presente title-track annovera riff memorabili, un giro di basso a dir poco leggendario, cori epici e un cavalcata finale che entra di diritto nella storia dell’Heavy Metal (con H ed M maiuscole). 

Ozzy Osbourne: “Mr. Crowley” ("Blizzard of Ozz", 1980) 
Se i Black Sabbath si affacciano sulla decade ottantiana più in forma che mai, Ozzy non se ne sta certo a guardare, e pochi mesi dopo il rilascio di “Heaven and Hell” il Nostro risponde agli ex colleghi con il suo primo album solista “Blizzard of Ozz”. Illuminato dall’estro del giovane e talentuoso chitarrista americano Randy Rhoads, l’album si scrolla di dosso certe atmosfere sulfuree del Sabba Nero per avvicinarsi ad una dimensione più orientata ad un frizzante hard-rock "tinto a a stelle e strisce”. Fra i tanti classici presenti in scaletta, noi optiamo per “Mr. Crowley”, con la celebre apertura di organo di Don Airey (già collaboratore dei Black Sabbath). Il resto del brano marcia su tempi medi e singhiozzanti ove si intrecciano miracolosamente sublimi fraseggi chitarristici (con fughe soliste da brividi) e l’inconfondibile canto allucinato del Madman. Quando il metal era pura espressione di genialità. 

Iron Maiden: “Hallowed Be Thy Name” ("The Number of the Beast", 1982) 
Beh, avremmo potuto compilare questa top-ten anche utilizzando solo brani degli Iron Maiden, non solo per l’importanza che Steve Harris e soci hanno ricoperto nella definizione dell’heavy metal come genere a sé stante, ma anche per la capacità degli inglesi di scrivere brani iconici capaci di rimanere indelebili nell’immaginario collettivo. Scegliamo d’istinto “Hallowed Be Thy Name”, mini-suite di sette minuti in cui non figura nemmeno un ritornello in senso canonico (e sappiamo come uno dei punti di forza dei Nostri sia proprio il ritornello). L’ingresso di Bruce Dickinson in formazione comporta un significativo cambio di passo per la Vergine, dato che l’ampiezza vocale e l’espressività del cantante permette alla band di abbracciare con maggiore convinzione certi stilemi del progressive rock, peraltro mai disdegnati in passato. Ed “Hallowed Be Thy Name” rappresenta in pieno questa nuova veste degli Iron Maiden, con la suggestiva interpretazione di Dickinson a puntellare l’incipit drammatico del brano (con tanto di rintocchi di campana a morto). E sarà proprio il mitico running loooooooooow del cantante a fare da ponte ad una coinvolgente seconda parte, nella quale si esprimere la forza degli Iron come ensemble, con il proverbiale cavalcare del basso, le fulminanti accelerazioni ritmiche e le avvincenti melodie ricamate dalle due asce. 

Metallica: “Master of Puppets” ("Master of Puppets", 1986) 
Con i Metallica, che erano partiti per “ammazzare tutti”, il metal diventa adulto, raggiungendo un perfetto equilibrio fra potenza, melodia e complessità strutturale. Non suonano progressive i Metallica, ma la propensione per composizioni lunghe ed elaborate è congeniale a musicisti tecnicamente dotati e creativi come i Four Horsemen che, dal thrash metal avvelenato degli esordi, hanno saputo presto emanciparsi verso suoni più ricercati ed illuminati da un raro senso della melodia. Anche in questo caso vi sarebbero molti esempi per mettere in luce la bravura dei Nostri, ma “Master of Puppets” (il brano) è forse quanto di più rappresentativo potessimo scovare nel loro canzoniere: aperta da un riff di per sé leggendario e seguito da ritmiche serrate, la composizione si sviluppa in modo tortuoso attraverso micidiali cambi di tempo ed un lungo e coinvolgente ritornello, senza farsi mancare un passaggio acustico centrale impreziosito da chitarre soliste davvero ispirate: a rimarcare l’importanza della componente melodica nella possente e maestosa visione artistica dei migliori Metallica. 

Slayer: “Raining Blood” ("Reign in Blood", 1986)
Potremmo dire che il merito principale degli Slayer sia stato quello di aver coniato un nuovo linguaggio, quello del metal estremo. Ma i Nostri sono stati anche in grado di scrivere brani immortali. Del loro seminale capolavoro "Reign in Blood" siamo indecisi se scegliere l'irruente opener "Angel of Death" o l'annichilente traccia di chiusura "Raining Blood": alla fine optiamo per la seconda, non fosse altro per il primo minuto da vera antologia del metallo. Inquieti feedback strisciano in coda al brano precedente (la grandissima "Postmortem", altro pezzo da novanta del repertorio dei Nostri) per mescolarsi al rombo dei tuoni, il mesto rituale di tamburi ammaestrato da Dave Lombardo: una quiete presto squarciata dall'improvviso precipitare sull'ascoltatore di uno dei riff più emblematici del metal e dal devastante assalto frontale che ne consegue (ossa rotte nel pogo). Tale è il livello di ispirazione che i Nostri non hanno nemmeno bisogno di ricorrere al formato canzone, ma solo seguire l'istinto e la furia assassina che suggeriscono passaggi e cambi di tempo (da citare il furibondo finale lanciato a velocità insostenibili e dilaniato dagli assoli caotici dell'accoppiata King/Hanneman). Nei suoi scarsi tre minuti e mezzo (se non consideriamo l'outro) il brano è un condensato di genialità dove  ritmiche spietate e un riffing micidiale, con in mezzo il consueto sbraitare di Tom Araya,  procedono in modo maniacalmente calcolato con il preciso intento di fare il più male possibile. Si spalancano le porte dell'Estremo...

Helloween: “Keeper of the Seven Keys” ("Keeper of the Seven Keys: Part II", 1988) 
Abbiamo già parlato di questa traccia-monstre nella nostra rassegna sui migliori brani lunghi del metal, ma ci sentiamo di riconfermarla anche in questa circostanza, proprio perché essa risulta indispensabile per capire la grandezza di certo heavy metal teutonico che si stava distanziando dall’imperante modello anglosassone. Tredici minuti che scorrono via come un bicchier d'acqua, dove accade praticamente di tutto, fra inserti acustici, avvincenti duelli di chitarre, misurati interventi di tastiera ed un ritornello memorabile. Ad accompagnarci lungo il viaggio troviamo il crooning confidenziale di Michael Kiske, il cui canto da sirena diverrà un modello imitatissimo. Anche le sei corde di Kai Hansen e Michael Weikath anticipano scenari, disegnando quelle che sono le melodie archetipiche del power metal che verrà. Il sound classico maideniano, in un certo senso, si sposta in direzione Oktoberfest, modellando un metal inedito contraddistinto da toni leggiadri ed allegrotti, pregno di un palpabile senso di comunione/condivisione ed incorniciato in un concept fantasy che aiuta l’ascoltatore ad immergersi nelle atmosfere “fiabesche” descritte dalla band. 

Manowar: “Hail and Kill” ("Kings of Metal", 1988) 
Da anni i Manowar si erano costruiti una reputazione di ferro negli ambienti del metal più duro e puro grazie a composizioni grezze ma efficaci ed una attitudine spavalda che da sola bastò a far sì che la band divenisse presto un pilastro dell’heavy metal tutto. Con "Kings of Metal" (un titolo un programma) si giunse al culmine dell'autocelebrazione, e se dal un punto di vista del song-writing non tutto era da salvare, l'album offriva un buon equilibrio fra potenza ed atmosfera, con una produzione finalmente professionale ed ovviamente qualche classico da tramandare ai posteri. Fra questi vi è senz'altro "Hail and Kill", con cui spesso i Nostri ameranno chiudere le loro esibizioni dal vivo. Essa del resto riassume in modo perfetto il Manowar-pensiero, mostrando più facce del caratteristico epic-metal dei Nostri. Inizio pomposo, interludio acustico in cui il canto suggestivo di Eric Adams ci rapisce e porta in epoche lontane. Ma è solo questione di un attimo, in quanto le bordate di chitarra di Ross the Boss e le scudisciate di basso di Joey DeMaio irrompono violentemente trascinandoci nelle selvagge scorribande di eserciti famelici di conquista e distruzione. L'immancabile ritornello anthemico (HAIL! HAIL! HAIL-AND-KILL!), accompagnato dai saettanti acuti di Adams e ripetuto ad infinitum nel finale, ribadisce il concetto, come se ce ne fosse bisogno: da qui passa la storia dell'heavy metal.

Savatage: “Gutter Ballet” ("Gutter Ballet", 1989) 
Chiamiamo in causa i fratelli Oliva per rappresentare il lato più elegante e romantico del metal: Jon, con la sua voce roca e grintosa ed il suo pianoforte spezza-cuori, e Criss, chitarrista extraordinarie dall'innato estro melodico. Con “Gutter Ballet” (l’album) gli americani imprimono una forte svolta sinfonica alla loro musica, e la title-track è emblematica in questo nuovo corso, fra riff maestosi, fughe improvvise di chitarra, tasti d’avorio aggrediti con tormento, grandeur orchestrale e i drammi narrati dall’immancabile voce distrutta dalla nicotina (con acuti finali da antologia): emozioni a profusione. 

Judas Priest: “Painkiller” ("Painkiller", 1990) 
Che cosa è l'heavy metal? Difficile rispondere a parole, ma semplice capirlo ascoltando un qualsiasi brano dei Judas Priest. Gli inglesi sono stati fondamentali per lo sviluppo dell’heavy metal e componevano opere seminali già dagli anni settanta: davvero difficile scegliere un solo episodio del loro superbo repertorio. Con la certezza che scontenteremo alcuni, optiamo per la massiccissima title-track di "Painkiller", album che risollevò le sorti dei Metal Gods dopo la poco gradita svolta commerciale di "Turbo". Invigorito dal drumming tellurico del nuovo ingresso Scott Travis e da suoni finalmente all'altezza della potenza della band, l'album è un capolavoro dall'inizio alla fine, ma il brano che gli dà il titolo è quanto di meglio un neofita abbia bisogno di ascoltare per innamorarsi del metal: ingresso turbolento della batteria (con tanto di doppia-cassa!), riffing spigoloso, ritmiche frenetiche e su tutto la "voce per eccellenza dell'heavy metal", quella tagliente ed affilata come una lama di Rob Halford. Se a questo giro i Nostri lasciano da parte il loro lato più epico e maestoso, il brano, nei suoi quasi sei minuti di durata, stupisce per la violenza e per i continui cambi di tempo, con un titanico duello di assoli da parte della geniale accoppiata K.K. Downing-Tipton che da solo basta per porre il brano nell'Olimpo dei migliori brani di sempre del metal

Megadeth: “Holy Wars…The Punishment Due” ("Rust in Peace", 1990) 
Con il quarto album i Megadeth mettono a segno il loro capolavoro assoluto, frutto dell’incredibile lavoro di squadra di musicisti a dir poco virtuosi ed affiatati. L’openerHoly Wars” mette le cose subito in chiaro, con riff vorticosi e la voce biliosa del padre-padrone Dave Mustaine. Un fugace arpeggio dal vago sapore mediorientale divide le due parti del brano, e “The Punishment Due” proseguirà all’insegna di convulsi mid-tempo (incredibile il lavoro dietro alle pelli di Nick Menza, che conferisce sfumature jazz al thrash furioso dei Megadeth) e delle prodezze soliste del grande Marty Friedman. Megadave torna in cattedra nella micidiale accelerazione finale, dove la tensione, palpabile per tutti i sei minuti del brano, diviene letteralmente insostenibile, tanto che la brusca interruzione è accompagnata da un strano senso di sollievo. 

Bene, anche questa volta ci siamo fermati un passo prima del grunge, due prima della "rivoluzione panteriana" (che porterà al groove-metal, al nu-metal e così via). Non perché non vi saranno più belle canzoni nel metal, anzi, ma perché, e si è già visto innumerevoli volte, valori e cultura del metal cambieranno per sempre. Fra i tanti cambiamenti, oltre a quelli prettamente stilistici, vi sarà anche l'idea che il brano non dovrà più necessariamente essere iconico o anthemico per essere bello. Per questo, a partire dagli anni novanta, sarà più difficile incontrare titoli con quel "carattere di universalità" di cui parlavamo all'inizio. 

Amanti e cultori di sonorità "non-conformi" ed estreme troveranno soddisfazioni in altre classifiche...