15 ago 2021

FERRAGOSTO CON IOSONOUNCANE


Nell’era della pandemia ho prediletto ascolti di “evasione”, per lo più album lunghi e dal forte potere evocativo che mi permettessero di esercitare, almeno mentalmente, quella libertà di movimento che è stata compromessa dalle restrizioni e dalle azioni di contenimento del virus. Non è un caso che nel frattempo il sottoscritto sia diventato il più grande esperto in Europa di atmospheric black metal e che sul tema vi abbia persino scritto una rassegna

Questa voglia di alienarsi dal mondo si accresce vistosamente nelle ricorrenze social-popolari, e i nostri lettori sanno bene come la nostra consueta rubrica di Ferragosto ami lambire "lidi" decisamente poco "balneari". Con lo stesso spirito con cui un anno fa abbiamo parlato di Paysage d'Hiver, oggi andremo a trattare un'opera ed un artista che niente hanno a che fare con il black metal atmosferico e che, a guardar bene, neanche con il metal. Più precisamente oggi sproloquieremo del già tanto chiacchierato “IRA”, ultima prova in studio di Jacopo Incani, al secolo IOSONOUNCANE: diciassette tracce per quasi centodieci minuti di durata, tanto per rendere l’idea... 

Niente a che fare con il metal, si diceva, eppure un ascolto lo possiamo consigliare al pubblico metal più curioso, almeno ai fan degli Ulver o ai simpatizzanti di realtà sperimentali come Waste of Space Orchestra. “IRA” è un lavoro coraggioso, a suo modo estremo, che vola decisamente lontano dai canoni classici della produzione discografica nostrana, finendo per distanziarsi anche dalle coordinate sfumate di quel “cantautorato indipendente” a cui ancora, con molte precisazioni, l’operato del musicista/autore sardo poteva essere ricondotto. 

Sebbene già con il precedente “DIE” si rendesse palese la volontà di scrivere composizioni di estesa durata e di perseguire una ricerca compiuta attraverso sintetizzatori, loop e stratificazioni sonore, con “IRA” si va decisamente oltre. Al di là del dato meramente quantitativo (che non è da poco – considerato anche che diversi brani sono considerevolmente lunghi), sono le scelte stilistiche a risultare spiazzanti. 

Da un lato si assiste alla “scomparsa della parola”, nel senso che il Nostro opta per un approccio poliglotta che contempla l’utilizzo di più lingue, o di una non-lingua (visto che i versi rimangono per lo più inafferrabili), puntando al contempo alla smaterializzazione del significato a vantaggio del significante. La voce, in altre parole, diviene strumento fra gli altri strumenti: o lontana o effettata o camuffata. 

Dall’altro lato si esonda in sonorità che sono figlie di un metodo di composizione che guarda tanto alla dilatazione ambientale quanto alla destrutturazione elettronica. E poi ombre di jazz, sprazzi di prog per una musica che rimane in gran parte "suonata" (sette i musicisti in studio). Come termini di paragone sono stati tirati in ballo Radiohead, Residents, Tangerine Dream, Robert Wyatt. Potremmo aggiungere anche Coil e Swans: non certo gli autori di riferimento tipici del canzoniere tricolore. Di "italico", forse, ci sono gli umori mediterranei, ma fino ad un certo punto “italiani”, in quanto è più frequente che si guardi all’altra sponda del Mediterraneo, quella del Nord Africa, il cui folclore echeggia spesso fra queste note. 

L’esito dell’operazione assume i contorni di un viaggio claustrofobico dove la componente percussiva diviene il termometro dell’emotività, salendo e scendendo continuamente di intensità. Provvidenziali distensioni melodiche, saggiamente centellinate, rischiarano il cammino, restituendo umanità ad una esplorazione che tende pedissequamente ad atmosfere alienanti. 

Ci sono un paio di cose in particolare che mi sono piaciute di questo album, oltre alla musica ovviamente. La prima è che in un mondo invaso, anzi stuprato, dalla comunicazione “mordi e fuggi”, un mondo soffocato dalla “sovraesposizione della parola” (dai social alla stessa “musica di consumo”), il Nostro sceglie una via ermetica e concettuale che, pur non rinunciando alla comunicazione, si eleva al di sopra del "chiacchiericcio" e traccia un orizzonte alternativo all’imperante vacuità che contraddistingue l'Odierno. In un certo senso i Tool fecero la stessa cosa con “Fear Inoculum”, egualmente mastodontico, complesso ed esigente nel richiedere attenzione ed impegno da parte dell’ascoltatore nell'era delle playlist su Spotify. 

La seconda cosa che ho apprezzato è il coraggio che Incani ha dimostrato con questa "giocata": poteva egli ripiegare su una “formuletta” furba che guardasse al mercato e blindarsi le sue date in giro per l’Italia; poteva farlo, in fondo il suo era un nome già affermato in certi ambienti. Avrebbe potuto anche giocarsi la carta della classica partecipazione da outsider a Sanremo, piazzandosi magari nelle zone basse della classifica, ma con in cambio quel ritorno di immagine che gli avrebbe procurato un significativo salto di popolarità. “IRA” va nella direzione esattamente opposta, sembra quasi un suicidio commerciale, fregandosene di attrarre un pubblico che non gli interessa e incanalando l’ispirazione in binari che potevano condurre ad esiti commerciali incerti. Della serie: o bene bene o male male. 

E’ evidentemente andata bene, essendo stato l’album ben accolto un po' ovunque. Insomma, un jackpot che ogni artista, onesto intellettualmente, desidererebbe almeno una volta nella vita: piacersi e piacere. Del resto di lavori estremi ne escono nell’underground italico e non, ma il fatto che l’abbia realizzato un nome con una certa notorietà e che quindi con qualcosa da perdere, lo rende sicuramente affascinante come operazione.

D’altro canto la critica musicale ha sempre bisogno di un “fenomeno” da adottare e coccolare, a maggior ragione nell’annus horribilis in cui i Maneskin fanno l’en plein sia a Sanremo che all’Eurovision , vengono ricevuti da Virginia Raggi, benedetti da Iggy Pop e, cosa peggiore di tutte, vengono fatti passare per un gruppo rock. C’è euforia, dunque, per “IRA”, e quando, qualche mese fa, più persone sono venute a segnalarmi il titolo, mi sono subito insospettito: “Uhmmm, sento puzza di hype intorno a questo disco...”. 

Il rischio è che l’album non venga apprezzato per quello che è, ma che venga sovraccaricato di significanze che forse non ha e che probabilmente non vuole nemmeno avere, ossia ambire ad essere un antidoto alla dimensione social-popolare che infesta la nostra società. Ma saprà la rivoluzione “incaniana” attecchire al di fuori dei salotti della critica musicale? E saprà, come da più volte invocato, cambiare le regole dell’universo del cantautorato italiano? 

"E chi se ne frega!", potrebbe rispondere lo stesso Incani, eppure già si descrive “IRA” come un momento di rottura senza precedenti nella storia della musica popolare del nostro paese, il “Kid A/Amnesiac” della scena italiana. Io ci andrei cauto con definizioni di questo tipo, anche perché il Nostro ha fatto una mossa esterofila che non sembra ambire a voler cambiare il linguaggio della musica del Bel Paese, costruire nuovi moduli che il “rock” o il “cantautorato” tricolore possano adottare. 

Mi spiego meglio: laddove Diaframma e CCCP importavano in Italia il post-punk, i Massimo Volume il post-rock e Marlene Kuntz ed Afterhours le sonorità del rock alternativo, IOSONOUNCANE non confeziona un prodotto che intende adattare una certa “italianità” a generi creati e sviluppati all’estero. “IRA” non sembra nemmeno fatto da un artista italiano e - capiamoci - non è questo un male in sé, ma il compito di trasporre queste sperimentazioni nel tessuto artistico nostrano spetta ad altri, a coloro che vorranno seguirlo, ed immagino che certamente qualcuno lo farà. 

Di sicuro l’opera è uno schiaffo in faccia a tutti quei presunti artistoidi che, al di là dei discorsi altisonanti e i propositi sbandierati, continuano a strizzare l’occhio alla hit di medio successo, perché essi disprezzano il grande pubblico, ma non quello “medio”, ossia quello un poco più ampio del solo pubblico di nicchia e che fondamentalmente permette di campare di musica. Spesso questi obiettivi si perseguono con scelte a ribasso, mentre quella di Incani è stata una bella mossa al rialzo. 

Una mossa al rialzo che manca da troppo tempo nel metal. Il metal, oggi più che mai, è capace di tutto, ha infranto quasi tutte le barriere possibili e in esso vi si può trovare ogni cosa, se si ha voglia di rovistare nei bassifondi. Ma si tratta di realtà di nicchia, splendide realtà di nicchia; nel metal, piuttosto, manca la “zampata” à la Incani, ossia un nome già affermato che decida ad un certo punto di cagare fuori dal vaso. Penso ad un "Chaos AD", ad un "White Pony", ad un "Lateralus", ad un "Jane Doe", ad un "A Sun That Never Sets", ma anche a tante altre piccole-grandi rivoluzioni che si sono avute in ambiti ristretti (i Paradise Lost che seppero portare il gothic al di fuori del metal estremo, i Tiamat che si misero a fare psichedelia, gli Ulver che passarono all'elettronica)...

Difficile aspettarsi zampate di questo tipo in un mondo dove si inseguono certezze celebrando l’ultimo (ottimo, ci mancherebbe altro) lavoro dei Cannibal Corpse o dove le band che questa zampata potrebbero permettersela (vedi i Gojira) giocano sul sicuro con sound rassicuranti, conservativi e con spunti radiofonici, muovendosi in una comfort zone utile più che altro ad ampliare la fan base, tradendo però le aspettative di qualche sognatore che avrebbe desiderato un poco di coraggio in più...