“…E quando guardi giù, nel
profondo dell’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te.” (F. Nietzsche)
Abbiamo parlato di David Bowie, abbiamo sfiorato Freddy Mercury e Johnny Cash: degni
rappresentanti della categoria “artisti alle prese con la propria morte”.
Abbiamo dato uno sguardo, seppur fugace, a quelli che nell'empireo del rock
potremmo definire album che duellano con la Morte: opere
concepite e realizzate da artisti che oramai hanno la Signora con la Falce che
li aspetta fuori dallo studio di registrazione.
E nel metal? Abbiamo
album che hanno duellato con la morte?
D'impulso potremmo rispondere
di sì: la morte è di casa nel metal, basti pensare a generi come il doom,
il death, il black, senza poi stare a scomodare le varie
derivazioni funeral, depressive ecc. Ma non è questo il nostro caso:
in quegli ambiti spesso ci si limita a parlare di morte, quando invece
noi intendiamo trattare opere in cui la morte c’è per davvero, morte che
infesta il corpo e lo spirito dell'artista.
Scorrendo la lista dei morti
nel metal (perché ahimè da qui si parte), non sono in verità molti coloro
che hanno avuto il “privilegio” di affrontare la morte in un'ultima fatale
opera: suicidi, morti ammazzati, overdose e complicazioni per cirrosi
epatica vanno per la maggiore, tutte situazioni in cui chi muore spesso non ha
il tempo per realizzare quello che gli sta accadendo. Non mancano ovviamente
casi di malattie, ma spesso queste si sono sviluppate in momenti in cui
l'artista aveva già sospeso ogni attività, come se il metallaro, una volta
appreso lo stato terminale di una malattia, non ne volesse più sapere di
lavorare. Ronnie James Dio, Lemmy, giusto per fare grandissimi
nomi, ci hanno lasciati senza un testamento spirituale. Rock or die,
per quanto riguarda il primo; Rock until you die, per quanto riguarda il
secondo.
Se pensiamo alla Morte, a
quella morte reale di cui si parlava, il primo album che senz'altro viene in
mente è “De Mysteriis Dom Sathanas” dei Mayhem, che di morti fra
le proprie fila ne conta addirittura due (Dead non era più in formazione al
momento della registrazione dell’album, ma i testi portavano ancora la sua
firma). Dell’album ne abbiamo già parlato, e non a caso il nostro post si
intitolava “I morti al potere!”. Ma attenzione: sia Dead, morto suicida,
che Euronymous, assassinato, non potevano avere quella consapevolezza
che ha necessariamente un malato terminale. Non è dunque nemmeno “De Mysteriis
dom Sathanas” l’album che stavamo cercando, ma val la pena comunque citarli,
questi norvegesi, perché non sarà certo un caso che, nel medesimo gruppo,
capiti che ben due membri, per faccende scollegate fra loro, siano morti di
morte violenta, uno facendosi saltare le cervella con una pistolettata,
l'altro preso a coltellate.
No, non è un caso. E questo
senso di morte incombente era presente nei testi macabri di Dead, come lo sarà
nei riff gelidi e taglienti di Euronymous. Un senso di morte che
aleggia, che è palpabile, tangibile, ben più che una sensazione evocata ad arte
da atmosfere sinistre e versi che guardano morbosamente all'Aldilà. La morte
era già presente nella mente annebbiata di Dead, essa era già alle spalle di un
Euronymous, che, forse inconsciamente, l'aveva evocata, non solo realizzando
quel tipo di musica, ma circondandosi di persone disturbate (disgraziate, depresse
o criminali che esse siano state). “De Mysteriis” non è quindi un semplice album
maledetto, come possono essercene tanti nel rock o nel metal, perché su di
esso non girano leggende: la sua leggenda, ahimé, si basa su accadimenti, fatti
reali.
Tornando però al nostro
criterio iniziale, potremmo prendere in considerazione i Type O Negative
di “World Coming Down”. Peter Steele, tuttavia, non morì durante,
o appena dopo, la sua gestazione, in quanto i Type O Negative avrebbero pubblicato
successivamente altri due album, “Life is Killing Me” e “Dead Again”:
titoli di una eloquenza agghiacciante nel preannunciare il decesso del cantante
che avverrà nell'aprile 2010 per un arresto cardiaco. E’ lecito tuttavia
pensare che Steele si sia in verità suicidato, considerato che egli soffriva da
anni di depressione e che era solito fare abuso di sostanze stupefacenti.
Perché allora parlare di un album del 1999, ossia concepito, suonato e
pubblicato più di dieci anni prima del decesso? Perché “World Coming Down”
preconizzava un percorso verso la Morte già in atto, che Steele aveva
coscientemente imboccato. Addirittura tre intermezzi ambientali “celebravano” i
tre vizi capitali di Steele: la cocaina, l'alcool e il fumo. Mentre si sprecano
i testi in cui la sua vita veniva descritta come un inferno (“E’ un
inferno…finirà…ma quando?”). Fra questi spiccano senz’altro i celebri versi
“It's better to burn (to burn) quickly and bright/ Than slowly and dull (and
dull) without a fight”, che citano direttamente quelli di Neil Young, i
medesimi che aveva utilizzato Kurt Cobain nella sua lettera d'addio
prima di togliersi la vita.
Apro una parentesi, visto che
abbiamo sfiorato la figura di Kurt Cobain, altro morte illustre: forse non
tutti sanno che a prestare l'arma da fuoco con cui Cobain si tolse la vita fu Dylan
Carlson, coinquilino dello stesso, nonché fondatore e leader degli Earth.
Personaggio strano, Dylan Carlson, uno che inventò una musica altrettanto
strana, strumentale, lenta, fatta di brani lunghissimi, estenuanti, magari
sorretti da un unico riff di chitarra. Lo chiamavano drone metal
e di sicuro i Sunn O))) ne sanno qualcosa. Ma se un tuo amico ti chiede
una pistola, perché gli serve per difesa personale, e tu gliela presti in buona
fede, non è certo colpa tua se poi quello, con la tua arma, si ammazza.
Non è colpa tua, però la
morte di un amico può segnarti per tutta la vita, soprattutto se sei
parzialmente coinvolto. Quanto la musica degli Earth avrà successivamente
risentito della morte di Cobain, questo è impossibile definirlo con esattezza,
soprattutto se si considera che si sta parlando di un personaggio non proprio
ordinario come Carlson, che fra le altre cose sparirà dalle scene per qualche
anno per imprecisati problemi legali e di droga. Andatevi ad ascoltare l’album
del mesto ritorno “Hex (Or Printing in the Infernal Method)”, del 2005,
e ditemi voi se fra le piaghe di quei suoni lenti, di quelle ambientazioni da western
apocalittico, non si sente soffiare il desolante vento della Morte. Non
quella di Cobain, ma quella di tutti noi…
Ma tornando al Mondo che Crolla
di Peter Steele, è lecito affermare che in quell’album si stava forgiando una progettualità
di morte. Peter, come un malato terminale votato al suo destino, era
consapevole: voleva morire. E di fatto sarebbe morto un pezzetto al giorno,
aiutato dall’alcool, dalle droghe, dagli antidepressivi, scontando quella che
lui vedeva come una pena, esattamente come aveva predetto in “World Coming
Down”. Verrà accontentato una decina di anni più tardi. Ma quelle di “World
Coming Down” non erano profezie, bensì solide realtà che si andavano
conformando nello spirito e nel fisico del cantante.
Eppure non abbiamo ancora
centrato il punto: “World Coming Down” al massimo flirta con la morte, ma se
vogliano andare a vedere opere che realmente hanno duellato con la Morte,
dobbiamo andare a trovare Chuck Schuldiner. La frase di Nietzsche che
abbiamo scelto per aprire il post non è a caso tratta proprio dal booklet
interno di “The Sound of Perseverance”, ultimo album dei Death.
“Morte” era il nome della sua
band: un nome che fu scelto da Schuldiner non per dare un tocco macabro alla
sua musica, ma per tributare la morte del fratello, deceduto qualche anno prima
in un incidente stradale. In un certo senso l’epopea dei Death, che terminerà
con la morte del suo deus ex machina, ebbe inizio proprio con una morte. Certo,
potremmo concludere che uno che chiama la propria band “Morte” ed è
l’iniziatore del metal della morte, era forse predestinato ad assolvere
un compito del genere: ossia quello di cantar della Morte, o meglio, della fine
della Vita. Ma la musica dei Death non è mai stata depressa, arrendevole: ha
sempre racchiuso uno spirito combattivo, forse destinato alla sconfitta
(come poi si vedrà), ma tenace nella sua coerenza, nella sua perseveranza.
I suoni della perseveranza. L’ultimo album di Chuck si
chiamerà “The Fragile Art of Existence”, rilasciato sotto il marchio Control
Denied, altra faccia di quell’arte schulderiana che abbiamo visto
progredire e raffinarsi album dopo album. Quell'ultimo atto fu figlio di quella
malattia che nel giro di pochissimo tempo ucciderà Schuldiner, strappandolo
dalla vita a soli trentaquattro anni. Il nostro Blog ne ha parlato proprio di
recente, interpretandone i testi (vedi qui e qui) e sondandone la portata
esistenziale (qui e qui), comparandola fra l'altro con il pensiero del grande Stanley
Kubrick (!!!). Senza quindi voler ripetere quanto già detto, ci basti
aggiungere che l'ultima opera firmata da Chuck, più che duellare con la morte,
ha filosofeggiato con la stessa: fino alla fine Chuck avrebbe mantenuto
la sua visione cinica ma posata, impietosa ma ponderata, ragionevole ma
spietata. Lui si che ha guardato la morte a viso aperto!
“The Fragile Art of Existence” fu la naturale continuazione
stilistica di “The Sound of Perseverance”: quel death metal che oramai gli
stava stretto fu lasciato definitivamente alle spalle per tornare a quell’heavy
metal classico amato in gioventù e che fu la ragione prima per cui il
Nostro imbracciò una chitarra e fondò una band (forse, questo, l’unico sfizio
concessosi in un percorso artistico fatto di rigorosa ricerca). Se vi avesse
cantato sarebbe stato indubbiamente un album dei Death, ma la ferrea
autodisciplina di Chuck, che si sarebbe sentito un buffone a cantare su un
album heavy metal, lui che dietro al microfono non si è mai trovato a suo agio,
lui che la voce l’aveva utilizzata solo per dare corpo ai suoi versi (parole
che divengono inscindibili da quel modo tagliente di scandirle, come fossero
lame), gli impose di cedere il microfono ad un cantante professionista, per
potersi concentrare sulle parti strumentali, dimensione a lui prediletta.
L’approccio fu sempre più
tecnico, chirurgico, la malattia non ebbe modo di abbattere l’incrollabile
forza di volontà, lo sguardo profondamente razionale e logico, quasi
matematico, di Chuck (nel frattempo fuori pericolo dopo un intervento
chirurgico che pareva avesse rimosso il carcinoma), ma lo inasprì nel suo
inguaribile disincanto. Come ogni suo album, “The Fragile Art of Existence” era
il massimo che al momento potesse esprimere, l’ennesimo esercizio di rigore
di un artista che continuava imperterrito per la propria strada. Non c’è resa,
non c’è lascivia, ma solo determinazione a dare il meglio di sé, a continuare
ad esistere: aspetti che per Chuck sembravano coincidere. Ed è questo a
stupire: la volontà di andare avanti senza farsi troppo disturbare dalla
morte.
Ma Chuck oramai aveva
visitato l’abisso...
Sebbene sia la Morte stessa
ad occupare il centro della scena, la parola “perseveranza” compare ancora una
volta nel ritornello della title-track, vero testamento spirituale di
Chuck:
“La fragile arte
dell’esistenza
E’ tenuta in vita dalla pura
perseveranza
La fragile arte
dell’esistenza”
La
vita è dunque votata alla dissoluzione e solo con la tenacia essa può essere
mantenuta unita nelle sue parti. Basta un nonnulla per spezzarla: ecco che dopo
l’illusoria guarigione, la malattia tornò a prevalere. E sarà velato di perversa ironia il fatto che la vicenda
personale di Schuldiner, da sempre attento ai temi del sociale, si andasse ad
intrecciare con le inadeguatezze del sistema sanitario americano. Il leader dei
Death si ammalerà nuovamente e non avrà i soldi per pagarsi le cure. Non
basteranno le donazioni dei fan, né gli introiti ottenuti grazie alla
pubblicazione tempestiva di “Live in L.A. (Death & Raw)” e “Live
in Eindhoven”, rilasciati entrambi in fretta e furia per batter cassa: poco
dopo, il 13 dicembre del 2001 per l’esattezza, il cuore di Chuck
Schuldiner avrebbe definitivamente smesso di battere. L'amarezza più grande
viene al pensiero di quello che avrebbe potuto ancora dare colui che nell’arco
di una carriera impeccabile aveva saputo crescere costantemente, non disperdendo
le energie, ma ottimizzandole in ogni momento. Non ci resta pertanto che far
tesoro del suo messaggio finale, del suo più grande insegnamento:
“Non c’è tempo per piangersi
addosso
Non c’è tempo per
fantasticare su ciò che avrebbe potuto essere
Ma bisogna essere ora”