I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
6° CLASSIFICATO: “HUMAN ANTITHESIS” (VOID OF SILENCE)
Fa un po' strano vedere i maestri My Dying Bride scavalcati da coloro che
potrebbero essere considerati loro discepoli, ma vogliamo ricordare che qua la classifica
è dei brani, non dei gruppi, né tantomeno delle carriere. E “Human
Antithesis” (una suite-spettacolo di venti minuti e sedici secondi)
è una concorrente che avrebbe meritato di presenziare ben più in alto in
classifica, dato che la sua magnificenza ne fa uno dei più mirabili casi di “brano
lungo” partorito dal metal estremo.
Chi
sono del resto i Void of Silence innanzi ai My Dying Bride? Gli
inglesi il genere lo hanno praticamente inventato, sviluppato, portato a
perfezione. Album come “Turn Loose the Swans” e “The Angel and the
Dark River”, come già visto, sono pietre miliari che hanno indicato la
strada ad un intero movimento: opere ispirate che hanno delineato degli standard
ed al tempo stesso hanno gettato le premesse per il loro superamento. Chi
sono dunque i Void of Silence?
Definirli
dei semplici epigoni della Sposa Morente è riduttivo, ma anche
metodologicamente sbagliato: i Nostri provengono semmai dal black
metal e fin dai primi passi hanno voluto e saputo intraprendere un sentiero estremamente personale
che li ha condotti in territori che nessun altro ha saputo poi battere. Influenze
di band come My Dying Bride e Paradise Lost rimangono innegabili,
ma nei Void of Silence, che appartengono alla generazione successiva, si va ben
oltre: nella loro proposta troviamo ambient, industrial e persino
un tocco di neofolk, tanto che i romani si sono meritati nel
tempo l’etichetta di doom apocalittico, di cui peraltro rimangono
ad oggi (che io sappia) gli unici rappresentanti.
L’abbandono
di Malfeitor Fabban, che nei primi due lavori (“Toward the Dusk”
e “Criteria ov 666”)
aveva messo a disposizione la sua sporca ugola, comportò un cambio di
rotta per questo terzo capitolo “Human Antithesis”, rilasciato nell’anno 2004. Le coordinate black metal (principalmente farina del sacco del
cantante/bassista degli Aborym) furono parzialmente abbandonate per
sprofondare con grande convinzione negli abissi di un doom tanto sinfonico
quanto contaminato: contaminato dall'elettronica e da severi umori marziali che sono
invece prerogativa del neofolk di Death in June e dell’industrial
di act quali Der Blutharsch e primi Blood Axis.
Una formula difficilmente componibile che viene resa credibile da un ensemble che, volutamente lontano dai riflettori (la band non svolge, per esempio, attività concertistica), procede al di fuori degli schemi, forte del solido connubio fra Riccardo Conforti, tastierista straordinario, ed Ivan Zara, abile chitarrista che sa tenergli il passo. Ad accompagnare i due (che si occupano anche delle basi ritmiche, il primo, e del basso, il secondo) troviamo uno special guest d’eccezione, che con il suo talento saprà tingere di sfumature inedite il sound funereo dei Void of Silence: Alan Nemtheanga Averill, già vocalist extraordinaire negli irlandesi Primordial, reclutato dai romani per ergersi cantore dell’Inenarrabile.
Una formula difficilmente componibile che viene resa credibile da un ensemble che, volutamente lontano dai riflettori (la band non svolge, per esempio, attività concertistica), procede al di fuori degli schemi, forte del solido connubio fra Riccardo Conforti, tastierista straordinario, ed Ivan Zara, abile chitarrista che sa tenergli il passo. Ad accompagnare i due (che si occupano anche delle basi ritmiche, il primo, e del basso, il secondo) troviamo uno special guest d’eccezione, che con il suo talento saprà tingere di sfumature inedite il sound funereo dei Void of Silence: Alan Nemtheanga Averill, già vocalist extraordinaire negli irlandesi Primordial, reclutato dai romani per ergersi cantore dell’Inenarrabile.
Industrial,
folk apocalittico, black metal, sentori marziali, ambientazioni
belliche: tutto farebbe pensare all’ennesima entità guerrafondaia che
costella il panorama estremo (metal e non), ma i Void of Silence ci raccontano
l’esatto contrario. Sebbene la fascinazione/attrazione per certe tematiche ed
atmosfere sia evidente, il messaggio finale si rivela essere l’opposto di
quello atteso, configurandosi “Human Antithesis” come un autentico e sentito manifesto
antibellico. Concepita come una suite divisa in tre parti, essa
in verità si sviluppa come una impervia successione di frammenti musicali.
“Leggiamo undici
messaggi speciali: il corriere di Lione; Enrico non studia; sempre più in alto;
Maria si prepari; Martino non parte; abbi fede; Anna dorme; la mia barba è
bionda; la gavetta è vuota; le sorbe sono acerbe; le castagne sono crude.
Ripetiamo:...”
Queste
sono le parole con cui inizia il brano. Non è la voce ovattata dell’Istituto
Luce, ma quella di Radio Bari, la prima emittente attiva
in Italia dopo l'8 settembre del 1943: strumento per la diffusione degli
ideali di liberazione nell'Italia occupata, per il coordinamento delle forze
della resistenza e mezzo di connessione per i soldati prigionieri nei territori
occupati. Tutto l’album, invero, sarà costellato da campionamenti
di registrazioni recuperate chissà dove (lo stesso booklet rispecchia
questo spirito documentaristico sfoggiando affascinanti foto d’epoca). La
registrazione scelta per aprire le danze è la
selezione di una serie di messaggi in codice trasmessi a beneficio dei
Partigiani: parole che in realtà hanno un valore principalmente evocativo, ma
che si slegano dal concept del brano, che invece intende rappresentare
la disperazione di un combattente innanzi all'insensatezza della Guerra. Parole
che contestualizzano, che introducono il tema, ma che non necessariamente si
riferiscono al periodo storico a cui esse appartengono: i Void of Silence ci
parlano infatti della Guerra, una guerra idealtipica, la sempiterna guerra
madre di morte e distruzione, antitesi dell'Umanità, tragedia
imponderabile sofferta in una inconsolabile individualità. Una dimensione in
cui la figura di dio (sia pur esso quello Cristiano o persino Allah, peraltro
richiamato ad un certo punto del testo) si rivela essere fasulla, impotente.
C’è
da precisare che le liriche sono a carico di Nemtheanga e che a lui
solo probabilmente è riconducibile questa inedita verve pacifista
(non riscontrabile in passato, quando i testi scaturivano dalla penna di
Fabban, che proprio pacifista non era…). Tanto che è lecito pensare che le cose
potrebbero essere andate diversamente, con Zara e Conforti che dettano al
cantante la via dell’ambiguità: “A ricce’, per i testi si potrebbe fare
qualcosa de truce…de gajardo…noo tranquillo, noi semo contro la guerra”,
ammiccando, “hai intenso no che semo contro la guerra?”, ammiccando
nuovamente, con Nemtheanga che però li prende alla lettera e scrive un testo
pacifista per davvero!
Sia
come sia, i primi due minuti sono interamente affidati alle sapienti mani di Conforti,
che architetta un incipit a base di ritmiche marziali ed incalzanti
orchestrazioni: si tratta di suoni sfocati, l’eco di un passato nefasto. E’
l’evocazione di un incubo, un rito propiziatorio che ha l’effetto di un transfert
volto a condurre l’ascoltatore altrove, fra le macerie e le rovine di un’epoca
disastrata. E’ l’arrivo di Zara, al secondo minuto, ad introdurre l’elemento
squisitamente metal, prima con un arpeggio elettrificato e poi con
riff rocciosi che, assieme agli avvolgenti tappeti di tastiere, vanno a
generare un'escalation che sembra portar dritto alla tragedia. Se ho
sempre mal digerito l’utilizzo di drum machine nel metal, Conforti (peraltro
anche percussionista) è in grado di programmare basi impeccabili che con il
loro glaciale, inesorabile, solenne incedere, conferiscono ai brani dei Void
of Silence una spietatezza che difficilmente un batterista in carne d’ossa
avrebbe potuto eguagliare: è il rintocco degli stivali nel fango, il marciare
spossato di eserciti fantasma, militi votati alla morte.
Terzo
minuto: l’attacco del recitato di Nemtheanga è pathos allo stato puro ed è un
primo assaggio delle eccezionali capacità del cantante irlandese. Siamo solo
all’inizio: “The Dream Ends”, prima sezione del brano, si presta ad
inanellare una sequenza di trovate da antologia. Collassano le chitarre e si
apre un arpeggio ed una desolante voce femminile. Nemtheanga inizia a cantare,
il suo timbro forte e nitido tratteggia i contorni di un'evocativa ballata. E
poi nuovamente accordi di chitarra classica, squarci di rumorismo a cura del
buon Conforti e di nuovo il canto femminile a tessere nenie senza tempo: pare
di ascoltare i Death in June di “The World that Summer” (e scusate se è
poco!).
Un
sussurro, poi l’esplosione della chitarra elettrica e lo screaming agonizzante
che si riversa su gelidi paesaggi burzumiani, a tratteggiare uno
squarcio improvviso di disperazione. Ma ecco il colpo di genio: ritorna la voce
di Radio Bari che riprende a snocciolare le frasi in codice,
accompagnata questa volta dalla chitarra folk e sempre dal canto femminile:
l’inizio viene riletto alla luce di una nuova consapevolezza. A parere di chi
scrive, questo è uno dei momenti più alti del metal tutto: per capacità
descrittiva, complessità concettuale e forza emotiva.
Ottavo
minuto, inizia “Empty Prayers”, la seconda sezione. Nemtheanga è oramai
in palla, perfettamente calato nella parte. Il suo crooning si fa
lamento: timbrica oscura, tenorile, piglio teatrale, ma anche intensa
interpretazione, con sprazzi di dolore che deformano il suo canto e lo rendono
ruggito. Egli, titanico, spazia in lungo e in largo, esplode finalmente in tutto
il suo potenziale, solcando i corposi riff e le trame intricate di Zara
che edificano il miglior metal gotico possibile: il potere visionario dei primi
Tiamat, la tragica eleganza degli Arcturus, la desolazione dei My
Dying Bride, un fiume dolente puntellato dal lento procedere della drum machine
ed agitato dall'incredibile performance di Conforti, diviso fra “cori” e
struggenti partiture di piano. La musica dei Void of Silence non ha fretta, si
evolve lentamente e tramite impercettibili variazioni, ora ritmiche, ora
cromatiche.
Tredicesimo
minuto, il brano torna ad accartocciarsi su se stesso e, come successo prima,
si accede tramite le dissonanze al terzo ed ultimo atto: “Black Propaganda”. Si apre una fase meditativa del brano:
tornano i circolari arpeggi di chitarra in perfetto stile neofolk, mesti
tappeti di tastiere fanno loro da contorno, riaffiora dalla melma della
Storia il solenne recitato di Nemtheanga. Segue, come se si trattasse di una
sequenza onirica, un ambient soffuso in cui echeggiano in lontananza le
terribili sirene antiraid (come da migliore tradizione
apocalittica!). La bravura dei Void of Silence sta proprio nel saper integrare
l’approccio minimale del neofolk con la grandiosità del metallo gotico, che torna
ad emergere prima con tragiche partiture di pianoforte e poi con il montare minaccioso
delle chitarre. Altra caratteristica della musica dei Void of Silence: essa è
concreta, asciutta e rifugge futili dispersioni di energie.
Sale
la tensione, le ritmiche si fanno incalzati, fino all’inevitabile rilascio della
tensione, dove Nemtheanga torna ad impugnare il microfono: è questa la porzione
del brano che, più di tutte, trae ispirazione dall’estro sublime della Sposa
Morente. Ma nella sua mestizia, la musica dei Void of Silence ospita un
dinamismo intrinseco che la rende più scorrevole di quella dei britannici. La
struggente coda è tutta dedicata a coinvolgenti melodie di chitarra, con il
recitato di Nemtheanga ad enunciare i titoli di coda.
Mi
risveglio dal “sogno”: il transfert è terminato. Riapro gli occhi ed è
il 2016, ma il mio pensiero corre al 2004, anno di uscita di
“Human Antithesis”: vagando per una terribile ed umida serata d'agosto,
m'imbattei in quell’album. Non me la passavo affatto bene, i segnali della Fine
erano vividi: da tempo non acquistavo più metal, se non sporadicamente
e a prezzo di gravosi sensi di colpa. E forse proprio per questo mi avventai
sull'allora ultima opera dei Void of Silence: alla stessa maniera con
cui il condannato a morte si concede l'ultimo sfizio, l'ultimo pasto da
consumarsi con rassegnata avidità.
Ma le cose presero un'altra piega: i giorni del Buio
trascorsero ed io, immerso e barcollante nell'abisso, ripresi a salire la
china, mano nella mano con Zara e Conforti, giorno dopo giorno, trascinato
faticosamente, poi sempre più solertemente, dalle confortevoli spire della loro
musica.
L'Arte, appresi, per quanto decadente, per quanto
vuota di luce, per quanto vuota di speranza e pregna di disincanto, è Vita.
E Vita fu per me la musica dei Void of Silence, che seppe entusiasmarmi ancora
una volta, per quegli strani giochi del Destino (del Caso, dell'Umana Idiozia)
che nessuno sa spiegare.