I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
5° CLASSIFICATO: “YEARNING THE SEEDS OF A NEW DIMENSION” (IN THE WOODS...)
Dei Venom abbiamo apprezzato l'irriverenza, la
spregiudicatezza: la capacità, nonostante l'incompetenza,
di saper mettere in fila venti minuti di metal rozzaccio ed efficace senza
annoiare un istante. Dei Cathedral, invece, abbiamo elogiato il gusto da
intenditori nella creazione di una suite
che sapesse far convivere doom, progressive e psichedelia, tutto in salsa squisitamemente vintage. Se i Cradle of Filth ci hanno entusiasmato con le loro kitscherie e i conterranei My Dying Bride commosso con la loro vicenda di solitudine, ai Void of Silence abbiamo riconosciuto la grandezza nel concepire e realizzare un
monumento sonoro come "Human Antithesis", forse
l'operazione più ambiziosa mai partorita in campo estremo.
Ma tutti questi mirabili tentativi non sono stati altro che
una messinscena. E così i Venom, come i Cradle, imbandiscono la sagra
dell’eccesso, inscenando i primi lo scontro tremendo fra Inferno e
Paradiso, descrivendo i secondi orge popolate da avvenenti e demoniache sacerdotesse
assetate di sangue e sperma. Se i Cathedral si sono affidati alle sostanze
stupefacenti per il loro viaggio allucinante, i My Dying Bride hanno preferito guardare
ai classici della letteratura romantica inglese, con quel tocco un po’
artificioso che contraddistingue chiunque voglia esasperare la sfera degli
umani affanni. Un tocco che troviamo anche nei Void of Silence,
autori di un sontuoso spettacolo a sfondo bellico volto ad evocare le brutture
della Guerra. Proseguiamo oltre ed accediamo invece alla galassia delle
emozioni, quelle vere: entriamo nella dimensione in cui l'arte si mette al
servizio dell'interiorità, quella dei musicisti. Addentriamoci dunque nella top-five
della nostra classifica dei migliori brani lunghi del metal estremo.
Quinto posto: In the Woods..., "Yearning
the Seeds of a New Dimension" (dodici minuti e ventitre secondi
come mai si erano sentiti nel 1995!).
Li abbiamo incrociati durante la nostra rassegna sul
black metal norvegese, quando abbiamo parlato degli Ulver, che con
gli In the Woods… condividevano l'amore per la loro terra, non solo da un punto
di vista folcloristico, ma anche naturalistico, paesaggistico. Tanto che i
Nostri, amavano definire la loro musica "Earth Metal",
intendendo già prendere le distanze da quel black metal da cui venivano
e che ancora li ospitava.
Il loro debutto "Heart of the Ages", del 1995,
abbinava la ruvidità del black metal ad atmosfere sognanti, passaggi eterei
degni dei migliori Pink Floyd. Quello degli In the Woods… era uno spirito
genuinamente progressivo che disdegnava sterili esibizionismi e si
consacrava alla libertà di espressione artistica senza compromessi. La loro
musica puntava direttamente al cuore, fluttuava entro la sfera delle
emozioni. E "Yearning the Seeds of a New Dimension" è
l’incredibile opener di quell’incredibile album che rimarrà isola
verdeggiante nelle acque torbide del black metal.
L'inizio è più pinkfloydiano che non si può. Siamo
dalle parti di "Shine on You Crazy Diamond": minimali
rintocchi di synth echeggiano in delay, evocative linee di tastiere ci
introducono in una dimensione di sogno. Ma non si tratta del tipico incipit mordi-e-fuggi
chiamato ad anticipare feroci scorribande metalliche: no, la situazione si
protrae oltre, ben oltre di quanto potesse aspettarsi all’epoca anche il
metallaro più illuminato. Parte un solenne quattro quarti, suoni artigianali,
da cantina norvegese: ma che gran cuore avevano gli In the Woods…! Le
chitarre arpeggiate sono coperte dalle spesse tastiere raffiguranti paesaggi di
natura incontaminata, foreste, montagne imponenti, picchi innevati: il cascadian
black metal dei Wolves in the Throne Room, promotori dieci anni
più tardi dell'"eco metal", e il post black metal mistico e naturalistico
degli Agalloch, avranno molto a spartire con quanto scrivevano e
cantavano gli In the Woods… nel lontano 1995.
Cantavano, si diceva, e in effetti non si è ancora
parlato della voce, che si farà attendere: passeranno infatti diversi minuti
prima dell’avvento del bel canto evocativo, echeggiante i cori ancestrali del folk
scandinavo. Tenendo conto dell’amore che i norvegesi dichiareranno di avere
anche per il rock degli anni sessanta e settanta (in “Live at the Caledonien
Hall”, pubblicato nel 2003 quando la band sarà già dissolta, verranno
riproposte cover di Jefferson Airplane e King Crimson) non
è fuori luogo accostare a queste movenze certe atmosfere oniriche di cui si
frega il classico “In the Court of the Crimson King” (il brano coverizzato
dagli In the Woods… sarà proprio “Epitaph”, che in effetti echeggia
molto nella musica dei norvegesi).
L'Uomo, tuttavia, nella visione dei Nostri, è poca cosa:
accessorio integrato alla maestosità della Natura. Allo stesso modo il canto è
un elemento al pari degli altri strumenti che confluiscono in un unicum che
tende a specchiarsi in un’armonia che è propria del mondo naturale, andando per
certi versi ad anticipare certi umori di altri maestri del nord, gli
islandesi Sigur Ros (con cui, ragionando a posteriori, vi saranno punti
di contatto). Come si è visto nel caso degli Anathema di “We, the Gods”, il 1995 è stato un anno prodigioso per il metal, un anno nel quale
si sono andate a sperimentare per la prima volta certe soluzioni che spianeranno
la strada a chi vorrà cimentarsi in sonorità che poi verranno definite post.
La chitarra elettrica era nel frattempo affiorata,
disegnando struggenti melodie. Tutto è decisamente bello e potrebbe protrarsi così
all’infinito, ma se i Nostri si sono guadagnati il quinto posto della nostra
classifica, è perché non si sono limitati a settare il pilota automatico. Come
capita con il temporale che inaspettato ci coglie impreparati, la musica degli In the
Woods… non disdegna l'effetto sorpresa. Tutto si ferma: arpeggi scanditi
solennemente e (gilmouriani) giochi di armonici generano un clima di
attesa, a cui fa da didascalia un recitato pregno di pathos, che
repentinamente si tramuta in un bavoso screaming.
Entra in campo il black metal. Un urlo
lacerante squarcia la quiete: si apre la seconda sezione del brano, il quale si
tramuta in una coinvolgente cavalcata à la Bathory! Ma non si
pensi ad un belligerante viking o a scontri cruenti fra vichinghi e cristiani: qui
non si parla di drakkar né di Odino, sono semmai le soverchianti forze
della natura ad essere le protagoniste della scena! Se la prima sezione era
stata una celebrazione della natura, selvaggia e bellissima al tempo stesso, in
questa seconda parte si accede ad una dimensione più propriamente spirituale,
dove il viandante, protagonista del testo, gode di una compenetrazione
con gli Elementi. E ricongiungendosi alla Natura, elevata a Divinità,
egli stesso eleverà il suo Essere.
La batteria non oltrepassa mai i livelli di guardia, il suo
battito vitale si assesta su epici mid-tempo arricchiti dagli accenti dei
piatti, mostrando essa un approccio che vede lo strumento funzionale alla resa
complessiva. Nessun musicista eccelle negli In the Woods…, che si muovono come
un collettivo dove non è importante capire chi fa cosa. La stessa
foto della band nel retrocopertina conferma il concetto, ritraendo i musicisti insieme
a degli amici attorno ad un falò, nella notte: figure irriconoscibili, solo in
parte illuminate dal fuoco.
Ma torniamo a noi. Si diceva che il black metal è
entrato in scena: la voce è divenuta un incomprensibile latrato di cane che
molto ricorda le grida stridule di Varg Vikernes. Gli In the Woods… di
“Heart of the Ages” non scherzano: saranno stati anche buoni, cari ed amanti
della natura, ma la loro proposta era indubbiamente estrema e del black metal
sfoggiavano il lato più selvaggio e viscerale, con quell’approccio artigianale,
ma autentico, che rese grandi le band norvegesi e che oggi, con tutti gli
sforzi di produzione, non si è più in grado di ripetere.
Cuore cuore cuore, non so se il messaggio è chiaro:
suoni ruvidi, folk elettrificato, chitarre sfrigolanti e riff ossessivi
riprendono le lezioni di Bathory e Burzum. Il dinamismo della
sezione ritmica disegna un’escalation coinvolgente che culminerà con il ritorno
della voce pulita, la quale innalzerà ulteriormente il potenziale epico del
tutto, aiutata dalle provvidenziali rullate della batteria. Nella sua cavalcata finale
il brano filerà via che è una vera bellezza, fra piatti schiaffeggiati
con vigore e persino un brevissimo assolo, di due o tre note al massimo, ma
quanto mai calzante!
Ascoltata ancora oggi, "Yearning the Seeds of a New
Dimension" rimane uno scrigno pieno di emozioni, nonché una lezione di
stile per tutte le band post black metal che verranno. L’equilibrio che
il quintetto norvegese, al suo esordio ancora sospeso fra black metal e
sognanti atmosfere pinkfloydiane, fu unico ed importantissimo per gli
sviluppi del black metal al di fuori della sua ortodossia più classicamente true.
Ma fu anche un momento irripetibile, dato che già dal
successivo “Omnio” gli In the Woods… sganceranno dal loro corpus sonoro la
componente black metal come se fosse una inutile zavorra, per avviarsi lungo il
sentiero di una musica senza più schemi, animata da uno spirito di ricerca ed una
libertà espressiva che raramente troveremo altrove: un approccio talmente “avanti”
che sarà probabilmente l’origine di tutte le incomprensioni e, ahimè, dello
scioglimento della band, che avverrà pochi anni più tardi, con all’attivo solo
tre full-lenght pubblicati.