"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

16 feb 2017

OPETH VS KATATONIA: CHI E' PIU' IN FORMA OGGI?



 


Non è mai esistita una vera rivalità fra Opeth e Katatonia, sebbene le premesse vi siano state tutte, fin dal principio: forgiati nella medesima fucina (lo studio di registrazione di Dan Swano), germogliati e cresciuti nello stesso retroterra culturale (la Svezia degli anni novanta), evoluti verso sonorità sempre più ricercate che hanno condotto alla emancipazione dal metal estremo (materia peraltro maneggiata con grande originalità fin dagli inizi), i due gruppi condividono più di un tratto in comune.

Tuttavia, nonostante le analogie stilistiche e i vari punti di contatto (ricordiamo che Akerfeldt cantò su "Brave Murder Day"), Opeth e Katatonia hanno imboccato da un certo punto in poi strade sostanzialmente diverse, operando scelte che hanno previsto differenti percorsi di personalizzazione ed esiti artistici a tratti molto diversi che solo negli ultimi tempi hanno visto convergere nuovamente le proprie coordinate: da un lato l'ammorbidimento definitivo degli Opeth verso un prog dagli spiccati sapori vintage e dall'altro il metal-prog moderno dei Katatonia che hanno deciso di imprimere una nuova complessità al loro rock/metal dalle forti tinte dark. Ma non è nostra volontà ripercorrere storie arcinote. La domanda semmai è: dopo una storia più che ventennale, ora che entrambe le band vantano uno status di prim'ordine nel metal odierno, quale delle due si può definire oggi più in forma?

Partiamo dagli Opeth: non sono di certo uno che ha esultato innanzi alla svolta intrapresa con "Heritage". A rendermi perplesso non è tanto la scelta stilistica in sé, visto che sono amante del prog ed in particolare di quello settantiano, bensì il fatto che la band con questa mossa ha finito per snaturare la propria personalità per appiattirsi su una proposta eccessivamente derivativa, citazionista e tributaria dei classici degli anni settanta. Eppure con "Sorceress", uscito nel 2016, siamo già a tre album con queste caratteristiche e la band mostra una certa convinzione nel portare avanti le proprie scelte. No tentennamenti, no ripensamenti, no parziali passi indietro come molti altri: Akerfeldt sarà anche testardo come un caprone, ma almeno è coerente e forse forse, mi tocca ammetterlo, alla fine ha ragione lui.

Punto primo: un artista deve fare quello che si sente di fare, e il fatto che Akarfeldt continui imperterrito per la propria strada, nonostante piovano critiche da ogni dove, ci conferma che la condotta del Nostro sia mossa da forti convinzioni. Meglio dunque degli Opeth che fiaccamente portano avanti le loro sonorità storiche rischiando di apparire come il triste fantasma del loro passato, o meglio degli Opeth che, sempre fiacchi (perché gli anni d'oro sono veramente alle spalle), salvano il salvabile, sacrificando quello che più non gli appartiene e cercando di fare il meglio che possono in un formato a loro oggi più congeniale? A questo punto dobbiamo ammettere che l'opzione più desiderabile è la seconda, ossia quella di lavori come "Heritage", "Pale Communion" e "Sorceress".

Sarà perché ci siamo abituati, se non addirittura rassegnati, fatto sta che quest'ultimo capitolo discografico degli Opeth, superati i soliti preconcetti, non ci è dispiaciuto affatto. Ma attenzione, il merito non è di Akerfledt, la cui stanchezza compositiva si fa sentire al pari delle prove precedenti, bensì di una formazione che ha avuto modo nel corso degli anni di rodarsi e compattarsi, finendo per superare, quanto a freschezza ed inventiva, il vetusto deus ex machina: in particolare Martin Axenrot dietro alle pelli continua a crescere in modo impressionante, compiendo cose prodigiose ed offrendo una prestazione degna dei migliori batteristi prog. E così ogni volta che Akerfeldt apre bocca (bella voce, perlamordiddio...) è noia; ogni volta che parte un riff la sensazione di già sentito ci assale alla giugulare; ogni volta che spunta fuori un flauto, vengono in mente i Jethro Tull, non si scappa. Ma come ensemble gli Opeth convincono, il sound è ben levigato e, cosa più importante, ci imbattiamo in due o tre momenti sensazionali che è ancora lecito aspettarsi da un album degli Opeth.

Guardiamolo da lontano, dall'alto, con il binocolo, questo "Sorceress": apparirà come una pozza variopinta dove viola, arancio, verde e rosso si mescolano placidamente, senza particolari tensioni. Ma almeno tre edifici imponenti affioreranno: l'hard-rock robustissimo di "Chrysalis" (in cui sembra quasi che i vecchi Opeth duellino con i Deep Purple!), le suadenti movenze etniche di "The Seventh Sojourn" e le contorsioni progressive, dalle pieghe inaspettate, di "Strange Brew", brano imprevedibile che resuscita il reale spirito progressivo dei "padri fondatori".

In conclusione: se gli Opeth volevano dare un tocco di stregonesco al loro rock progressivo, hanno fallito, perché la loro musica non ha niente di magico o di particolarmente oscuro, per lo meno non porta con sé quel fascino perverso ed a tratti esoterico di certe manifestazioni dark-prog a cui certamente si ispirano. Però c'è da dire che questa sorta di “Breviario del rock degli anni settanta” funziona, in quanto i Nostri sono in grado di compiere un'ottima sintesi fra potenza e ricerca. Gli Opeth perdono ovviamente il confronto con i grandi classici, però intelligentemente riescono a superarli, sfruttando l'ampio range espressivo abbracciato e dunque battendoli, di volta in volta, nei loro ambiti di non competenza: più contorti e versatili di Black Sabbath, Rainbow e Deep Purple, più duri e pesanti di King Crimson, Camel e Van der Graaf Generator, i Nostri alla fine si salvano in corner, con brani ben strutturati che, rispetto al passato, hanno il pregio di non risultare dispersivi e di saper sfruttare al meglio le poche idee a disposizione.

Per certi aspetti, i Katatonia compiono un'operazione che si pone agli antipodi, con risultati che, come nel caso degli Opeth, ci esaltano e ci lasciano perplessi al tempo stesso. Alla fine anch'essi, con il loro ultimo album "The Fall of Hearts", sempre del 2016, completano una specie di trilogia che si era aperta con "Night is the New Day" e poi proseguita con "Dead End Kings", la cui appendice acustica "Dethroned & Uncrowned" non aveva fatto altro che confermare il nuovo sentiero intrapreso, l'ennesimo, dalla band scandinava. Dopo un periodo di assestamento con album melodici che si lasciavano alle spalle le asperità doom/black degli esordi, ed un paio di album di rottura come "Viva Emptiness" and "The Great Cold Distance" che inasprivano nuovamente il sound e lo macchiavano di spigolosa modernità, ecco che con queste ultime tre opere gli svedesi si aprono a sonorità ariose e progressive, che certo non rinnegano i passi evolutivi compiuti nel recente passato.

Si, da quando Renkse ha deciso di deporre le bacchette e concentrarsi sul canto, la musica dei Katatonia ci ha guadagnato in dinamismo, però in pochi si sarebbero aspettati questa svolta "opethiana", da loro che con due riff per canzone ed un quattro quarti ci avevano fatto commuovere. È stata forse l'importanza degli Opeth nel metal degli anni zero ad attirare i Nostri in quella direzione, sebbene essi avessero negli anni precedenti scelto di imboccare strade ancora più coraggiose dei loro "rivali".

Il bello di questa contesa è che si è trattato di un continuo sorpassarsi come succede nelle gare più avvincenti: i Katatonia sono partiti in pole position, mostrando una maturità precoce, mentre gli Opeth riscaldavano ancora i motori. Sempre i Katatonia sfoderarono per primi il coraggio per abbandonare il metal estremo, ma mentre essi rischiavano e pure sbagliavano, i più cauti Opeth si perfezionavano, entrando nella loro fase d'oro e divenendo uno degli astri più brillanti del metal recente. Si compì dunque il sorpasso, mentre i Katatonia, di certo sempre rispettati e seguiti, ma come fenomeno meno influente, continuavano a mutar pelle, finendo però per subire il fascino dei popolari cugini. E mentre Nystrom e Renkse prendevano le misure con partiture più complesse, Akerfeldt smarriva la bacchetta magica.

Ecco dunque che nel 2016 le due entità tornano ad incontrarsi: gli Opeth in fase calante, i Katatonia in lenta risalita, raccogliendo i frutti di una carriera sempre onesta e coraggiosa. Oggi Wikipedia li definisce "progressive rock", ma non sono progressivi come gli Opeth, che guardano quasi esclusivamente agli anni settanta, bensì avviandosi lungo la via del neo-progressive tracciata da Tool e Porcupine Tree/Steven Wilson: un prog che fugge i barocchismi e le atmosfere bucoliche e fiabesche per farsi intimo, gelido, cerebrale. Ed ovviamente oscuro, dark, ossessivo.

Guardiamo con il binocolo, dall'alto, da lontano, anche questo "The Fall of Hearts": ci apparirà una pozza grigia con la superficie increspata, dove varie correnti muovono continuamente masse di liquido verso le più disparate direzioni. Ma in questo brulichio non sembra accadere niente che si imponga sul resto. Tradotta questa immagine in musica, possiamo sostenere che oggi i Nostri si gettano in una cura certosina degli arrangiamenti, stratificano il suono, disseminano dettagli e preziosismi un po' ovunque, ma a conti fatti finiscono per suonare piatti e monodimensionali: tutto succede in ogni singolo minuto, e dove non c'è un arpeggio, vi sono tastiere e pianoforte; le chitarre graffiano ed accarezzano, si fanno morbide o più ruvide, senza soluzione di continuità, e sotto di loro il nuovo ingresso Daniel Moilanen rovescia contro-tempi, smitraglia con la doppia-cassa, colpisce energicamente i piatti per conferire sempre nuovi accenti. Renkse, da parte sua, ha una voce bellissima e il suo giocare sulle sfumature si fa più attento che mai; potremmo quasi definirlo (a voler dire una cazzata a tutti i costi) un Peter Gabriel che fa i conti con la proprio depressione. Eppure, in tutto questo affannarsi, il vocalist finisce per risultare sempre uguale a se stesso, incapace di inventarsi qualcosa di minimamente memorabile.

Uno stacanovismo, quello della band, alla fine inutile se si pensa che i momenti più convincenti si hanno quando i brani si fanno più lineari e privilegiano l'impatto, come la travolgente dark-song "Serein" (animata da sublimi intrecci di chitarre e tastiere, come succedeva ai bei vecchi tempi), la ballata "Decima" (adornata di intriganti tinte settantiane) e la più articolata "The Nightsubcriber" (a volte basta ripetere la stessa frase più volte, sul passaggio giusto, per emozionare). Con gli ascolti l'album cresce, ma bisogna avere tempo e non tutti ce l'hanno, io almeno non ce l'ho. Mi ricordo quando passavo le ore ad analizzare dischi di questo tipo, però poi negli anni tutto questo inseguimento di particolari non mi ha lasciato molto, mentre mi sono rimasti nel cuore coloro che hanno saputo fare un discorso più incisivo con poche idee ma buone.

Per questo ben venga l’operazione di sintesi compiuta dall'antipatico Akerfeldt, che non è certo il genio che lui si pensa, ma che almeno in “Sorceress” si è reso in qualche momento memorabile, pur galleggiando il resto del tempo sulla sufficienza. Di contro il lavoro dei Katatonia si presenta mediamente più tonico ed umile, meno auto-indulgente ed auto-celebrativo: uno sforzo che va apprezzato a prescindere, nonostante non si raggiungano mai picchi degni di nota. Per questa ragione alla fine vince il buonismo e facciamo finire con un pareggio la partita. Con la speranza, forse disperata, che gli Opeth, oramai rodati e stanchi di fare citazioni, compiano il vero salto di qualità in questa loro nuova fase artistica. E che gli infaticabili Katatonia ci stupiscano ancora una volta con un nuovo e formidabile cambio di rotta!