"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 set 2018

BLASHYRKH: SEMEIOTICA DI UN AVAMPOSTO DI VITA


Blashyrkh è una parola che Demonaz ci propina fin dal primo album degli Immortal. La sicurezza con cui Demonaz parla di Blashyrkh è tale per cui i giornalisti, quando lo intervistano, si preparano prima e le domande partono già da un terreno di conoscenza minimo, cioè che Blashyrkh è una specie di regno fantastico popolato dagli elementi consueti della poetica Immortaliana

Vero, ma nessuno si è degnato di spiegarlo, per cui in realtà la domanda da porre a Demonaz nelle interviste è: “Ma che cazzo sarebbe 'sta Blashyrkh?

A questo punto, potremmo accontentarci delle risposte evasive di Demonaz. Invece, l'intervistatore smaliziato si dovrebbe preparare nel dettaglio su qualsiasi affermazione Demonaz abbia fatto in merito a Blashyrkh e contestargliela come in un terzo grado, alla ricerca di qualche falla logica, di qualche salto concettuale. Così la prossima volta magari ci narra di mondi immaginari in maniera un po' meno supponente. In previsione di questo confronto, abbiamo esaminato i testi dei brani esplicitamente riferiti a Blashyrkh, e cioè: "Unearthly Kingdom", "In My Kingdom Cold", "At the Heart of Winter", "Battles in the North", "Blashyrkh (Mighty Ravendark)", "A Sign for the Norse Hordes to Ride", "Blacker than Darkness", "Mighty Ravendark", "Gates to Blashyrkh" e "Grim and Dark".

Per esempio: qual è l'urbanistica di Blashyrkh? Blashyrkh in realtà è un insieme di mondi (“Supera il cancello per i mondi di Blashyrkh”): i Regni del Corvo ("Ravenrealms"). Non si tratta di quartieri, ma di elementi che verosimilmente possono trasmutare l'uno nell'altro, ed è questo il concetto fondamentale che dobbiamo ben tenere a mente. 

Abbiamo individuato due elementi statici: il buio e il freddo; due elementi dinamici: il vento, il fuoco; due elementi simbolo della trasmutazione: la nebbia, la luna; due elementi concettuali: l'altezza e la fortezza. Che poi, come tutti i critici, più che avere individuato, ci facciamo tornare le cose così…

Il buio. A Blashyrkh i lampioni li spengono a mezzogiorno. Ne consegue che tutto è al massimo corrispondente a ombra proiettata dalla luna. Le persone hanno la faccia “rabbuiata per i secoli a venire”. "Le ombre offrono una vista spaventosa, e scuri devono essere gli occhi che la contemplano". Il buio deve essere assorbito per analogia, lo scuro deve filtrare attraverso lo scuro. Otticamente impossibile, a meno che non si intenda l'assenza di luce come elemento che unisce a ponte la natura e l'uomo, a quel punto uniti da una “non-riflessione” l'uno dell'altro, da una sorta di fusione silente, in cui gli elementi sono l'uno allineato con l'altro, senza bisogno di comunicare. Allineati nell'assenza esteriore: Blashyrkh “il regno che consuma la luce”. E la sua metafora animale è da subito identificata nel corvo. O meglio, nel nero corvino ("Mighty ravendark"). 

Le montagne sono dei blocchi di oscurità che si alzano, come sospinti o nutriti dalla nebbia che hanno intorno ("Apri i cancelli verso una montagna di tenebra, che si alza con la nebbia"). La nebbia è una specie di secrezione, di segno della presenza del buio ("Nebbia è tutto ciò che vedo davanti, generata dal cielo che annerisce di Blashyrkh"). Il segnale della nebbia è come “l'artiglio del corvo proteso verso il cielo”, l'anelito verso l'oscurità. 

Nero non significa assenza materiale. Le cose ci sono e si muovo, anzi l'essenza stessa di Blashyrkh è un movimento, un ribollire, che si svolge però in maniera oscurata e impenetrabile: ciò che Demonaz indica come “noctambulant grimness” ("l'orrore che si muove di notte"). La paura, lo spavento: emozioni rivelatrici in negativo che scivolano intorno al loro solvente naturale, cioè l'assenza di forma e colore, di distinzione, di riferimenti visibili. Addirittura il nero stesso non è assenza statica, ma un principio che cambia le cose, portandole allo stato di Blashyrkh. Il cielo di Blashyrkh è nero, ma è anche cielo “che annerisce”. 

C'è quindi un gioco concettuale tra il nero che assorbe, che toglie; e il nero che aggiunge, che annerisce. E' una sorta di ciclo vitale giocato sul nero, che si allinea sul nero/nulla, per poi generare la vita come “annerimento” dell'esistente. Il negativo è recuperato come sostanza, al netto della confusione del mondo visibile. Il nero è qualcosa che “si apre” oltre la dimensione del visibile e non negazione della visione e della conoscenza: "Abbraccia la tenebra che si spalanca oltre la faccia dell'Inverno". 

C'è tutto un percorso di morte apparente, di cancellazione, in cui però curiosamente Demonaz allude ad un “non-luminoso”, anziché ad uno scuro primario: "Unwhite". La terra di annerisce per questo movimento “anti-luminoso” e sotto la luce che brucia c'è la morte. In questa metafora si comprende la traduzione di luce e buio nel linguaggio di Blashyrkh: la luce è un'illusione di visione, che dal troppo calore poi brucia, si annienta, si corrompe. Invece lo scuro è ciò che si vede senza luce, ma che, per essere visibile, richiede prima un passo indietro: l'anti-luce, appunto. 

Le ali del corvo sono il simbolo del nero come colore brillante e non come nero cinereo, ossia quel che la luce regala come esito finale. Le ali del corvo sono un guscio che nasconde vita, mentre il sole è una bocca che la fagocita, la consuma. Ecco perché Blashyrkh è una sorta di scrigno della vita, di santuario della vita, protetto dalla luce e dalla mutevolezza che essa si porta dietro. 

Il freddo. “Apri i cancelli verso una montagna di ghiaccio”. Ma, scusate, non era di oscurità la montagna? Sul depliant c'era scritto così… Il freddo è anch'esso segnalato dalla nebbia e sollecitato dal vento. Il freddo quindi è ghiaccio ed è gelido vento, che ferma la vita, la cristallizza. Il freddo è indicato come principio di purezza e di chiarezza. “Come la faccia di un ghiacciaio, le tue montagne torreggiano contro il tramonto.” La montagna è il corpo, possente e forte, ma anche immobile (coerente?), che però si eleva contro l'ideale, il cielo nero. Infatti, la montagna si alza quando il sole tramonta. Il ghiaccio è il suo ventre, la vita racchiusa e custodita, il “volto” umano di questo paesaggio. Questo per dire quali sono gli standard di Blashyrkh: la cosa più umana che si trova è il vento gelido. Perfino il cielo, percorso dai venti, è “congelato”. Perfino i fantasmi sono “frosted phantoms”, in realtà metafora degli uomini di Blashyrkh, combinazione di assenza di luce (convertita in annerimento) e vita minimale nascosta (buio e ghiaccio). 

Ad un certo punto il ghiaccio assume forma legata all'umano. “Dentro nuvole sopra l'orizzonte, un trono di ghiaccio ci osserva silenzioso, con occhio di guerriero”. Certo, non c'è nessuno a sedere sopra quel trono: è il trono stesso che ha l'occhio umano, metaforicamente. E non solo l'occhio, perché “siede il giuramento di ghiaccio sull'antico Trono Corvino”. L'immagine dell'uomo integrato in Blashyrkh è il proprio trono. Il trono è nero, come la sostanza del giuramento, e la struttura è di ghiaccio, come un legame che nasce già fissato, cristallizzato. Non si tratta di un giuramento morto, ma di un giuramento sospeso nell'eternità del ghiaccio: un'eternità di mutamento molto lento, quasi inumano. Quasi, perché è in realtà ciò che di più umano c'è a Blashyrkh. 

Una mutevolezza minimale ma fedele, custodita nel ventre di Blashyrkh. Come un legame molecolare che si crea e si disfa, lentissimamente, per poi tornare su se stesso lentamente, in un equilibrio che è quasi un'assenza di movimento. "Lontano dal sole, il cuore dell'inverno è uno solo." Il passaggio al freddo è anche uno dei modi che Blashyrkh ha di fermare, distruggere, frenare ciò che non deve appartenergli. I giorni passati sono “freddi” poiché conservati, preservati. Ma le nuvole ghiacciate sono anche “nuvole ghiacciate che bruciano ogni cosa” ("holocaust frozen clouds"), “ghiaccio tuonante” ("thunderous ice") e gli eserciti di Blashyrkh "caricano attraverso la tempesta d'inverno". 

Alla fine, esistono luce e fuoco a Blashyrkh. In termini concettuali, chiaramente anche tutto ciò che è sopra lo zero assoluto è vita, quindi movimento, quindi calore. Il “calore” di Blashyrkh quindi, pur essendo descritto come tale (torce, fuoco, luce), è da intendersi come un movimento verso il cuore di Blashyrkh. Quando sotto il fitto delle foreste si avanza con torce che sono l'unica luce, non stiamo parlando di torce che sciolgono il ghiaccio, illuminano la strada e scaldano i piedi, bensì del calore che è speso per arrivare al cuore gelato dei ghiacciai delle montagne. Il calore è il prezzo da pagare a Blashyrkh. "I nostri occhi saettano stridenti di potenza": questo è un tipo di calore. "Le spire di fuoco immortale" sono un altro calore, non destinate a spegnersi, ma a rimanere cristallizzate. Alla fine tutto questo calore rimane, ma nascosto, come “i vortici di neve nei miei occhi”, specchio dell'anima dell'abitante di Blashyrkh.

Il migliore esempio di come tutta la luce, il chiaro, il calore non siano morte, ma sublimate, è la Luna. La luna di Blashyrkh è una luna di dicembre, è una luna che è definita dallo scurirsi del cielo, non è quindi una luce primaria, ma una luce “nel buio”. 

L'altro colore caldo, quasi superfluo dirlo, è il rosso del sangue, che serve solo come coltre per oscurare la terra. Perché il sangue dei nemici si accumula a livello del cielo? Beh, direi che è coerente con il fatto che queste battaglie si svolgono tra le nuvole e che la cavalcata dei guerrieri è assimilata al procedere della tempesta. 

L'unica volta, e dico unica, che Demonaz nomina una luce “vera” è quando parla dell'alba. Ma l'alba è fuori da Blashyrkh, è come se fosse l'esercito nemico schierato fuori dai cancelli di Blashyrkh. E infatti in quell'occasione le orde dell'oscurità sono chiamate a raccolta per la difesa (“Aspettando il bestiale sorgere del sole”). 

Che si dice di nuovo a Blashyrkh? Chiede la mamma di Demonaz al telefono col figlio. Ovviamente che vuoi che succeda? Meno che in una baita dell'estremo Alto Adige, ma Demonaz è contento così. Arriva nel 2018 e intitola una canzone “Grim and Dark”, un titolo che perfino per i primi Sodom poteva sembrare un po' scontato. Ma lui si emoziona con poco. Naturalmente anche nell'ultimo album "Northern Chaos Gods" Blashyrkh la ritroviamo tale e quale, anzi direi che questo è il disco in cui il ricorso a questa fantasia è maggiore. Citata come “Il regno che ha annerito il mio animo”, indicata come il consueto nome alternativo di “Maestoso Nero Corvino” e con appellativi come “Blashyrkh l'anti-luce”. C'è, in queste ultime descrizioni, più movimento. Fittizio, come quello delle foreste che si arrampicano sulle pendici dei monti, ma anche bellicoso, come il riferimento ad un ribollire umano, emotivo: “Qui sotto la possanza di questa maestà io ruggisco....”. 

L'elemento del fuoco appare come “cifra” di Blashyrkh, inedita di per sé: "Blashyrkh attraverso il nome, Blashyrkh attraverso il fuoco, torri di ghiaccio, ombre degli dei, storie del solo regno di ghiaccio”. Certo, il fuoco non è elemento costitutivo, ma è esaltato il suo ruolo come mezzo per raggiungere il cuore di Blashyrkh. “Il regno infinito attende la fine del fuoco, ogni luce scompare dai mondi”. E in qualche modo a Blashyrkh si comunica di più. Il “trono delle tempeste d'Inverno” pare voler dire a chi si avvicina: “Blashyrkh ti aspetta”. Oh, finalmente una parola, almeno per educazione. 

L'immagine di questo regno nero, gelido e brullo è però presentata sempre più come qualcosa che si sta per muovere o che ciclicamente si muove (“Regno notturno che sta sorgendo”). Certo, si muove nel senso che sorge ogni notte, come le montagne si alzano ogni notte annunciate dalla nebbia, però questa dimensione “dinamica” era meno evidente nei dischi precedenti. Un gruppo che si chiama Immortal, del resto, tradisce subito nel nome l'ossessione per la vita da perpetuare

Ed questa è la chiave di lettura di Blashyrkh: come sopravvivere. Come onorare il proprio passato perduto, le illusioni, i sogni che possono sopravvivere solo all'interno di un ghiacciaio. 

A cura del Dottore