Tra le mura domestiche ho respirato, fin da bambino, la passione per la Musica Classica. Mio padre, negli anni, si è costituito una ricca collezione di vinili di Lirica, che
ha tutt’ora. Sono cresciuto perciò sentendo dissertare, anche a tavola, di Verdi e
Donizetti, Rossini e Bellini, Puccini e Mascagni. Per carità, da ragazzino l’Opera
non mi esaltava di certo ma alcune arie, le più celebri, cantate dai Grandi Tenori
che apparivano alla tv (allora star musicali quasi tanto quanto Madonna e Michael
Jackson) devo dire che mi rapivano.
Il capolavoro di Milos Forman
“Amadeus” (1984), la celebre pellicola sulla vita di Mozart, fu un altro
tassello importante nel non far scemare il mio interesse verso quelle sonorità,
interesse che portai avanti anche negli anni dei miei primi approcci verso il
Verbo del Metallo. Mantenerlo vivo fu anche merito di quelle collane,
economicamente abbordabili, che uscivano in edicola con i quotidiani. Fu
infatti attraverso un’iniziativa de “La Repubblica” che mi creai la mia
personale discografia di Classica, affianco a quella metallara anch’essa in
divenire. Le uscite dell’iniziativa comprendevano i “Best of” dei compositori
più celebri: Mozart, Beethoven, Paganini, Chopin, Rachmaninov, Bach, Strauss,
Vivaldi. Giganti della Musica che ascoltavo di pari passo a Maiden, Priest e
Big Four of Thrash.
Ben presto scoprii che, quella che mi pareva una bizzarria (cioè ascoltare in parallelo due Generi così apparentemente distanti), in realtà non era così desueto tra i metal fans, oltre al fatto che moltissime band si ispiravano, o
asserivano di farlo, proprio alla Musica Classica; e a Wagner in primis (vero Mr.
DeMaio?). Non solo: alcune riviste dei nineties avevano proprio una rubrica interna
dove venivano consigliati dischi non-metal per metalheads, dove non di rado venivano suggeriti anche ascolti di Classica (fu attraverso Metal
Hammer, ad esempio, che conobbi “The planets”, potentissima opera orchestrale
dell’inglese Gustav Holst).
E, in quegli anni novanta, furono numerosi gli album che in maniera vincente fondevano disinvoltamente Metallo
e Classica; platters che mi esaltarono non poco: da “Lingua Mortis” e “XIII”
dei Rage ai capolavori dei Therion; per non parlare da un lato della
pletora di band symphonic power fiorite negli ultimi 20 anni e dall’altro delle
numerose collaborazioni, sia sporadiche che strutturali, di storiche metal band
con orchestre, in studio e/o dal vivo.
Insomma, era sempre più chiaro che
il Metal, da genere onnivoro qual è, aveva più di un minimo comun denominatore
con la Musica Classica. Per il sottoscritto quel m.c.d. era rappresentato dalle
sensazioni di potenza, epicità, magniloquente immaginazione evocativa comuni ai
due Generi. E qui mi fermo.
Date queste premesse, non potevo
che aspettare con fervore questo “Legacy of the Dark Lands”, ultimo parto
discografico dei Blind Guardian. E parlarne, dopo numerosi ascolti, non è
affatto facile. Come costume del nostro Blog, non ne faremo di certo una
recensione, ma cercheremo di ragionare in modo più ampio, per accomiatarci
degnamente da questo 2019.
Dopo tre full lenght più che
buoni (“A twist in the myth”, “At the edge of time” e “Beyond the red mirror”) ma
che “si limitavano”, seppur con classe e discreta ispirazione, a rimescolare le
carte in tavola senza osare troppo, i Bardi di Krefeld tirano fuori senza
dubbio l’opera più ambiziosa della loro 35ennale carriera, imboccando la
perigliosissima strada del…non-metal! E lo fanno in modo drastico e definitivo.
Recuperando l’approccio
orchestral-sinfonico di “A night at the Opera” e dello stesso "Beyond the Red Mirror", Kursch
e Olbrich compongono sì un album con il loro consueto stile, dal songwriting ormai
riconoscibilissimo, ma decidono che i riff li macineranno i violini, gli assoli
gli strumenti a fiato (o viceversa) e la sezione ritmica la comporranno tamburi
e piatti.
La struttura dell’album richiama
in tutto e per tutto quella del capolavoro ineguagliabile "Nightfall in Middle-Earth": cioè concept
fantasy e brani veri e proprio intervallati da intermezzi parlati, che realizzano
formalmente l’unità sostanziale di 75’ di musica (artefizio necessario a
immergerci in modo completo e credibile nell’epopea delle Terre Oscure). Se il risultato è inizialmente
spiazzante, con il susseguirsi degli ascolti, si capisce una cosa: che "Legacy..." è
un disco blindguardiano al 100%, dagli arrangiamenti curatissimi e dalla
produzione pressocchè perfetta. E contenente alcuni dei brani migliori scritti
negli ultimi 20 anni dal Guardiano Cieco: il primo quartetto (“War feeds war”,
“Dark cloud’s rising”, “In the underworld” e “The great ordeal”) è da pianti…Le
capacità compositive di Olbrich, e i miglioramenti vocali di Kursch, mai così
pulito e tecnico come ora, a 53 anni suonati, si sposano perfettamente con la
sapiente conduzione della Filarmonica di Praga (con la quale i BG già
collaborarono 3 anni fa per "Beyond...") da parte di Adam Klemens.
Ma quello che ci preme veicolare,
al di là dei gusti personali (sono certo che l’album avrà tanti acerrimi
detrattori quanti estasiati sostenitori), è l’importanza di questo disco, che
non può essere sottaciuta: il Metal, per mano di uno dei suoi alfieri più
importanti, celebri e amati da pubblico e critica (partito, ricordiamo, da un
grezzo thrash alquanto basico), arriva a negarsi, spogliandosi di
estreme distorsioni, riverberi e assoli chitarristici, di batteria martellante
e basso cavalcante, di anthems da urlare dal vivo a squarciagola. Ma rimanendo,
nella sua essenza, se stesso, coerente.
E che, come detto, i protagonisti di questa
operazione siano proprio i Blind Guardian, capaci di passare in un trentennio dalle
intransigenze di “Battalions of Fear” (1988) alla magniloquenza, peraltro mai
pomposa o sbrodolona, di “Legacy…”, è davvero un bel segnale dl vitalità
lanciato dal nostro Genere Preferito, così tante volte dato per bollito (quando
non direttamente per morto…).
Alla vigilia del 50ennale di vita
del Metal i tedeschi quindi esprimono lo stimolante
paradosso di una forma anti-Metal e uno spirito che lo è pienamente. Come se,
con un simbolico patricidio, lo uccidessero per dichiararne al contempo la
totale appartenenza, dandogli una prospettiva di coraggiosa apertura.
Ma soprattutto “Legacy of the dark lands” pare
domandare a colleghi e a noi pubblico, con coraggio e senza vergogna…cos’è
stato, cos’è e soprattutto cosa può essere il Metal a 50 anni dalla sua
nascita?
A cura di Morningrise