Mentre i Queensrÿche giungevano con “Promised Land” al culmine “pinkfloydiano” del loro percorso artistico (che avrebbe poi deviato verso tutt’altri lidi), nello stesso anno (il 1994) i Tiamat compivano anch’essi un significativo avvicinamento alle sonorità professate dai Pink Floyd, assecondando senza riserve quelle tentazioni che già erano emerse nei lavori precedenti.
Premesse e conclusioni, tuttavia, sarebbero state molto diverse per le due band: i cinque di Seattle partivano da un heavy metal classico e l’avevano elevato ad un livello concettuale che evocava album come “The Wall” e “The Final Cut”, richiamati anche negli umori; gli svedesi, invece, originati da lidi ben più estremi, dipingevano il loro gothic-metal con i colori della psichedelia. Johan Edlund, padre-padrone della band, avrebbe certamente costituito, con il suo estro visionario, un campione indiscusso della causa pinkfloydiana all’interno dell’epopea metal.
Anno 1989: ma chi se lo sarebbe mai aspettato che...
...la stessa band che aveva dato alle stampe un album furente come “Sumerian Cry” (fulgido esempio di ruvido death/black metal di marca svedese) avrebbe un giorno realizzato “A Deeper Kind of Slumber” (anno 1997), un lavoro che si smarcava nettamente dagli stilemi del metal, fra i primi casi, se non il primo in assoluto, di abbandono in toto del metal da parte di una band precedentemente dedita al metal estremo.
Ma vi è stato un filo conduttore capace di unire opere così diverse e dare coesione e coerenza al percorso artistico della band scandinava: l'ossessione per la dimensione onirica, con il tempo approfondita ed ampliata fino a lidi non preventivati. Da certi passaggi atmosferici del feroce esordio, qualche seme “onirico” germogliava nel claudicante “The Astral Sleep” (1990), dove tastiere, chitarre acustiche e voci sussurrate iniziavano a fare capolino in un sound ancora indeciso fra death e doom (episodi come “Dead Boys’s Choir” ed “Angels Far Beyond” sono eloquenti al riguardo).
Con “Clouds” (1992) il passo avanti fu notevole, mostrandosi l’opera all’avanguardia in campo estremo per l’uso massiccio di tastiere: gli episodi più rappresentativi dell'operazione rimangono quelli più doomish ed ancorati all'universo metal, come l'opener "In a Dream" (un titolo un programma) e la lenta e cadenzata "The Sleepling Beauty". Tuttavia gli arrangiamenti magniloquenti, la solennità di molti passaggi (la semi-ballad “A Caress of Stars” ne è pregna) ed in particolare il gusto gilmouriano di certi assoli (si pensi a quello della conclusiva “Undressed”) facevano intuire anche all'ascoltatore più distratto l’ammirazione della band per il suono pinkfloydiano.
Nonostante il prodotto fosse di pregevole fattura, il risultato non deve avere soddisfatto in pieno Edlund che, all’indomani delle registrazioni, decise di disfarsi della maggior parte dei musicisti e tenersi solamente il bassista Johnny Hagel, che avrebbe garantito pieno appoggio alle sue ambizioni, ossia non suonare più rispettando i canoni del metal, bensì inseguire le traiettorie sonore dei propri idoli dichiarati: i Pink Floyd.
Anno 1994: “Wildhoney”
Riascoltando di recente questo album, e in particolare la top-song “Gaia”, mi sono figurato la scena di Edlund e il produttore Waldemar Sorychta seduti dietro al mixer che riascoltano il prodotto appena ultimato. Svanisce in dissolvenza l’assolo di “Gaia”, appunto, i due si guardano stupiti per qualche istante e poi iniziano ad applaudire nel silenzio delle studio tronfi di soddisfazione. Chissà cosa avranno pensato in quel momento: saranno stati consapevoli di aver fatto qualcosa che nessuno aveva mai osato fare in precedenza, per lo meno nel metal estremo?
Sorychta si era già fatto un nome in ambito gothic e molte produzioni eccellenti del periodo (eravamo nei primi anni novanta) avrebbero portato la sua firma. Con "Wildhoney", tuttavia, il Nostro si sarebbe letteralmente superato (vinse anche un premio), apportando un contributo essenziale (suonando le parti di tastiera, che non sono poche, e dando man forte in sede di arrangiamenti e di post-produzione) e soprattutto fornendo quell’equilibrio indispensabile per confezionare un’opera così audace e sbilanciata verso l'ignoto: un’opera in cui certi stilemi del metal estremo sopravvivevano (sporadici growl, potenti ed evocativi riff di chitarra), ma che costituivano oramai quota di minoranza in un sound che guardava indubbiamente più all’atmosfera che all’impatto sonoro.
Il lavoro compiuto in studio è fondamentale, con un uso attento della effettistica, con suoni, partiture ambient, a volte rumori, a fare da provvidenziale raccordo fra un brano e l’altro. Quanto alla composizione vera e propria, la maturazione naturale dell’Edlund-autore va a coincidere con l’intento, ormai manifesto, di integrare stilemi metal e reminiscenze pinfloydiane, le quali sono varie e provenienti dalle diverse fasi del cammino artistico degli inglesi: dalle origini psichedeliche (ricordiamo che “Set the Controls for the Heart of the Sun” è stata spesso portata sul palco dai Tiamat) alla maturità progressive della seconda metà degli anni settanta, dove la pomposità degli arrangiamenti, anche orchestrali, ben si sposa con le propensioni fisiologiche di un genere come il gothic metal.
Anche Hagel dà il suo buon contributo (sua è la firma che sta dietro alla grandiosa “Gaia”), mentre i session-guest Lars Skold (batteria) e Magnus Sahlgren (chitarra solista) operano con diligenza, senza mai strafare, nel supportare le visioni del duo. Il tutto, si diceva, benedetto dalla mano fatata di Sorychta dietro al mixer.
I dieci brani (di cui quattro brevi strumentali) sfumano l’uno nell’altro in un unico - magico - flusso, perché, per citare Edlund, questa non era musica à la Slayer ove è necessaria una pausa per riprendere fiato. I tasselli si incastonano armoniosamente nel mosaico come accadeva con “The Dark Side of the Moon”: come nel classico dei Pink Floyd, non vi è una vera e proprio narrazione ad unire i singoli episodi. Ma nel caso dei Tiamat si è lontani dalle dissertazioni amare sulla società e sulla follia dell’uomo contemporaneo: a legare i brani di “Wildhoney” vi è piuttosto un concept volto a celebrare l’onnipotenza della Natura, vista non come entità benevola nei confronti dell’uomo, destinato semmai a soccombere sotto la sua forza soverchiante (un tema che si riallaccia sicuramente al background romantico del genere professato dagli svedesi).
Si parte non a caso con i “suoni della natura” della breve title-track, presto spazzati via dal riff di apertura della bellissima “Whatever that Hurts”. Ma è solo questione di un attimo, perché subito una chitarra arpeggiata ed ariosi synth disegnano scenari onirici presto raggiunti dalla voce sussurrata di Edlund, che si inasprirà nel potente ritornello. Nel riffing apocalittico di “The Ar” riemergono per qualche minuto i “vecchi Tiamat”, per poi essere nuovamente risucchiati dall’ambient ribollente di effetti elettronici dell’intermezzo “25th Floor”: parentesi rumoristica che funge da perfetto contraltare per l'attacco melodico del brano successivo. Eccoci dunque a “Gaia”, ballata visionaria sorretta da robuste orchestrazioni ed impreziosita da sublimi assoli di chiara marca gilmouriana. La poetica struggente della band trova la sua massima espressione in questa ode alla natura: un rito celebrato fra solenni colpi di basso ed un canto grattato che lambisce i confini del growl. Quella che potremmo definire (con le dovute proporzioni) la "Comfortably Numb" dei Tiamat sfuma epicamente in dissolvenza, lasciando dietro di sé un breve iato di silenzio che probabilmente segnava, in origine, la fine del lato A sul vinile.
Il lato B si apre con il sognante arpeggio di “The Visionare”, altro salto nel passato della band, la quale confeziona un gothic/doom di gran classe e costruito su ricercate e possenti stratificazioni sonore. La forza del brano si stempera nello scroscio della pioggia di “Kaleidoscope”, altro intermezzo dove il borbottio di un temporale ed un ipnotico giro di chitarra acustica ci conducono alla medievaleggiante “Do You Dream of Me?”. Evocatrice di umori arcani, essa è un brano pressoché folk e segna l'inizio di una nuova fase dell'opera, che proseguirà su toni pacati e sognanti, distaccandosi definitivamente dal metal. In essa un vivace assolo spagnoleggiante si tramuta in linee di chitarra ancora una volta debitrici dell'estro intramontabile di David Gilmour. Lo stesso si può dire delle chitarre cosmiche nella strumentale “Planets”, con sotto eteree tastiere ad opera del provvidenziale Sorychta. Anche la sorniona “A Pocket Size Sun” può essere in qualche modo assimilata al repertorio pinkfloydiano, ricordando certe folk-ballad bucoliche dei primissimo periodo ("Fat Old Sun"?): il botta e risposta nel ritornello fra Edlund e la guest Birgit Zacher, e le jam di improvvisazione psichedeliche con impennate ritmiche e suoni che si accavallano in delay concludono l'album all'insegna di un inconsueto mood solare e positivo.
A molti (me compreso) questa conclusione lascerà l'amaro in bocca, ma è anche vero che un esperimento come "A Pocket Size Sun" rappresenta l'inevitabile altra faccia della medaglia, dato che i Tiamat con "Wildhoney" hanno davvero saputo guardare avanti, spingendosi laddove nessun altro aveva osato. Evidentemente il metal stava già molto stretto ad una band che, si è visto in principio, avrebbe successivamente abbandonato i lidi del metallo.
I Pink Floyd avrebbero continuato a fungere da stella polare per la formazione svedese, almeno per quanto riguarda la stesura dello spettacolare "A Deeper Kind of Slumber", ove i brani continuavano ad essere concatenati fra loro in un unico flusso onirico e la psichedelia, seppur in altre forme, regnava sovrana. Lo stesso non sarebbe valso per i lavori successivi, i quali avrebbero preferito correre lungo i binari di un goth-rock più banale e dalle evidenti tentazioni commerciali. Di Pink Floyd, ahimè, qualche sprazzo qua e là...