"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

12 mar 2021

ALBUM METAL PINKFLOYDIANI: "PROMISED LAND", QUEENSRYCHE (1994)


I Queensryche sono stati indubbiamente fra i primi gruppi metal ad adottare con consapevolezza stilemi pinkfloydiani e ad integrarli programmaticamente nella propria musica; i primi, probabilmente, a costruire un linguaggio ove questi stessi stilemi trovassero una coerente e congeniale collocazione all’interno degli schemi dell’heavy metal. 

Contrariamente ai Voivod (predicatori nel deserto), i Nostri sarebbero presto divenuti un punto di riferimento per l’universo metallico "pensante", cosicché quelle loro intuizioni si sarebbero cristallizzate in veri e propri cliché poi adottati da moltissime altre band, principalmente in campo prog-metal. Continua così la nostra rassegna sul metal pinkfloydiano... 

Anno 1988: quando il metal diventava intelligente... 

Già con l’ottimo “Rage for Order” (1986) i Queensryche avevano dato prova di essere in grado di allestire un heavy metal raffinato, dagli arrangiamenti originali e dalle soluzioni stilistiche insolite. Fu tuttavia con “Operation: Mindcrime” che si verificò il classico "evento storico" per cui è lecito dire: niente sarebbe stato più come prima! 

La band di Seattle partoriva il suo capolavoro ed inaugurava un approccio inedito, più concettuale, alla materia dell’heavy metal. "Operation: Mindcrime" era un concept album in cui la narrazione, svincolata da ogni componente epica tipica del genere, veniva compiuta non più da un osservatore esterno omnisciente, ma dal punto di vista del protagonista, il cui "io" diveniva l'entità psichica che plasmava le vicende. Non ci si limitava a raccontare una storia attraverso i testi, ma si edificava l’adeguata “atmosfera”, spesso ricorrendo ad accorgimenti extra-musicali, come voci registrate e suoni di vario tipo innestati in studio (concepito come luogo creativo a tutti gli effetti). La post-produzione sarebbe divenuta il membro aggiunto della band, la quale, oltre a poter contare su un tasso tecnico elevato e grande ispirazione, nutriva l’ambizione di innalzare l'opera al di sopra dello status di mera raccolta di canzoni. I brani, di fatto, si concatenavano fra loro, con effetti ambientali nel background o con l'ausilio, a volte, di brevi tracce-ponte

Indubbiamente i Queensryche stavano guardando ai Pink Floyd di “The Wall”, diversissimo da un punto di vista delle estrinsecazioni sonore (del resto “Operation: Mindcrime” rimane un album di heavy-metal bello tosto), ma continuamente richiamato negli umori e negli escamotage concettuali. Lo si capisce già dalla traccia introduttiva “I Remember Now”, sorta di cornice narrativa ove l’ascoltatore è immerso nella vicenda grazie ad elementi che suggeriscono l’ambientazione (un ospedale) ed alla voce “fuori campo” del protagonista. L'incalzante strumentale "Anarchy - X" (che suona molto "In the Flesh?") rappresenta l'inizio della regressione temporale: una narrazione in cui vengono inclusi temi sociali, politica, una storia d’amore e i drammi del protagonista, che, nel caso dei Queensryche, non hanno niente di autobiografico (la band si sarebbe ispirata al Movimento Separatista in Quebec), come invece accadeva in “The Wall”, dove storia, società e vicende personali di Roger Waters si intrecciavano in un unicum indistinto. 

Ma di Waters c’è la teatralità, riletta da un Geoff Tate superlativo che mette a disposizione le sue superbe doti canore per rendere ogni sfumatura dell'interiorità del suo personaggio. Basti pensare alla dilaniante "Electric Requiem", intermezzo che sembra voler evocare proprio quel senso di solitudine che scaturiva dall'ascolto di una "Don't Leave Me Now", esempio perfetto del disperante soliloquio watersiano. La stessa sensazione si prova innanzi alle grida sconsolate di Tate al termine di "My Empty Room", altro episodio breve. Per chi avesse ancora dubbi che i Nostri abbiamo guardato continuamente ai Pink Floyd, c’è la citazione più o meno esplicita di “Empty Spaces” (sempre da “The Wall”) appena prima della conclusiva “Eyes of a Stranger”. 

Di "The Wall", infine, si sposava anche il grandeur, che certo con il metal non guasta: esibizione di potenza che tocca il suo apice con i dieci minuti di "Suite Sister Mary", che si fregia di cori chiesastici ed una esaltante voce femminile. 

Sarebbe seguito un tour epocale con proiezioni di video, animazioni e attori sul palco, proprio come era accaduto con “The Wall”. Il successo di vendite avrebbe portato anche alla pubblicazione del più commerciale “Empire” (1990), operazione che sinceramente non ho mai capito fino in fondo. Chiariamoci: “Empire” è un album bellissimo e come al solito popolato da brani eccezionali, ma quel surplus concettuale che aveva caratterizzato il celebre predecessore viene in parte a mancare, preferendo la band puntare su un approccio più diretto e, per certi aspetti, radiofonico. Di pinkfloydiano poco o nulla, fatta eccezione per la splendida “Silent Lucidity”, sontuosa ballata orchestrale che ricalca, sfiorando il plagio, le movenze di una “Comfortably Numb”. 

I fan che avevano apprezzato il lato più “celebrale” della band di Seattle avrebbero comunque potuto tirare un bel sospiro di sollievo con l'album successivo...

Anno 1994: “Promised Land” 

Il logo della band campeggia nuovamente in copertina, minimale più che mai, pervasa da colori cupi e grevi: la perfetta rappresentazione della musica proposta in "Promised Land". 

In piena esplosione grunge, i Queensryche (che pure sono di Seattle) ripiegano sull’introspezione, confezionando il loro album più raffinato ed ermetico di sempre. Se "Operation: Mindcrime" era stato il "The Wall" dei Queensryche, “Promised Land” sarebbe divenuto il loro "The Final Cut". Con questo album la band compiva un ulteriore passo in avanti, svincolandosi da una narrazione di tipo romanzesco (con villain, storia d’amore, colpi di scena ecc.) per modellare un concept astratto che univa i vari brani attraverso i temi della comunicazione, dei rapporti umani, della alienazione (mentale e sociale), della disconnessione fra “io” e "altri" nella società. Temi cari anche ai Pink Floyd della metà degli anni settanta, ma ovviamente le analogie non finiscono qui. 

Già l’intro “9.28 A.M” con il suo battito del cuore evoca “Speak to Me”, la mitica introduzione di “The Dark Side of the Moon”: seguono i bip di un dispositivo da ospedale, inequivocabili "sussulti da trapasso" ed infine i vagiti di un neonato con tanto di carillon ad introdurre l'inclinazione esistenzialista dell'album. 

Album che, nonostante la complessità concettuale, non vede necessariamente un alleggerimento di suoni. La zeppelinianaI Am I” e la più groovyDamaged” picchiano duro, grazie a suoni potenti ed una produzione al passo con i tempi. Ma la cosa che denota la maturità raggiunta dalla band è la fluidità con cui si susseguono i brani, che, pur non risultando tutti saldati fra loro, ed anzi molti diversi nella forma, vanno a comporre un flusso straordinariamente coerente. 

La band decide poi di infilare due ballad una di seguito all'altra, cosa insolita nell’universo metal, ma che risulta molto funzionale all'insieme. Entrambe offrono una bella dose di reminiscenze pinkfloydiane: "Out of Mind" è clamorosa nell’evocare certe ossessioni sonore che pervadono album come "Wish You Were Here", "Animals" ed ovviamente "The Wall" (si pensi alla spettrale "Hey You"), in particolare nell’integrazione (da brividi) di solenni note di fretless bass e gli splendidi solismi di Chris De Garmo (che per tutto l'album dispenserà magie di gilmouriana memoria); "The Bridge", invece, evoca "Mother" (sempre da "The Wall") e, non a caso, nel testo Tate si rivolge al padre. 

Con la superlativa title-track si entra nella fase più pinkfloydiana dell’opera: la traccia si apre con note di chitarra in delay ancora una volta debitrici dei soundscape di "The Wall" (questa volta viene in mente "Another Brick in the Wall, Part 1"), per poi proseguire con passo lento ed ossessivo per ben otto drammatici minuti: il palcoscenico ideale per un Tate in stato di grazia, mai così vicino all'estro di Waters, fra sofferto recitato ed improvvisi scoppi di dolore. Ci immaginiamo il cantante riverso su un bancone di un bar, in preda ai fumi dell'alcol, intento a declamare al barman i fallimenti della propria vita, con picchi di amarezza difficili da eguagliare. 

Vorrei a questo punto sottolineare il passaggio da questo al brano successivo: i suoni sfumano in dissolvenza, fra squarci di sax, le grida riverberate di Tate e voci di persone. Si sentono dei passi, una porta che si apre e che poi si chiude: il caos termina di colpo e lascia lo spazio alla quiete notturna, a passi sul selciato, al gracidar di rane e al canto di grilli (la memoria va ancora una volta a certe ambientazioni di “The Wall”). Il verso stridente di gabbiani e ritmiche elettroniche, poi, introducono i bagliori del mattino, con i toni metropolitani di “Disconnected”, un esperimento funk-metal reso credibile ancora una volta grazie alla voce versatile di Tate e ad elaborati arrangiamenti (elettronica ed ancora sax): applausi a scena aperta. 

Da questo momento l’album "molla la presa" e si scosta dall’universo pinkfloydiano (e ci mancherebbe!, i Queensryche non sono certo una cover band!), con una bella “Lady Jane” (altra ballata, questa volta più spostata sul versante beatlesiano), due episodi che si riappropriano della natura hard-rock oriented della band (“My Global Mind” e “One More Time”) e la chiusura coi fiocchi di “Someone Else”, per soli voce e piano.

Come andrà a finire, purtroppo, lo sappiamo: "Promised Land" rimarrà l'ultimo capolavoro della band, il cui percorso virtuoso verrà bruscamente interrotto dal (non riuscito) esperimento in direzione grunge di "Hear in the Now Frontier" (1997). Il prosieguo sarà dettato, come spesso capita, da un progressivo ritorno indietro, fino alla disperata carta del sequel di "Operation: Mindcrime", seguito da album altalenanti con cui la band cercherà di rialzare la testa. La separazione con Tate sarà  il colpo di grazia: i lavori con La Torre saranno più che dignitosi, ma non certo geniali ed innovativi come i sopra menzionati "Operation: Mindcrime" e "Promised Land". 

Fortunatamente le lezioni in essi contenute sopravvivranno nelle gesta di molte band prog-metal a venire, le quali si approcceranno alla materia metal con l'intelligenza e l'introspezione della band di Seattle.