9 apr 2021

ALBUM METAL PINKFLOYDIANI: "HEART OF THE AGES", IN THE WOODS..... (1995)


Con i Tiamat, la scorsa puntata, abbiamo visto come il verbo pinfloydiano sia potuto approdare alla corte del metal estremo. Ma è anche doveroso chiarire che il gothic metal ben si presta a commistioni del genere. Come dire: facile fare i pinkfloydiani se si va lenti, se si è melodici, se si punta ad un suono stratificato e magniloquente

Le cose si complicano quando si suona black metal, ma i fatti, incredibilmente, hanno dimostrato come Pink Floyd e black metal non siano entità cosi distanti. Fra i primi a tentare questo esperimento sono stati i norvegesi In the Woods..., paladini di quell'approccio alla "scrittura libera" che avrebbe spalancato portoni al metal estremo del terzo millennio… 

1981/1982: agli antipodi 

Non ho mai considerato i Venom una band propriamente black metal, ma se vogliamo ragionare per convenzioni la nascita del genere si associa di solito alle loro prime pubblicazioni: il loro esordio “Welcome to Hell”, del 1981, e l'opera seconda "Black Metal", nel 1982. E così, secondo ricostruzioni successive, il black metal sarebbe nato all'insegna dell'oltranzismo sonoro (non come scelta stilistica, bensì come via obbligata per le evidenti ed ostentate carenze tecniche dei singoli musicisti) e un becero satanismo di facciata (che non portava con sé alcun tipo di approccio filosofico o esistenziale). Insomma, una musica ancora rock'n'roll nello spirito: schietta, diretta, provocatoria nei testi, assai poco concettuale nei contenuti, agli antipodi di quanto professato dai Pink Floyd, se a loro si pensa agli artefici di un "suono totalizzante" tanto visionario quanto articolato nelle sue estrinsecazioni ed approfondito da un punto di vista concettuale.    

Il trio di New Castle forse non avrà suonato del black metal come lo intendiamo oggi, ma di sicuro ha fornito un bell’impulso al filone estremo del metal. Senza dover ripetere per l’ennesima volta cose che tutti sanno, potremmo solo ricordare che a seguito del “big bang” venomiano sarebbe scaturito il thrash metal e a cascata tutte quelle band proto-death e proto-black (appunto) che avrebbero infestato il panorama metal nella seconda metà degli anni ottanta. Band spesso con caratteristiche diverse, ma che condividevano l’intento di spingere i confini del metal oltre il consentito: velocità, esecuzione approssimativa, vocalità sempre più efferate, atmosfere morbose. 

Proprio da queste sperimentazioni avrebbero tratto ispirazione quelle realtà norvegesi che, agli albori degli anni novanta, avrebbero coniato quel linguaggio che oggi usiamo associare al black metal tour court. Gli stessi pionieri e leader del movimento, i MayheM, nutrivano l’intento di produrre il metal più temibile del globo, arrivando a disprezzare persino i contendenti death metal e grindcore, che costituivano all’epoca il fronte più avanzato del metal estremo. Burzum, Immortal, Darthrone avrebbe approfondito quel medesimo discorso; in particolare questi ultimi arrivarono ad incarnare, con “Transilvanian Hunger", anno 1994, l’essenza del ”True Norwegian Black Metal”, fissandola in brani tanto violenti quanto minimali e privi di variazioni, il tutto marchiato a fuoco da una produzione rigorosamente low-fi che rendeva i suoni impalpabili e quella musica ancora più inafferrabile e, per certi aspetti, metafisica. 

Anche questa nuova concezione "purista" del black metal si poneva agli antipodi della musica del Pink Floyd. Presto, tuttavia, sarebbe cambiato il vento sulle lande norvegesi: toccato il limite estremo, era tempo di abbandonare l'ortodossia, fare retromarcia e recuperare quella libertà di composizione che, in modo programmatico, era stata estromessa dal cono della visione artistica del genere… 

1995: “Heart of the Ages” 

Note singole echeggiano nel silenzio mentre evocative linee di tastiere emergono in trame che lambiscono i confini dell’ambient. Un solenne quattro quarti entra in punta di piedi trasportando ariosi accordi di tastiere e delicate chitarre arpeggiate, elettricità chiamata a rapire i cuori: no, non stiamo descrivendo la fase iniziale di “Shine on You Crazy Diamond”, bensì quella di “Yearning the Seeds of a New Dimension”, superba opener del capolavoro “Heart of the Ages”. 

Ma dei dodici fantastici minuti che aprono in modo magistrale l’esordio degli In the Woods… abbiamo già parlato nella nostra rassegna sui migliori brani lunghi del metal. In questa sede, piuttosto, ci soffermeremo sui legami della band con l’universo pinkfloydiano: una lezione che, dai norvegesi, veniva interpretata più nello spirito che nella forma, sebbene i rimandi diretti al repertorio dei Pink Floyd non mancassero. 

Il brano appena menzionato, appunto, porta con sé la monumentalità delle celebri suite dei Pink Floyd, e la prima parte di essa evoca sicuramente album come “Meddle” e “Wish You Were Here”, prima che il brano si tramuti in una appassionante maratona bathoriana. Più avanti nella scaletta, dopo un paio di episodi più black-oriented, ci imbattiamo in un’altra forte reminiscenza pinkfloydiana, questa volta in direzione “The Dark Side of the Moon”: mi riferisco all’eterea “Mourning the Death of Aase”, un intermezzo strumentale che grazie ai magici gorgheggi della ospite Synne "Soprana" Larsen (in organico a partire dall’album successivo) chiama in causa niente meno che la mitica “A Great Gig in the Sky”. 

Ma al di là di questi due episodi singoli, è l’approccio alla composizione, senza schemi e limiti di tempo, a riecheggiare il fantasma della band inglese. La maestosità di queste lunghe composizioni (in un caso si arriva persino al quarto d’ora) è tutta pinkfloydiana: un procedere per suggestioni che sa regalare picchi di emotività non indifferenti e che rifugge da quel pragmatismo che era stato il modus operandi del metal fino ad allora. Indubbiamente ci troviamo innanzi ad uno dei primo esempi di post-metal in senso sostanziale (sebbene l’etichetta avrebbe poi indicato sonorità diverse e scaturite dalla “rivoluzione neurosiana”, che sarebbe scoppiata di lì a poco). Questi lunghi brani, che non poggiano su strutture prevedibili, portano con sé i crismi del musica “post” tout court, sviluppandosi per immagini o semplici sensazioni, seguendo il filo dell'ispirazione, inciampando talvolta in passaggi dispersivi o lungaggini che finiremo, non solo per perdonare, ma anche per amare. 

Al netto delle sonorità professate, ad emergere è quel "situazionismo" tendente al mistico che rese grande la psichedelia dei primi Pink Floyd (il modello a cui gli In the Woods… hanno guardato con maggiore insistenza); i Pink Floyd, intendo dire, di brani come “Saucerful of Secrets”, "Careful with That Axe, Eugene" o “Echoes” (un approccio che troverà la sua apoteosi nel successivo “Omnio”, evidente nella fumosa parte centrale della chilometrica title-track). 

Tutto questo si sposa alla perfezione con gli intenti celebrativi della band nei confronti della Natura, tema già caro al black metal scandinavo, ma che qui trova la sua più coerente realizzazione, tanto che la band, per distaccarsi ulteriormente dai cliché imperanti nel genere, amava definire la sua musica “Earth metal”: definizione quanto mai azzeccata se si pensa alla forza descrittiva che possiedono le impalcature sonore allestite dai Nostri. Aiutano tempi che difficilmente si fanno sostenuti per dare respiro ad immaginifici paesaggi sonori, spesso lambenti i lidi dell’interiorità in una unione panica (pagana?) fra io e fuori, fra Uomo e Natura

Break atmosferici di tastiere o field recording si aprono varchi importanti fra lo sferragliare di ispirati riff in tremolo dove convivono voci pulite che evocano il folk nordico e latrati di burzumiana memoria. Tutto questo, indubbiamente, è poco pinkfloydiano, ma se è vero che il black metal, rispetto ad altri filoni estremi del metallo, possiede una forte componente spirituale, lo spleen sognante e visionario dei Pink Floyd è di certo un valido alleato nell’edificare un sound che, fino ad un momento prima, non era ipotizzabile nemmeno in teoria: un suono che coniugasse la ruvidità del black metal con le atmosfere incantate e fantastiche mutuate dalla tradizione rock, psichedelica e progressiva, degli anni sessanta e settanta! 

A questo punto è doverosa una precisazione di carattere culturale, che si riallaccia a quanto dicevamo in merito al “grande equivoco” dei Voivod, forse i primi nel metal ad essere associati al nome dei Pink Floyd. Anche gli In the Woods…, come i canadesi qualche anno prima, furono dalla stampa di settore collegati alla band inglese, non solo perché influenza inequivocabile per i Nostri, ma anche e soprattutto perché i Pink Floyd erano il riferimento più facile da fare, sia per chi scriveva che per chi leggeva. Mi spiego meglio: “Yearning the Seeds of a New Dimension” suona tanto Pink Floyd quanto King Crimson, se si pensa alle ballate epiche di “In the Court of the Crimson King” ed in particolare ad “Epitaph”. Un concetto che la band avrebbe reso esplicito successivamente con la cover della stessa “Epitaph” (edita come singolo nel 2000): operazione preceduta dal rilascio di altri due singoli in cui la band si era cimentata nella riproposizione rispettivamente di “White Rabbit” dei Jefferson Airplain (1996) e di "Let There Be More Light" degli stessi Pink Floyd (1998). A dimostrazione di come questi ultimi fossero certo una influenza importante, ma non l'unica, e che individuare le fonti di ispirazione nell'arte dei norvegesi richiedeva un ampio background di conoscenze extra-metal, che non è detto fosse appannaggio del metallaro medio dell'epoca.  

La ricchezza di influenze della band emergerà con i due album successivi: un “Omnio” che saprà scollegarsi definitivamente dal black metal, e uno “Strange in the Stereo”, che addirittura si sposterà sui lidi del rock d’avanguardia. Una parabola artistica tanto esaltante quanto breve, quella degli In the Woods…, che sarebbero andati incontro ad un precoce scioglimento solo dopo tre album , ma non senza aver prima spianato la via a tutte quelle band che, qualche anno dopo, avrebbero popolato le fila del fiorente movimento del post-black metal (ovviamente non consideriamo credibile la recente reunion della band, con il solo Kobro come membro della formazione originaria). 

I Pink Floyd, indirettamente, ebbero un merito in questa operazione di "espansione del suono", figlia diretta di un approccio che intendeva trascendere le rigide maglie di scrittura vigenti nel metal e volgersi, coraggiosamente, verso lidi non preventivati.