"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

28 gen 2016

IN THE WOODS...: "YEARNING THE SEEDS OF A NEW DIMENSION"




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO

5° CLASSIFICATO: “YEARNING THE SEEDS OF A NEW DIMENSION” (IN THE WOODS...)

Dei Venom abbiamo apprezzato l'irriverenza, la spregiudicatezza: la capacità, nonostante l'incompetenza, di saper mettere in fila venti minuti di metal rozzaccio ed efficace senza annoiare un istante. Dei Cathedral, invece, abbiamo elogiato il gusto da intenditori nella creazione di una suite che sapesse far convivere doom, progressive e psichedelia, tutto in salsa squisitamemente vintage. Se i Cradle of Filth ci hanno entusiasmato con le loro kitscherie e i conterranei My Dying Bride commosso con la loro vicenda di solitudine, ai Void of Silence abbiamo riconosciuto la grandezza nel concepire e realizzare un monumento sonoro come "Human Antithesis", forse l'operazione più ambiziosa mai partorita in campo estremo.

Ma tutti questi mirabili tentativi non sono stati altro che una messinscena. E così i Venom, come i Cradle, imbandiscono la sagra dell’eccesso, inscenando i primi lo scontro tremendo fra Inferno e Paradiso, descrivendo i secondi orge popolate da avvenenti e demoniache sacerdotesse assetate di sangue e sperma. Se i Cathedral si sono affidati alle sostanze stupefacenti per il loro viaggio allucinante, i My Dying Bride hanno preferito guardare ai classici della letteratura romantica inglese, con quel tocco un po’ artificioso che contraddistingue chiunque voglia esasperare la sfera degli umani affanni. Un tocco che troviamo anche nei Void of Silence, autori di un sontuoso spettacolo a sfondo bellico volto ad evocare le brutture della Guerra. Proseguiamo oltre ed accediamo invece alla galassia delle emozioni, quelle vere: entriamo nella dimensione in cui l'arte si mette al servizio dell'interiorità, quella dei musicisti. Addentriamoci dunque nella top-five della nostra classifica dei migliori brani lunghi del metal estremo.

Quinto posto: In the Woods..., "Yearning the Seeds of a New Dimension" (dodici minuti e ventitre secondi come mai si erano sentiti nel 1995!).

Li abbiamo incrociati durante la nostra rassegna sul black metal norvegese, quando abbiamo parlato degli Ulver, che con gli In the Woods… condividevano l'amore per la loro terra, non solo da un punto di vista folcloristico, ma anche naturalistico, paesaggistico. Tanto che i Nostri, amavano definire la loro musica "Earth Metal", intendendo già prendere le distanze da quel black metal da cui venivano e che ancora li ospitava.

Il loro debutto "Heart of the Ages", del 1995, abbinava la ruvidità del black metal ad atmosfere sognanti, passaggi eterei degni dei migliori Pink Floyd. Quello degli In the Woods… era uno spirito genuinamente progressivo che disdegnava sterili esibizionismi e si consacrava alla libertà di espressione artistica senza compromessi. La loro musica puntava direttamente al cuore, fluttuava entro la sfera delle emozioni. E "Yearning the Seeds of a New Dimension" è l’incredibile opener di quell’incredibile album che rimarrà isola verdeggiante nelle acque torbide del black metal.

L'inizio è più pinkfloydiano che non si può. Siamo dalle parti di "Shine on You Crazy Diamond": minimali rintocchi di synth echeggiano in delay, evocative linee di tastiere ci introducono in una dimensione di sogno. Ma non si tratta del tipico incipit mordi-e-fuggi chiamato ad anticipare feroci scorribande metalliche: no, la situazione si protrae oltre, ben oltre di quanto potesse aspettarsi all’epoca anche il metallaro più illuminato. Parte un solenne quattro quarti, suoni artigianali, da cantina norvegese: ma che gran cuore avevano gli In the Woods…! Le chitarre arpeggiate sono coperte dalle spesse tastiere raffiguranti paesaggi di natura incontaminata, foreste, montagne imponenti, picchi innevati: il cascadian black metal dei Wolves in the Throne Room, promotori dieci anni più tardi dell'"eco metal", e il post black metal mistico e naturalistico degli Agalloch, avranno molto a spartire con quanto scrivevano e cantavano gli In the Woods… nel lontano 1995.

Cantavano, si diceva, e in effetti non si è ancora parlato della voce, che si farà attendere: passeranno infatti diversi minuti prima dell’avvento del bel canto evocativo, echeggiante i cori ancestrali del folk scandinavo. Tenendo conto dell’amore che i norvegesi dichiareranno di avere anche per il rock degli anni sessanta e settanta (in “Live at the Caledonien Hall”, pubblicato nel 2003 quando la band sarà già dissolta, verranno riproposte cover di Jefferson Airplane e King Crimson) non è fuori luogo accostare a queste movenze certe atmosfere oniriche di cui si frega il classico “In the Court of the Crimson King” (il brano coverizzato dagli In the Woods… sarà proprio “Epitaph”, che in effetti echeggia molto nella musica dei norvegesi).

L'Uomo, tuttavia, nella visione dei Nostri, è poca cosa: accessorio integrato alla maestosità della Natura. Allo stesso modo il canto è un elemento al pari degli altri strumenti che confluiscono in un unicum che tende a specchiarsi in un’armonia che è propria del mondo naturale, andando per certi versi ad anticipare certi umori di altri maestri del nord, gli islandesi Sigur Ros (con cui, ragionando a posteriori, vi saranno punti di contatto). Come si è visto nel caso degli Anathema di “We, the Gods”, il 1995 è stato un anno prodigioso per il metal, un anno nel quale si sono andate a sperimentare per la prima volta certe soluzioni che spianeranno la strada a chi vorrà cimentarsi in sonorità che poi verranno definite post.

La chitarra elettrica era nel frattempo affiorata, disegnando struggenti melodie. Tutto è decisamente bello e potrebbe protrarsi così all’infinito, ma se i Nostri si sono guadagnati il quinto posto della nostra classifica, è perché non si sono limitati a settare il pilota automatico. Come capita con il temporale che inaspettato ci coglie impreparati, la musica degli In the Woods… non disdegna l'effetto sorpresa. Tutto si ferma: arpeggi scanditi solennemente e (gilmouriani) giochi di armonici generano un clima di attesa, a cui fa da didascalia un recitato pregno di pathos, che repentinamente si tramuta in un bavoso screaming.

Entra in campo il black metal. Un urlo lacerante squarcia la quiete: si apre la seconda sezione del brano, il quale si tramuta in una coinvolgente cavalcata à la Bathory! Ma non si pensi ad un belligerante viking o a scontri cruenti fra vichinghi e cristiani: qui non si parla di drakkar né di Odino, sono semmai le soverchianti forze della natura ad essere le protagoniste della scena! Se la prima sezione era stata una celebrazione della natura, selvaggia e bellissima al tempo stesso, in questa seconda parte si accede ad una dimensione più propriamente spirituale, dove il viandante, protagonista del testo, gode di una compenetrazione con gli Elementi. E ricongiungendosi alla Natura, elevata a Divinità, egli stesso eleverà il suo Essere.

La batteria non oltrepassa mai i livelli di guardia, il suo battito vitale si assesta su epici mid-tempo arricchiti dagli accenti dei piatti, mostrando essa un approccio che vede lo strumento funzionale alla resa complessiva. Nessun musicista eccelle negli In the Woods…, che si muovono come un collettivo dove non è importante capire chi fa cosa. La stessa foto della band nel retrocopertina conferma il concetto, ritraendo i musicisti insieme a degli amici attorno ad un falò, nella notte: figure irriconoscibili, solo in parte illuminate dal fuoco.

Ma torniamo a noi. Si diceva che il black metal è entrato in scena: la voce è divenuta un incomprensibile latrato di cane che molto ricorda le grida stridule di Varg Vikernes. Gli In the Woods… di “Heart of the Ages” non scherzano: saranno stati anche buoni, cari ed amanti della natura, ma la loro proposta era indubbiamente estrema e del black metal sfoggiavano il lato più selvaggio e viscerale, con quell’approccio artigianale, ma autentico, che rese grandi le band norvegesi e che oggi, con tutti gli sforzi di produzione, non si è più in grado di ripetere.

Cuore cuore cuore, non so se il messaggio è chiaro: suoni ruvidi, folk elettrificato, chitarre sfrigolanti e riff ossessivi riprendono le lezioni di Bathory e Burzum. Il dinamismo della sezione ritmica disegna un’escalation coinvolgente che culminerà con il ritorno della voce pulita, la quale innalzerà ulteriormente il potenziale epico del tutto, aiutata dalle provvidenziali rullate della batteria. Nella sua cavalcata finale il brano filerà via che è una vera bellezza, fra piatti schiaffeggiati con vigore e persino un brevissimo assolo, di due o tre note al massimo, ma quanto mai calzante!

Ascoltata ancora oggi, "Yearning the Seeds of a New Dimension" rimane uno scrigno pieno di emozioni, nonché una lezione di stile per tutte le band post black metal che verranno. L’equilibrio che il quintetto norvegese, al suo esordio ancora sospeso fra black metal e sognanti atmosfere pinkfloydiane, fu unico ed importantissimo per gli sviluppi del black metal al di fuori della sua ortodossia più classicamente true.

Ma fu anche un momento irripetibile, dato che già dal successivo “Omnio” gli In the Woods… sganceranno dal loro corpus sonoro la componente black metal come se fosse una inutile zavorra, per avviarsi lungo il sentiero di una musica senza più schemi, animata da uno spirito di ricerca ed una libertà espressiva che raramente troveremo altrove: un approccio talmente “avanti” che sarà probabilmente l’origine di tutte le incomprensioni e, ahimè, dello scioglimento della band, che avverrà pochi anni più tardi, con all’attivo solo tre full-lenght pubblicati