Giunti alla diciottesima tappa della nostra rassegna sui migliori album del black metal atmosferico, ci spingiamo oltre l’Oceano Indiano e gettiamo gli ormeggi niente meno che nell'isola di Java, in Indonesia: terra che, insospettabilmente, ha dato i natali ad almeno di un paio di validissime realtà del black metal atmosferico, i Vallendusk e i Pure Wrath, di cui oggi parleremo.
Devo ammettere che la one-man band capitanata dal giovanissimo Ryo (classe 1994!) ha risvegliato in me sensazioni che da tempo non provavo: una freschezza compositiva, un’ispirazione melodica che si giovano, probabilmente, del fatto che questo artista di stanza a Bekasi (nella zona ovest di Java) si sia potuto formare lontano da certi schematismi dell’Occidente. Ma allora perché non riconoscergli un posto nella top-ten? Semplicemente perché il Nostro ha molte qualità, ma non l’originalità, considerato che egli si muove su binari già tracciati e stra-battuti, accontentandosi di esprimere la propria creatività attraverso stilemi espressivi già esistenti.
“Ascetic Eventide”, debutto targato 2017, è semplicemente uno degli album black metal più belli che abbia avuto modo di ascoltare negli ultimi anni, e non saprei nemmeno spiegarvi il perché. Innovativo? Si è detto di no. Originale? Non proprio. Qui a fare il capolavoro è la profonda ispirazione che rende significativo ogni singola nota.
Prova intensa quanto breve (soli quarantatre minuti di durata complessiva), “Ascetic Eventide” riprende senza tanti sforzi distintivi le lezioni dei maestri Wolves in the Throne Room, parlando la lingua di un black metal feroce quanto impetuoso, nemmeno troppo indulgente verso le peculiarità locali. Ma qua la questione non è il cosa ma il come: “Ascetic Eventide” si muove ed evolve con dinamiche proprie, incantando ad ogni passaggio, ma senza ricorrere a chissà quali escamotage stilistici. C’è molta sostanza, tutta compressa in sei composizioni che schivano il rischio dispersione, mostrandosi toniche, solide, ben strutturate.
Si corre veloci, ma il dinamismo, i continui ed azzeccati cambi di tempo eludono eventuali “disturbi ossessivi/compulsivi di burzumiana memoria”, supportando un lavoro di chitarra prodigioso, con riff sempre ispirati che si inseguono ed accavallano in intrecci melodici ad alto impatto emotivo. I più attenti noteranno anche un lodevole lavoro di basso, con le quattro corde che intraprendono giri elaborati che si integrano perfettamente agli altri strumenti, nonostante l’inferno sonoro scatenato.
A proposito: la produzione è perfetta, con suoni massicci e sporchi il giusto, ma in grado anche di svelare dettagli insperati (vedi le appena menzionate note di basso). L’atmosfera, perché si parla pur sempre di atmospheric black metal, viene costruita istante dopo istante grazie alla forza evocativa dei riff di chitarra che si fondono con tastiere mai invadenti, plasmando visioni che si vanno a specchiare perfettamente nelle liriche, incentrate principalmente sulla descrizione di paesaggi naturali o nefasti scenari apocalittici: "luoghi dell'anima" che vanno inevitabilmente ad assumere contorni esistenziali e spirituali.
I sette minuti del brano di apertura “Colourless Grassland” ben introducono i contenuti del platter: un assalto tanto feroce quanto pervaso da un romanticismo che nasce dal talento melodico di Ryo, il quale non fa sconti dietro il microfono con uno screaming affilato ed espressivo.
Che dire, ascoltatelo questo brano, ragazzi, e ditemi voi se non è vero che fin dall’inizio, per motivi inspiegabili, si è come rapiti dal magnetismo di questa musica. Da segnalare un intermezzo acustico, un’improvvisa oasi di quiete dal fantasmagorico fascino paesaggistico, con pianoforte ed un flauto a tradire il retroterra culturale del musicista.
L’Indonesia non spunta fuori a livello di lingua "cantata" (i testi sono redatti in inglese), non si impone con corposi inserti di folclore, con canti in lingua madre, con il ricorso a strumenti etnici. Il tocco indonesiano si sente nella impostazione melodica, che evoca a tratti quell’enfasi romantica che hanno certi brani di musica leggera orientale. Una malinconia che spinge alla commozione senza preavviso e che, metallicamente parlando, si esprime anche attraverso certi stilemi del post-rock, con refrain chitarristici di grande impatto che si sommano alle corpulente trame ritmiche ad accentuare la vocazione introspettiva di questo black metal.
Sarebbe stupido descrivere nel dettaglio i singoli episodi, perché qui, si diceva, è una questione di feeling. Ma al fine di meglio descrivere le peculiarità di questa proposta, è opportuno citare almeno “Clouds Retriting”, che prima mette in evidenza una gestione interessante delle (brevi) pause riflessive (con ritmiche insolite a tenere alta la tensione ed inserti di tastiere che cambiano repentinamente il volto del brano) e poi sfoggia uno strano uso delle chitarre elettriche (oserei definirle “mandolinate”) che si impongono fra le varie stratificazioni sonore, aggiungendo melodia alla melodia ed evocando un vago sapore orientale, di cui si diceva sopra.
“In Cold World” si apre e chiude con il pianoforte e nei suoi cinque minuti scarsi è l’episodio più breve: si tratta di un passaggio anomalo nel platter, essa rallenta il passo e si affida a tempi lenti, risparmiandoci per una volta velocità supersoniche, e mettendo in mostra il lato più atmosferico del progetto. Emozioni allo stato puro.
E poi c’è il riff portante di “Pathetic Fantasies”, ennesima testimonianza del talento compositivo di questo ragazzo giovanissimo capace, non solo di allestire un sound maturo, ma anche di sfoggiare intuizioni melodiche squisitamente articolate alla portata dei più celebrati riffaioli del black metal.
L’avventura del Nostro proseguirà con l’altrettanto buono “Sempiternal Wisdom” (2018), con il quale si batteranno vie sostanzialmente diverse: il black metal dei Pure Wrath, in questa splendida opera seconda, si fa più maturo e variegato, con brani dalla durata più estesa, tempi medi predominanti e molte soluzioni melodiche, con interventi acustici (nella bellissima “Homeland” – dieci minuti – si sfiora il neo-folk dei Death in June – non so se cosa voluta o meno), voci pulite (molto frequenti - si ascoltino gli inserti vocali nel finale opethiano della già citata “Homeland”), improvvise fioriture post rock (il meraviglioso assolo shoegaze in “Grief of our Fathers” – la “ballad” dell'album) e sinfonismi estremamente raffinati (l’incipit di “Elegy to Solitude” è quanto di più bello le mie orecchie abbiano udito in tema di symphonic black metal).
E’ come se il Nostro, partendo da un approccio essenzialmente Wolves in the Throne Room, si fosse di colpo agallochato, con chiaro beneficio per l’ascoltatore desideroso di un sound maggiormente variegato e composito rispetto alla ferocia senza compromessi del debutto. “Ascetic Eventide”, tuttavia, continua a racchiudere in sé qualcosa di ineguagliabile, di inspiegabile, che lo rende, a nostro parere, il lavoro ad oggi più ispirato uscito con il monicker Pure Wrath.
Caldamente consigliato.