1 ago 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: SLOW


Diciottesima puntata - Slow: "V - Oceans" (2017)  
 
Si diceva che non è facile descrivere il funeral doom, nel senso che non è sempre facile far emergere le peculiarità di una singola band laddove ci si muove entro canoni stilistici assai rigidi e stringenti. Per questo a volte è necessario ricorrere a delle espressioni forti ed azzardate, forse semplificatrici ed oggettivamente inesatte, ma utili ad inquadrare una determinata proposta. 
 
Se i Colosseum erano i Queen del funeral doom, gli Slow, sempre all’interno del genere, sono sicuramente i Pink Floyd. Detto questo, stiano alla larga i fan di David Gilmour e soci, perché i cinque brani di “V - Oceans” devastanti e compatti, in essi di pinkfloydiano vi è soltanto l'espansione del suono, brani lunghi, monumentali e l'ampio utilizzo di tastiere e chitarre sognanti che esondano volentieri in territori post-rock e shoegaze. Un equilibrio raro, quello raggiunto dal one-man project belga con il full-lenght numero 5, in quanto del funeral doom vengono intercettati gli aspetti essenziali, ma poi vengono convertiti in un medium volto all’espressione di un sound fresco e profondamente emotivo: c’è indubbiamente molta umanità, fra questi solchi, e finalmente non (soltanto) una attitudine depressiva ostentata ed artificiosa. 

Come suggerito dal titolo, l’album possiede l’impetuosità, la vastità, l’immensità dell’oceano: è come se le composizioni si muovessero, evolvessero, si spegnessero con il ritmo delle onde, adesso alte, minacciose e pronte a travolgere ogni cosa, adesso placide e pervase da una calma quasi spirituale. Siamo in mare ma distiamo leghe e leghe dal nautikal funeral doom metal degli Ahab, dalle loro ambientazioni marine ed oceaniche, dalle avventure acquatiche da essi narrate. Niente di tutto questo troverete in “V - Oceans”: qui l’oceano è metafora di interiorità
 
I titoli del brani, del resto, sono eloquenti nel descrivere l’ambizione dell’opera, la quale intende ripercorrere il ciclo di vita di un essere vivente, dall’inizio (“Aurore”) alla fine (“Mort”), contemplando anche momenti radiosi, ma che ovviamente sono parte minoritaria nell’economia di un suono che va a privilegiare stati d’animo che vanno dal malinconico al rabbioso al disperato. 
 
E’ come se i Tiamat di “Wildhoney” con il loro approccio onirico, psichedelico, maestoso, trovassero comunione di intenti con il post-metal deflagrante degli Isis di “Oceanic” (tanto per rimanere in tema), il tutto ovviamente "calato nella brache" del funeral doom, che significa brutalità, una maggiore linearità/lentezza ritmica, un growl impastatissimo che diviene tutt’uno con le spire avvolgenti di chitarre e tastiere. 
 
Ad ammaestrare un sound cosi stratificato, complesso ed al tempo stesso efficace e diretto nella sua assoluta forza d’urto, è uno che di funeral doom se ne intende e che da anni riversa talento e passione in una infinità di band, per lo più doom, ma anche black, come spesso capita in questi ambiti. Citiamo giusto i noti Clouds, super-gruppo che annovera nel suo organico membri di formazioni di prim’ordine come Shape of Despair, Pantheist, Eye of Solitude. Il nome di costui è Olmo Lipani, in arte Déhà, polistrumentista ed anche produttore, cosa che gli permette di allestire in solitaria un suono perfetto, tanto denso e profondo quanto ricco di sfumature. Le capacità tecniche del belga (all'epoca di stanza a Sofia) sono nella media, ma è il certosino lavoro in studio la vera marcia in più di “V - Oceans”: un’estasi per i sensi, non solo per le orecchie, ma per tutto il corpo, tanto fisica diviene l’esperienza. 
 
I brani vanno vissuti come parte di un tutto, come se si trattasse di un unico enorme brano lungo 55 minuti (nemmeno troppo lungo, se si pensa agli standard del genere): un saliscendi emotivo continuo che ammalia con suadenti introduzioni od interludi di chitarre arpeggiate, organi liquidi, cristalline partiture di pianoforte presto fagocitati dal montare inarrestabile delle chitarre. Le chitarre: riff possenti che si spostano lentamente come pachidermi, arricchiti spesso da linee melodiche strabilianti, non proprio assoli, ma note legate e lasciate fluttuare in tipico stile gilmouriano, o effettate, riverberate, accavallate in delay, come avviene nella miglior tradizione shoegaze. 
 
Una lotta continua fra pesantezza e levità, fra forze immani che schiacciano a terra l’ascoltatore ed una perenne spinta verso l’alto, dove il cielo si specchia con le acque, dove la carne va a confinare con lo spirito: forse proprio in questo gli Slow, che potremmo anche definire gli Alcest del funeral doom, suonano cosi unici, probabilmente più orecchiabili e scorrevoli di altri, ma mai ruffiani. Indubbiamente il funeral doom ne ha fatti di passi in avanti in quasi trent'anni di storia e con gli Slow possiamo dire di trovarci finalmente su un altro pianeta quanto a scorrevolezza e cura degli arrangiamenti. 
 
Tre esempi. Gli assoli rarefatti che arricchiscono, dandole uno slancio progressivo, la seconda metà della monumentale opener "Aurore", fra possenti accordi e versi di titanico growl. La crepuscolare introduzione di “Ténèbres”, con un pianoforte iper-malinconico che spiana la strada ad un recitato effettato come se la voce provenisse da un nastro perduto, riprodotto dopo che un cataclisma si è abbattuto sul pianeta. E poi la magnifica “Déluge”, l’episodio più lungo (tredici minuti) ed anche il mio prediletto: una folgorante apocalisse in musica che non lascia tregua all’ascoltatore, travolto nel finale da un blast-beat liberatorio (l’unico del platter) che prende in prestito l’intensità del black metal sinfonico per superarsi, farsi ancora più penetrante e raggiungere traguardi sonori non preventivati. Questo frangente è indubbiamente il picco di una testimonianza discografica solida e coerente nel suo svolgimento. 
 
Sorta di “Wish You Were Here” in salsa extreme-metal, “V - Oceans” non presenta momenti di cedimento, procede con passo misurato, centellinando le sue risorse con saggezza e generando incredibili visioni nella mente dell’ascoltatore. Qui del resto si parla di emozioni, non (solo) di funeral doom: non fatevi troppe domande ed annegate in queste acque, orsù!