"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

23 mag 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: PANTHEIST



Undicesima puntata: Pantheist - "O Solitude" (2003) 

Nella prima sezione della nostra rassegna sul funeral doom abbiamo cercato di selezionare quei nomi che secondo noi descrivono al meglio il genere: la sua genesi e i suoi sviluppi più significativi. Ma il funeral doom è una costellazione assai ampia e dai confini sfumati, e certo dieci/undici titoli (se includiamo anche i Disembowelment che abbiano trattato nella nostra anteprima) non esauriscono l'argomento. Per questo motivo abbiamo deciso di reclutare ulteriori dieci band capaci di mettere in luce nuove sfumature di un genere che, erroneamente, viene considerato piatto, monocolore ed appannaggio di pochi coraggiosi. Dieci titoli che, sappiatelo!, non sono assolutamente da ritenere inferiori a quei dieci che abbiamo considerato "essenziali", ma che anzi possono incontrare il gradimento di molti, considerato anche il fatto che essi sono fioriti in una fase di maturità del funeral doom: una fase in cui, a partire da quegli stilemi coraggiosamente introdotti e poi faticosamente consolidati, si è andati a costruire ed edificare nuove ed entusiasmanti, a tratti geniali, manifestazioni sonore. 

Si parte con i Pantheist, belgi di nascita ma inglesi di adozione (oggi di stanza a Londra), e con il loro debutto "O Solitude", licenziato nel 2003. 

I Pantheist rappresentano senz'altro la costola soft del funeral doom. Sono i cugini pettinati nella grande famiglia del funeral doom, e per questo motivo sono trattati con referenza, ma anche con un poco di distacco dal resto della compagnia. Noi che siamo gente di un certo livello, ci rendiamo conto quando gli abiti, sebbene eleganti, siano mal accompagnati, quando i colori non sono accostati perfettamente o la taglia non è proprio quella giusta. Questo per dire che sì, i Pantheist si fanno promotori di una proposta senz'altro raffinata e per certi aspetti accostabile ai canoni del gothic metal classico, ma che al tempo stesso non evitano di incappare in qualche (piccolo) pasticcio che li rende un poco goffi innanzi alle sensibilità più attente ed esigenti. Cosa, questa, che non passa inosservata nel mondo del funeral doom, perché fra i mille difetti e limiti, il funeral doom ha un merito: quello di essere efficace, quello di saper andar dritto al punto, quello di non ammettere sbavature visto che le stesse non possono esistere, schiacciate da forme rozze e spesse, assorbite da una superficie porosa e ruvida al tempo stesso.   

In rapporto a molti altri alfieri del "movimento funereo", i Pantheist operano in modalità molto meno ortodosse nel rispettarne i cliché: la lentezza, la lunghezza dei brani, gli umori espressi in questo loro debutto "O Solitude" sono indubbiamente riconducibili agli schemi predominanti del genere, sebbene la band mostri già in questi primi passi un eclettismo ed una attenzione per la melodia che presto avrebbero proiettato i Nostri fuori dai confini del funeral doom propriamente detto.

Lavori come "Journey Through Lands Unknown" (2008) e l'omonimo "Pantheist" (2011) avranno veramente poco a che fare con il verbo del doom estremo, ricercando un punto di equilibrio (non sempre trovato - aggiungo io) fra gothic-metal, rock progressivo ed un guazzabuglio di altre sonorità spesso non domate con mano ferma (i Nostri, per la cronaca, sarebbero poi tornati all'ovile nel 2018 con "Seeking Infinity"). 

Ma torniamo al 2003, quando i Nostri esordivano e suonavano funeral doom a tutti gli effetti. Non so quanto tale contesto permetta di utilizzare l'etichetta "progressivo" per descrivere un album come "O Solitude", ma di certo quello che possiamo sostenere è che il suono dei Pantheist è basilarmente keyboard-oriented, con al centro di tutto l'imperante organo del leader Kostas Panagiotou, tastierista e cantante, nonché unico membro stabile in un susseguirsi di rivoluzioni nella line-up

Aspetto, questo, che diviene punto di forza ed al tempo stesso debolezza, in quanto, se da un lato i Pantheist possono giovarsi di un compositore illuminato ed un talentuoso interprete, dall'altro non godono delle sinergie creative di una band vera e propria, in quanto gli altri componenti sembrano ricoprire un ruolo di mero contorno. Non attendiamoci quindi zampate vincenti né sul fronte ritmico né su quello delle sei e delle quattro corde, cosa che comunque non è un male in sé se si può disporre di un contributo tastieristico di prim'ordine e di una grande voce, capace di dividersi fra un growl espressivo, un bel recitato e registri puliti di grande suggestione. Aggiungiamo che la voce di Panagiotou, più che indugiare su "frequenze lacrimevoli", preferisce assestarsi su un canto elagico e distaccato quasi egli si volesse ergere a narratore esterno, testimone, dall'alto, dei dolori che affliggono l'umanità. 

Pur pagando un bel dazio ai My Dying Bride, (con composizioni di estesa durata, stesso sinuoso strisciare della Sposa Morente e puntuale alternarsi di growl e voci in clean), i Pantheist di "O Solitude" sembrano guardare principalmente ad act come Tiamat (periodo "Clouds") e Moonspell, non tanto per gli esiti espressivi quanto per le atmosfere oniriche rappresentate, la grandiosità del suono e la maestosità di certi passaggi. 

I Nostri, evidentemente, non intesero crogiolarsi nella contemporaneità di un funeral doom che già poteva dirsi strutturato nella sua missione, ma preferirono rifarsi ai modelli della decade precedente e dare forma in modo nitido, e con tratto di penna solo moderatamente ridonante, a visioni luttuose e pregne di solitudine. Una malinconia e una afflizione, questo va detto, di immani proporzioni e proiettate ben oltre i confini del suono decadente e romantico, persino seducente, che era stato forgiato nel corso degli anni novanta. 

La durata considerevole dei brani è funzionale a questo intento e, come da copione, "O Solitude" è un album decisamente lungo (57 minuti) in rapporto al numero dei brani in esso contenuti, solo cinque. La solenne title-track, posta in apertura, è certamente l'episodio più rappresentativo, con growl cavernoso e splendide vocalità pulite che si alternano danzando su un doom dolente quanto elegante che, come si diceva, vede le tastiere al suo centro, fra organo e pianoforte, lasciandosi dietro il languore delle ritmiche e la vocazione riempitiva della chitarra. 

Già da questa prima traccia ci renderemo conto di due altre peculiarità della band: una è la presenza di ritornelli, aspetto che aiuta a memorizzare i brani ma che tuttavia rende il loro sviluppo un poco prevedibile; l'altra è il ricorso a sporadiche accelerazioni, soprattutto in coda ai brani. In merito a questo dettaglio potremmo dire che in "O Solitude" (l'album) tutto funziona meravigliosamente quando la band va lenta e suona compatta, mentre qualcosa inizia a scricchiolare laddove le ritmiche si fanno più sostenute. La velocità in "O Solitude" è qualcosa di innaturale e forzato, e si esprime in passaggi un po' pasticciati e gestiti in modo assai dilettantesco (in particolare da parte di chi siede dietro alle pelli, decisamente più a suo agio con pattern lenti e cadenzati), un po' come accadeva nei primi Tiamat, che ancora dovevano fare i conti con retaggi black metal. 

Altre criticità affiorano in superficie quando la band esce fuori dai binari di un granitico doom, soprattutto a livello di arrangiamenti, come per esempio accade nei claudicanti inserti acoustic folk (probabilmente un problema di mixaggio dei suoni) nella altresì splendida "Don't Mourn", che dall'alto dei suoi quattordici minuti, fra sublimi intrecci di tastiere e chitarra e linee vocali da brivido, offre un intenso assolo di marca gilmouriana. Il richiamo al chitarrista inglese non è fatto a caso, visto che, per magniloquenza ed ambizione, potremmo parlare di funeral doom pinkfloydiano, fra organo da chiesa, suoni pomposi e paesaggi ambient che, ancora una volta, richiamano i Tiamat, quelli del periodo psichedelico. 

I fan del funeral doom, a questo punto, si potrebbero innervosire trovandosi invischiati in trame melodiche, talvolta romantiche, che non rispecchiano certo l'abisso in cui è solito immergerli il loro genere preferito. Abbiate pazienza ragazzi, la porzione finale dell'album introdurrà finalmente un approccio più doom oriented e votato ad affossare l'umore anche all'ascoltatore meglio disposto, toccando l'apice con la suite "Curse the Morning Light" (bellissimo titolo!): una prova di forza emotiva di oltre diciotto minuti che riavvicina la band ai crismi classici del funeral doom, con l'organo di Panagiotou a tessere liturgie che sanno di Aldilà e possenti riff di chitarra finalmente incisivi. La durata del brano, infine, agevola un percorso più tortuoso e meno prevedibile che rende la traccia la più intrigante ed avvincente dell'intero platter. Colpi marziali e un distaccato recitato concludono degnamente un'opera che si candida serenamente fra le più significative dell'epopea del funeral doom. 

Abbiamo conosciuto ed apprezzato il genere per le forme estreme intavolate dai vari Esoteric, Skepticism, Evoken, Tiranny (tanto per fare solo alcuni nomi), ma per coloro che prediligono i cimiteri all'aperto piuttosto che le catacombe, per coloro che preferiscono sedersi su una panchina solitaria a meditare piuttosto che accarezzare un cappio scorsoio, di certo i Pantheist rappresentano una salutare alternativa...