Decima puntata: Sortsind - "Sår" (1999)
Questa misconosciuta band danese non è solita comparire nelle "Cronache ufficiali sulle origini del depressive black metal", tuttavia l'ascolto del debutto (nonché unico album rilasciato dalla band) può costituire una esperienza molto interessante per chi fosse appassionato a tali sonorità.
Una semplice constatazione cronologica (l'anno di pubblicazione di "Sår" è il 1999, quando ancora non si parlava diffusamente di DBM e il DBM non era ancora un sotto-genere comunemente riconosciuto) non fa di questi musicisti necessariamente dei precursori, ma è inquietante notare come in tempi non sospetti i Nostri si avvicinassero molto a certe estrinsecazioni oltranziste di "black metal suicida" che sarebbero andate per la maggiore solo successivamente. Al di là di ogni riflessione sul loro ruolo nella storia del depressive, posso sostenere con sgomento che raramente mi è capitato di imbattermi in qualcosa di così malato e brutalmente autodistruttivo.
I Sortsind sono stati un terzetto di stanza a Copenhagen composto da Svig, chitarra e voce, Sorg, batteria e seconda voce, e Smerte - è una lei - a tastiere e basso. I Nostri avrebbero avuto vita breve: attivi dal 1996 al 1999, oltre al sopra citato album, avrebbero pubblicato solamente un EP ("Tomhed" - uscito nello stesso anno), mentre il resto delle pubblicazioni a nome della band sarebbero state operazioni postume.
Più che dei geniali precursori, i Nostri sembrerebbero la classica entità avulsa dal mondo - estranea alle "scene che contano" - che ha saputo mettere insieme in totale autonomia un suono del tutto originale. Per essere una band alle prese con il suo debutto, stupisce la maturità: il carattere malsano della loro musica sembra discendere da una precisa visione artistica, confermata anche a livello concettuale da testi e copertina, una delle più inquietanti che si
siano mai viste e perfetto biglietto da visita per introdurre i contenuti dell'album.
"Sår" in danese vuol dire "ferita" e anche questo è un indizio utile per intuire gli umori riversati nel platter: la sensazione di una ferita bruciante, inferta o subita, è costante e si percepisce lungo tutta la durata dell'opera, come una lama che attraversa dolorosamente carne, mente e
spirito. Vista offuscata dal sangue, sale sulla pelle escoriata, tortura psicologica: nei suoi 51 minuti l'album concentra follia, odio, paura, tormento, disperazione in una densità specifica mai rilevata prima a quei livelli. Forse forse solo i Bethlehem avevano saputo essere così deliranti e sopra le righe in ambito black metal, ma c'è da dire che i danesi si muovevano su binari totalmente diversi: difficile, in definitiva, trovare qualcosa di simile in circolazione all'epoca. E ancora oggi "Sår" è un fottuto pugno nello stomaco.
I 25 secondi di chitarra arpeggiata che aprono l'album sono fuorvianti, la classica quiete prima della tempesta. A destarci dal torpore è un grido agonizzante che irrompe brutalmente insieme alla ruvidissima chitarra elettrica. Dopo qualche momento di incertezza scoppia il putiferio: l'opener "Vandrer Blandt Dødninge" è un black metal impetuoso che corre a velocità supersonica. Fra blast-beat e riff taglienti come rasoi affilatissimi il brano offre momenti di grande intensità, ma a colpire duro è la performance vocale, qualcosa che oltrepassa la follia pura. Le corde vocali sembrano perennemente sull'orlo di strapparsi, gli acuti improvvisi e malatissimi fanno accapponare la pelle: immaginate che dietro al microfono vi sia un essere bipolare che passa con disinvoltura dal ruolo di maniaco omicida a quello di vittima tormentata. Non esistono parole adeguate per descrivere le sensazioni di disagio che queste vocalità disarticolate trasmettono all'ascoltatore.
Proseguendo con il minutaggio "Sår" saprà dischiudere due anime distinte ma complementari: una radicata nel più feroce black metal di marca scandinava (primo Bathory, Mayhem, Darkthrone), l'altra più atmosferica e votata all'edificazione di autentici incubi sonori. Ne abbiamo un vivido esempio subito con il secondo brano, "Blot", interamente costruito su tetri tappeti di tastiere, grida e rantoli disumani che si accavallano in un rituale perverso. La produzione (a cura di tale "Unknown Member") è artigianale, ma si sposa bene all'umore dei brani. Il problema (se per voi può essere un problema) è che la qualità del suono non è costante per tutta la durata del platter. Per esempio la terza traccia "Drømme Om Evig Nat" suona più marcia e lontana, e sembra uscire da un'altra sessione di registrazione, ma le sensazioni non cambiano: voci spiritate si divincolano su basi velocissime, riff frenetici dalle note che salgono e scendono stressano l'ascoltatore e mostrano una sensibilità più vicina al proto-black metal del primissimo Bathory che all'ossessività più propriamente detta burzumiana. (Vikernes rimane comunque una influenza, non la principale per una volta tanto, ma comunque presente).
L'album è un susseguirsi di sussulti, fra passaggi iper-veloci e rallentamenti funerei disegnati attraverso arpeggi in tremolo e cupe tastiere. Si pensi anche alla parte centrale di "Blandt Grå Monumenter" funestata da una prova vocale letteralmente fuori controllo (l'impressione è che chi sta dietro al microfono sia sottoposto ad atroci e sadiche torture). La title-track compensa sul fronte atmosferico, trattandosi di una strumentale che parte con il pianoforte per incunearsi nello sfrigolio di un arpeggio elettrificato in un gioco di dissolvenze che sembra seguire la lezione di certe tracce di "Filosofem").
La breve (solo tre minuti) "Sorte Tårer" è un attacco violentissimo, mayehmiana nel midollo, mentre a "Jeg er Kulden" tocca smorzare nuovamente i toni, tratteggiando nei suoi quasi sette minuti di durata un mid-tempo di baldanza bathoriana salvo poi deragliare strada facendo, finendo per inabissarsi in dissonanze maligne e le solite vocalità da manicomio criminale. "Vandrer du i Natten Mørk" sulla carta è un brano di nove minuti e mezzo, ma nei fatti si rivela essere una coppia di tracce distinte: la prima è una fucilata che non intende risparmiare le orecchie dell'ascoltatore e si basa sulle prodezze della voce, ancora una volta mattatrice della scena (si ascolti il brano in cuffia e si testi l'effetto raggelante di quando la voce inizia a schizzare furibonda da una cassa all'altra in esperimenti di mixaggio mai uditi prima); la seconda, invece, è un up-tempo burzumiano del tutto strumentale che non sembra affatto la coda del pezzo precedente, ma, beninteso, potrebbe anche esserlo, cazzo ne possiamo sapere noi, sarebbe come chiudere che giorno è ad una persona vestita da Napoleone...
Chiudono le danze la chitarra acustica e le tastiere di "Skumring", fra un pianoforte ubriaco e grida disumane che recitano le inquietanti ultime parole:
"Uccidimi! lei disse
Perché la morte ci possiede comunque
Meglio che essere abbandonati dalla vita
Voglio lasciare la vita...
Anche l'amore morirà
E non tornare mai più
Seguimi adesso!
E moriamo prima di questo accada...
Se i Bethlehem - pur definendosi semplicemente "dark-metal" - nei fatti suonavano un suicidal black metal ante-litteram, i Sortsind sembravano giocare lo stesso identico campionato, allestendo un black metal totalmente deviato, con una attitudine (auto)distruttiva capace di anticipare tendenze future e con una ispirazione ed un equilibrio nella scrittura decisamente al di sopra della media a dare credibilità al tutto. In più, i Nostri non si sarebbero fatti mancare nemmeno il morto, visto che la Smerte morirà suicida di lì a poco, decretando nei fatti la fine della band.
Chissà, forse i superstiti, invece che cavalcare la formula della "band maledetta" come fatto da molti altri, hanno avuto il pudore di ritirarsi dalle scene, consapevoli di essersi spinti fin troppo lontano con la musica...