Se
il 2023 è stato da molti definito, non a torto, l’anno del death, questo 2024, o quantomeno il suo primo trimestre, è
stato caratterizzato, nel Mare Magnum delle uscite metalliche, dalle ultime
release di quattro pezzi da novanta dell’heavy classico; quattro nomi
che, a buon diritto, appartengono alla Storia dell’heavy metal propriamente detto
(cioè quello che, convenzionalmente, rimanda alla N.W.O.B.H.M.).
In
ordine cronologico di pubblicazione: Saxon, Blaze Bayley, Bruce Dickinson e, dulcis
in fundo, i Judas Priest.
Ora, per trattare questo tipo di proposte è d’uopo premettere una breve nota, assieme concettuale e metodologica, che è stata oggetto di discussione anche in Redazione.
Vale
a dire: cosa vogliamo, nel 2024, da un nuovo album dei Dinos…ehm, dei Padrini
del nostro Genere Preferito? Magari ascoltare un nuovo capolavoro?
Se la risposta fosse sì, bisognerebbe di conseguenza ritenere che la
saturazione di un filone che ha 45 anni di vita circa non sia arrivata
al culmine e si possa perciò esprimere, nel suo alveo stilistico, ancora
qualcosa di nuovo.
Oppure:
ci si aspetta la riproposizione pedissequa degli stilemi che li hanno resi famosi nell'arco degli scorsi decenni, ovviamente riveduti e corretti alla luce delle nuove possibilità
tecnologiche in fase di produzione?
O,
ancora: desidereremmo una virata stilistica (leggera, per carità di patria!),
pur sempre nel solco della tradizione?
Chiariamo
subito un punto: ogni posizione su esposta è legittima, a seconda del gusto.
Basti qui riportare come Metal Mirror ritenga che quello che nel nostro piccolo vorremmo
dai monicker storici, con alle spalle carriere quasi 50ennali, sia
semplicemente un’emozione, un brivido dettato dalla classe che Loro, e
soltanto Loro, sono in grado di esprimere.
Quel tocco magico che nessun altro ha, quel brano che faccia ricordare,
non foss’altro che per quello, il disco come un qualcosa che è valsa la pena
realizzare, dal loro ‘lato’, e ascoltare dal nostro.
Ci
sono riusciti i quattro Eroi succitati? Hanno saputo piazzare la zampata
vincente? Scopriamolo insieme…
SAXON – “Hell, Fire and Damnation” (19/01)
Partiamo
con le note, ahinoi, meno liete…Byford&co giungono al loro 24°
(ventiquattresimo!) album e la stanca si nota, eccome. C’è da dire che, al
netto di 3-4 album di pregevole fattura a inizio eighties, e altrettanti più
che buoni a cavallo tra novanta e prima decade del XXI secolo, i Nostri non
sono mai riusciti ad entrare nell’Olimpo dell’H.M., rimanendo subito prima del
cancello d’ingresso; primi tra i secondi, potremmo parafrasare. Sarà
perché non hanno mai brillato per uno specifico gusto compositivo o perchè
‘frenati’ da un songwriting che pesca(va) ancora a piene mani dall’hard n’
heavy, con venature bluesy acdc-iane. Al netto che in carriera, va sottolineato,
hanno venduto 23 mln di copie dei loro dischi in tutto il mondo…e quindi, hanno ragione loro!
Ad
ogni modo, questo “Hell, Fire and Damnation” (splendida copertina e splendido
titolo) conferma questo status di secondo piano, nonostante la presenza in line-up, al posto di Paul Quinn, di un asso delle sei corde come Brian Tatler, cioè l’unico
superstite, a tutt’oggi, dei mitici Diamond Head.
A
onor del vero, i primi 10 minuti del disco sono carichi e coinvolgenti
(buonissima l’accoppiata iniziale title-track - “Madame Guillotine”) e la
produzione, ottima, di Andy Sneap ne aiuta la carica avvolgente. I "dolori" cominciano a partire dalla successiva “Fire and Steel” (roba che manco i
Manowar avrebbero osato titolare così…) per proseguire con un abbassamento
progressivo delle composizioni, per la maggior parte “telefonate” e senza
guizzi memorabili (si salva giusto "Kubla Khan and the Merchant of Venice"). Si arriva così alla conclusiva “Fire Charger” (assieme a
“Pirates of the Airways”, la peggiore del lotto) a far fatica nel rischiacciare il tasto play (e, vi assicuriamo, per scrivere questo pezzo lo abbiamo rischiacciato parecchie volte quel tasto).
Un’ultima, breve, annotazione sulle tematiche delle lyrics: uno “a spasso nel tempo” che mette assieme i clichée più triti: dalle streghe di Salem (no, ancora le streghe di Salem!) alla pluricitata battaglia di Hastings del 1066 tra Normanni e Inglesi; dai Templi di Xanadu agli alieni di Roswell (basta Roswell, abbiate pietà!).
Ma dobbiamo anche constatare, con piacere, che l'album ha il suo "tiro", merito, come detto, della produzione sneap-iana e Byff, alla veneranda età di 73 anni, sfodera una prestazione vocale di tutto rispetto (prestazione che confermiamo anche in sede live).
Quindi, tirate le somme, un disco che non aggiunge e non toglie nulla alla dimensione Saxon, com'è giusto che fosse ma che, considerato l'affetto e la stima per questi grandi professionisti, non mi sento di bocciare.
Voto: 6
BLAZE BAYLEY – “Circle of
Stone” (23/02)
A
undici mesi da un infarto che lo stava mandando anzitempo al Creatore, Blaze,
fattosi innestare un quadruplo by-pass, torna in pista con un album che sa di
rivincita, rivalsa verso le avversità e voglia di trasmettere positivi messaggi
esistenziali. Tutta la prima parte del disco (dalla diretta e anthemica “Mind
Reader” fino all’intima “The Broken Man”) è un inno alla vita, alla presa di
coscienza della sua caducità e alla consapevolezza di quanto amore, a volte non
capito, abbia circondato la sua persona. Un amore che Blaze vuole restituire,
moltiplicato per dieci, in questo 2024 che per lui, come leggiamo dalla
tracklist, è una sorta di year beyond this year…
La
seconda parte del platter è invece un concept sulla conoscenza delle proprie
origini, del lascito dei propri avi e del cammino di saggezza e di recupero
valoriale che da essi proviene. Accompagnato dagli Absolva, dignitosissimo
four-piece britannico di heavy metal maideniano, Blaze imposta questa seconda
metà dell’album su coordinate più articolate, con inserti folk e power ballad
emotivamente coinvolgenti (su tutte, la title track e l’ottima “A Day of
Reckoning”). L’ispirazione è altalenante, riff e solos non sono di certo
originali e il fantasma dei Maiden aleggia più volte, ma nel complesso i
44’ del disco scorrono bene e strappano una meritatissima sufficienza, cui
aggiungiamo mezzo voto in più per la passione e il..ehm…cuore che questo
ragazzino di 63 anni ancora dimostra (e che ha confermato anche sulle assi di
un palco in italia, concerto cui Metal Mirror ha presenziato). Massimo
rispetto…
Voto:
6,5
BRUCE
DICKINSON – “The
Mandrake Project” (01/03). Il Bruce Nazionale, a 19-dico-19 anni
dal validissimo “Tyranny of Souls”, sente l’esigenza di dire qualcosa di proprio e,
accompagnato dal fido Roy Z (qui anche in veste di produttore, peraltro con
esiti non esaltanti), col quale si smezza la scrittura dei brani, torna
con un progetto collegato ad una graphic novel in più parti, di cui
questo disco è un’ideale colonna sonora.
L’album
parte in modo molto coinvolgente con l’articolata “Afterglow of Ragnarock” e la
più lineare “Many Doors to Hell” che, pur non essendo brani clamorosi,
colpiscono nel segno, sia nelle soluzioni melodiche che per il pathos
sprigionato. Da “Rains on the Graves” in poi, però, cominciano a manifestarsi le
crepe di un album che paga soprattutto un lavoro chitarristico piatto, molle e
in sordina; una sei corde che sprigiona a tratti un suono che pare quello di un
motore scoreggiante, mi si passi il francesismo. Non a caso si fa ampio uso
delle tastiere sia per supportare il lavoro di Roy Z che per sottolineare i
momenti di maggior emotività. Nota a margine: Bruce, per le keyboards, si
affida come fatto in passato al nostro Giuseppe Iampieri, in arte Maestro Mistheria, talentuoso
tastierista abruzzese, classe ’71.
Non
si salvano così, dicevamo, “Resurrection Man” (con una spiazzante intro western/tex-mex
che, con le lyrics del brano, ci stanno come i cavoli a merenda) e “Mistress of
Mercy”, attraversata da una serie di riff che paiono scarti di session mal
riuscite. Ma anche quando si cambia umore con le folk ballads (forse il terreno
in cui Bruce, in vecchiaia, si sente più a suo agio) i risultati sono alquanto
telefonati e faticano a bucare l’epidermide: “Fingers in the Wounds” è tarata
da un intermezzo orientaleggiante sul quale tacer è meglio, mentre “Face in the Mirror” è sì
piacevole all’ascolto ma, nella sua essenza, piuttosto “leggerina”.
A
tirare su il livello complessivo dell’opera troviamo l’eccellente “Eternity Has
Failed” (che troviamo superiore della versione maideniana “If Eternity Should Fail”), l’emotivamente
tesa “Shadows of the Gods” e la conclusiva “Sonata”, pseudo-suite molto
teatrale che, se di primo acchito può lasciare perplessi, con il passare degli
ascolti sale di gradimento.
Dopo diversi passaggi nel lettore, la sensazione che mi rimane è di un disco che fila via bene, nonostante sarebbe stato preferibile il taglio di almeno una decina di minuti; ma, soprattutto, che presenta uno spiccato tratto d’autore (nel senso che Bruce vi riversa un’idea autoriale, un progetto personale di ampio respiro) pur soffrendo pesantemente di problemi di scrittura.
Un'ultima nota molto positiva: il sound complessivo di "The Mandrake Project" trova appiglio
nelle molteplici sfaccettature di quanto proposto in passato dal Nostro ma questo senza essere sovrapponibile, al contempo, con niente di quanto già
fatto.
Voto: 7
JUDAS PRIEST – “Invincible
Shield” (08/03)
A 50 anni da “Rocka Rolla”, il
19° studio album dei Priest è come doveva essere e come, onestamente, mi
aspettavo fosse: un disco che scorre fluido, compatto, auto-celebrativo, che
rinverdisce, attualizzandola ai canoni del XXI secolo, gli stilemi che la band
stessa ha forgiato. Heavy metal nudo e puro, quindi, la cui forza d’impatto è
coadiuvata, e ipervitaminizzata, dall’ottima produzione ‘made in Andy Sneap' (ormai membro stabile della band anche in sede live, stante la malattia del povero Glenn Tipton) le cui caratteristiche ben conosciamo: suoni potenti,
pieni e taglienti ma senza arrivare all’iperproduzione bombastica di tante
release contemporanee, con tutti gli strumenti che si ritagliano il giusto
spazio senza prevalere sugli altri.
Ma soprattutto il disco contiene brani molto ispirati, nel riffing come nelle
soluzioni melodiche. È il caso dell’opener “Panick Attack” (la Painkiller
di “Invisible Shield”) o della stessa title track, bel brano tirato che, abbiamo potuto direttamente constatare a Milano lo scorso 06 aprile, fa sfracelli dal vivo.
Personalmente, le cose migliori
di questo disco le ho sentite però nei mid-tempos che sprigionano un commovente flavour
epico: “Crown of
Horns” (clamorosa in sede live!), “Trial by Fire” e, soprattutto, la conclusiva “Giants in the Sky” sono
degli ottimi pezzi in cui i Nostri sembrano muoversi con classe e naturale
agio.
Non tutto però funziona alla perfezione perchè il disco è tarato da diversi brani-compitino (“Devil in Disguise”, “Gates of Hell”, “As God Is My Witness”, “Escape from Reality”) oltrechè da “Sons of Thunder”, vero e proprio filler di 3 minuti 'tirato via’.
Al netto di tutto ciò, “Invisible
Shield” rimane un album più che buono che, seppur diverso, trovo si attesti allo
stesso livello di “Firepower” ma non griderei, come ho sentito da più parti, al
‘capolavoro’.
Ma, senza tema di smentite, si può ancora esclamare: bentornati Metal Gods!
Voto: 7,5
Insomma,
tirando le fila ci ritroviamo quattro dischi sì di british steel ma
tutti diversi l’uno dall’altro, capaci di soddisfare i variegati palati delle moltitudini di
defenders che, scommettiamo, staranno godendo non poco per queste quattro uscite
così ravvicinate e qualitativamente in crescendo.
Dal canto nostro, al netto delle soggettive critiche sopraesposte, siamo lieti che questi nostri amati "dinosauri" siano in pista, sentano l’esigenza di fare ancora questo mestiere appassionatamente e girino il mondo registrando parecchi sold out come se non ci fosse un domani.
Tornando invece alla nostra domanda iniziale, sulla zampata vincente, la risposta è positiva, seppur con dei distinguo e delle differenze qualitative evidenti tra i quattro album.
Leaving such a legacy, my friends!
A cura di Morningrise