"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

1 ago 2024

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: BE PERSECUTED


Ventinovesima puntata: Be Persecuted - "I.I" (2007) 
 
A questo punto della rassegna ci si chiederà come il suono del depressive black metal si sia sviluppato al di fuori dei centri di maggior fermento, ossia l'Europa, gli Stati uniti e io ci metterei anche l'Australia che ci ha consegnato uno dei nomi più importanti del genere, gli Abyssic Hate. Del resto abbiamo più volte detto che il DBM è un genere che, come la variante atmosferica del black metal, ha saputo attecchire in ogni angolo del globo. 
 
E' per questo motivo che oggi voliamo in Cina. Ma attenzione: non è per il rispetto di presunte "quote di partecipazione" che ospitiamo i Be Persecuted nella nostra rassegna, non è per la voglia di esplorare qualcosa di "esotico", in quanto il loro full-lenght di debutto "I.I" è realmente qualcosa di imperdibile ed il nostro compito di oggi è convincervi di questo. 
 
Partiamo dicendo che non c’è da aspettarsi molto di diverso rispetto a quanto il genere ci ha già abituato, voglio dire, non vi è una componente folcloristica o strettamente legata al territorio che rende la proposta peculiare dal punto di vista dei suoni esplorati e delle scelte stilistiche adottate. Si percepisce semmai quell’alone di “stranezza” che spesso si ha ascoltando entità musicali che si sono generate in un contesto isolato: un discorso che potremmo fare, rapportandoci alla dimensione della Norvegia degli anni novanta, con realtà più periferiche come i (primi) Carpathian Forest, i Forgotten Woods e i (primissimi) Manes. Queste band incarnavano indubbiamente lo spirito più autentico del black norvegese, ma in modo diverso, come se una matrice comune si fosse sviluppata seguendo altre vie. Di certo quello stesso potenziale si è espresso in una forma meno avventurosa, innovativa, avanguardistica (come di solito capita nei centri culturali dove le idee circolano e si diffondono), ma più aderente alle forme tradizionali, conseguenza diretta di un maggiore isolamento, appunto. 
 
Questo si può capire meglio se ci si riferisce agli anni novanta, quando internet non era ancora utilizzato per la condivisione di musica, quando la musica circolava tramite cassettine inviate per posta o vendute ai concerti. I Be Persecuted si formano nel 2005, in un’epoca in cui era sicuramente più semplice reperire musica, anche quella più underground e di nicchia. I Nostri, in teoria, non avrebbero pertanto dovuto incontrare grossi problemi nel porsi sul medesimo piano delle più evolute avanguardie del DBM (che all’epoca si era già consolidato come genere a sé stante), ma evidentemente il background socio-culturale e la distanza fisica (siamo pur sempre parlando di Cina!) contano ancora nell’era di internet. 
 
Questo lungo preambolo per dire che la proposta del trio di Nanchang guarda direttamente alle sonorità depressive più old school (Burzum e Forgotten Woods in primis), finendo per somigliare agli I Shalt Become, senza però palesarne connessioni dirette: come se, in momenti diversi, in luoghi diversi, partendo dalle stesse premesse e perseguendo percorsi di scarnificazione ed estremizzazione del suono, si raggiungessero gli stessi esiti, ma in modo del tutto indipendente. La stranezza, ripeto, sta nell’aderire ai cliché del genere, ma finendo per suonare in qualche modo diversi. Quel che conta, alla fine, è il valore assoluto del prodotto. 
 
Il debutto “I.I” esce nel 2007 e ripropone gli stessi brani della demo dell’anno prima con l’aggiunta di due nuove tracce. La formazione ruota intorno a Wu Ming, detto anche Autism, fondatore della Pest Production e proprietario della Stress Hormones Records (nomi invitanti che dicono molto sugli umori della musica promossa). Il Nostro è un polistrumentista, occupandosi di chitarre, tastiere e drum-programming (in altre release si è cimentato anche con la batteria vera e propria, che suona discretamente bene in altre formazioni). Ad accompagnarlo troviamo il bassista Tan Chong (il cui operato è praticamente inudibile per tutta la durata del platter) e il cantante Zhao, il cui screaming acutissimo e sofferente costituisce senz’altro una prima peculiarità: i testi sono redatti in inglese, ma probabilmente la differente pronuncia, per quel che possiamo intuire, conferisce sfumature inedite ad un gracchiare che passa da strilli acuti a miagolii di varia intensità. Ma il vero punto di forza della band sta indubbiamente nell'estro compositivo del mastermind Wu Ming, dotato di un talento melodico che ammanta di perverso fascino le otto tracce (inclusi intro ed outro). 
 
La forma, l’involucro sono sempre gli stessi, la produzione è ruvidissima e richiama gli umori delle prime estrinsecazioni di black metal norvegese, evocando Darkthrone, Burzum ed anche un poco i primissimi Satyricon; il sound è altrettanto minimale, ma la linfa vitale è di diversa natura ed è quello che rende veramente magnetico questo lavoro. Se l’intro a base di tastiere che mimano uno strumento folcoristico a corda (echeggiando certe strumentali dei primi album di Burzum) e il ferocissimo attacco di “Suicide Forest” ci suggerirebbero un prodotto nella media, è l’arpeggio acustico a tre quarti del brano stesso a destarci dal torpore e ad incoraggiarsi nel proseguire l’ascolto. Un arpeggio pulitissimo, come accadeva nelle vecchie produzioni di una volta dove percepivi una differenza anche troppo netta fra i momenti elettrici e quelli acustici. Il fatto è che la mano che disegna l’arpeggio è ispiratissima e fa venire in mente certi umori languidi del post-rock più intimo, influenza che tuttavia non ritroveremo nel resto del platter (che sia l’influsso della musica leggera o del pop cinesi??). Ebbene, da questo momento in poi sarà una sequela di grandi emozioni, dettate da riff ispiratissimi e la capacità di trasmettere una emotività che è sconosciuta a gran parte del black metal del mondo occidentale. 
 
Colpisce l’efficacia di come, con espedienti semplicissimi, i Nostri siano in grado di emozionare, che si tratti di qualche nota di pianoforte gettata su ruvide chitarre, un arpeggio posizionato al momento giusto, linee melodiche lacrimevoli che procedono senza rinchiudersi nella ricorsività del metodo burzumiano, ma che si evolvono di passaggio in passaggio evocando ancora lo spettro del post-rock. 
 
L’apice emozionale si ha nello scorcio finale dell’album con i tredici intensi minuti di “Wilderness” (fra pause e ripartenze ed una prova vocale da paura di Zhao – da brividi la marcissima chitarra lasciata da sola a singhiozzare per minuti alla fine del brano) e i toni malinconici di “Some How”, trasportata da tempi pacati ed animata da un bellissimo intreccio fra chitarra elettrica ed acustica, i sussurri di un grande Zhao, ancora maestro di sofferenza, sussurri che poi diventano grida lancinanti nel finale (il testo, per la cronaca, è l'unico redatto in lingua madre, essendo tratto da una poesia cinese). Ed infine il funereo outro, squarciato dal suono greve ed apocalittico di un organo a chiudere il tutto nel modo più desolante possibile. 
 
Aiuta, durante l'ascolto, immergersi nel paesaggio spoglio e minaccioso ritratto in copertina: specchio fedele della musica catturata in questa opera imperdibile per chiunque apprezzi queste sonorità. Ripeto, con mezzi poveri i Be Persecuted confezionano uno degli album più intensi dell’epopea del DBM. Pochi effetti speciali e molta sostanza. Ascoltare per credere...