Premetto che qui non si parlerà di musica, ma di una sensazione. Anzi no, di tutte e due...
Ma prima facciamo un passo indietro e torniamo alla mattina di venerdì 28 giugno. Accadde una cosa eccezionale, anzi due...
Mi scrive un collega sulla chat di lavoro chiedendomi se sono interessato ad andare a vedere i Pearl Jam il giorno dopo al Tottenham Stadium visto che si è ritrovato alla vigilia dell'evento con due biglietti gratis. Devo dire la verità, la mia prima reazione non è stata di gioia sfrenata, ma di perplessità, perplessità legata soprattutto a tutte le criticità che sono tipiche di un grande evento e a cui non sono più abituato: moltissime persone, code infinite, clima social-popolare. In più non sapevo nemmeno che tipo di posto mi sarebbe stato assegnato, con la triste prospettiva di vedere i mitici Pearl Jam mestamente seduto a battere le mani fra cinquantenni imbolsiti e festanti lontanissimo dal palco in un settore dello stadio in culo all’universo.
Ho galleggiato un po’ fra i miei dubbi, ma alla fine ho accettato, più che altro perché da un punto di vista squisitamente teorico non accettare il pacchetto (i Pearl Jam... nella propria città...gratis...) sarebbe stato da coglioni di prima classe. L'aver acconsentito ad andare, tuttavia, non mi ha trasmesso la dovuta serenità. Mi ritengo infatti un “animale da piccolo-medio club”: mi piace stare vicino al palco, andare spesso al bar ed al cesso. Finito il tutto, mi gratifica uscire dal locale con calma e prendere tranquillamente la prima metro che passa per tornare a casa, senza calche di gente e menate.
Paradosso dei paradossi: la fatica mentale di andare a vedere il Pearl Jam il giorno dopo, mi ha fatto crescere la voglia di attuare un proposito che da mesi accarezzavo senza particolare convinzione, ossia recarmi la sera stessa al concerto di un personaggio del tutto inutile, tale Ty Segall, rocker californiano dei nostri giorni (classe 1987) dedito a sonorità psycho e garage: niente di particolarmente significativo nella mia vita, presente e passata, ma l'ultimo album “Three Bells” ha girato spesso per le stanze di casa mia negli ultimi mesi, e poi quel tipo di sonorità si sposano molto bene con il Roundhouse, storico locale della zona di Camden dove già ho avuto modo di vedere diversi artisti (Swans, Devin Townsend, Emperor, Systers of Mercy fra gli altri) con grandi soddisfazioni uditive e visive. Insomma: un luogo amico per una serata senza impegni e ad alta gradazione alcolica. Niente a che fare con l'affollatissimo evento del giorno dopo.
Ma ecco che dopo l’inaspettato accade l’impensabile: siamo ancora a venerdì 28 e, tornando dalla pausa pranzo, apprendo che i Pearl Jam hanno annullato il concerto a Londra per un non chiaro problema di salute di qualcuno dei musicisti (non una cosa da poco, visto che anche le successive date in Germania sarebbero state annullate). Cosa assai insolita se si pensa alle dimensioni dell'evento. Non ci crederete, ma invece di essere inondato da una cocente delusione ho percepito un sollievo istantaneo, anzi, un momento di liberazione tale da spingermi seduta stante a rompere gli indugi ed acquistare il biglietto per Ty Segall, figurandomi al Roundhouse circondato da elettricità e bella gente. E, soprattutto, ad inseguire un attimo.
Ci fu infatti un attimo anni fa, sempre al Roundhouse, in occasione di un concerto degli Swans. Un’anticipazione di questo attimo si ebbe mentre andavo al bagno, investito alle mie spalle dalle bordate elettriche delle chitarre messe in campo dall'ex Sonic Youth Thurston Moore, che quella sera suonava prima degli Swans. Mi piacque la sensazione, l'idea che il concerto fosse dietro e non davanti, come se fossi in un locale a fare la mia cazzo di serata ma con in sottofondo, non musica in filodiffusione, ma Thurston Moore in persona (mica cazzi!). L’attimo vero e proprio, poi, si sarebbe concretizzato nel momento in cui mi sono recato al bar per prendere da bere, già alticcio e con alle spalle, questa volta, le note ossessive degli Swans. Incalzava “Screen Shot”:
No dream, no sleep, no suffering
No pain, no now, no time, no here
No knife, no mind, no hand, no fear
Basso, batteria, il recitato greve di Michael Gira, le luci dei riflettori che si riflraggono sulle bottiglie opache negli scafali del bar, un’atmosfera torbida, fumosa, quasi newyorkese, mi sento parte di qualcosa di universale ed individuale al tempo stesso, difficile da spiegare a parole. E' stato un momento di pienezza, di "presenza", di rivelazione, quasi "divino", come accade sempre più raramente in questi tempi frenetici. Cosa strana: di solito uno va al bar in un momento di stanca dell’esibizione, magari durante una canzone che piace di meno. Io invece, da quella volta, ho iniziato a fare l’esatto contrario, ossia andare a prendermi da bere proprio durante un momento potenzialmente topico del concerto (come accadde per esempio durante il classicissimo “Marian” al concerto dei Sisters of Mercy). Venerdì 28 giugno 2024 sarei stato nuovamente al Roundhouse per rivivere quell’attimo...
Entrato nel locale ho percepito subito buone vibrazioni. Sono di buon umore, il barista mi fa i complimenti per la maglietta (Black Sabbath, Vol. 4), le bariste mi sorridono, c’è aria di socievolezza e pure io divento socievole, scambiando opinioni e persino parlando di musica con la gente (cosa che non si usa più fare ai concerti oggigiorno). Un tizio di una certa età, allegramente in fila per pisciare dopo di me, si definisce “vecchio” e mi dice che Ty Segall gli ricorda la musica con cui è cresciuto. Mi guardo intorno e vedo una festante e variegata folla di individui che vanno dal
giovane ragazzo in camicia dai colori sgargianti a veri e propri reduci dagli anni settanta. Io sono già un po’ ubriachetto: è appena trascorsa l’esibizione dei gruppo spalla, gli Earth Tongue, duo stoner rock neozelandese dedito ad una delle infinite declinazioni del verbo sabbathiano.
A calamitare gli sguardi è la tutina rosa a rete della cantante chitarrista Gussie Larkin, sciorinatrice di grandi riff ed adeguatamente accompagnata dal drumming potente di Ezra Simons. Niente di speciale, per carità, un gruppo come tanti altri nel marasma dell’universo post-sabbathiano, sebbene vi si possa intravedere lo sforzo di fare qualcosa di maggiormente originale puntando su umori ilari, atteggiamento sbarazzino e linee vocali che mi hanno rimembrato certe cose dei Gong. Insomma, sia come sia, i Nostri scaldano a dovere il pubblico, ma più che altro ci ricordano la grandezza, la genialità e la creatività di Tony Iommi e soci e di un linguaggio che suona ancora attuale e fresco dopo più di 50 anni dalla propria genesi. Che grande gruppo i Black Sabbath!
Stesse considerazioni di fondo per il buon Ty Segall, che, a conti fatti, verrebbe da descrivere come un ibrido fra Syd Barrett, Neil Young e il Bowie dei primi anni settanta, il tutto coccolato da potenti distorsioni. Non mi dilungo in dettagli, quello che io colgo nella musica del californiano è una devozione assoluta per le sonorità del passato. Un approccio umile, il suo, come se egli non si volesse mai ergere al di sopra dei Maestri: un revival, questo, che non si tramuta nella ricerca di un hit che possa rimanere scolpita nella Storia della Musica (non esiste un vero e proprio greatest hits per Ty Segall: le scalette dei suoi tour variano molto in base al disco di volta in volta promosso, i suoi set vanno tranquillamente dall’elettrico, al frontale, allo psichedelico, al totalmente acustico, vuoi che il Nostro voglia rappresentare di sé la versione del rocker o quella del cantautore). E’ come se in questo ragazzo rivivesse l’anonimato di quella schiera di garage-rock band che, dai circuiti underground delle cantine e delle piccole bettole, hanno rinvigorito l’epopea del rock con un linguaggio piuttosto che con album e singoli brani.
Il flusso di Ty Segall è un continuo saliscendi elettrico che passa in rassegna bordate chitarristiche, groove, divagazioni psichedeliche e guizzi di cantautorato stralunato, il tutto condito da sudore, capelli bagnati sulla faccia, pose epiche ed una tecnica che è sempre funzionale alla musica e non viceversa (ottima comunque la prestazione dei musicisti a supportarlo, quando lui – polistrumentista – è abituato a fare da solo in studio, sfoggiando sufficienti competenze su tutti i fronti, ma del tutto disinteressato a virtuosismi di sorta). Questa istintività si sente, un’istintività quasi punk (ma del resto proprio a quello portarono le garage rock band menzionate sopra, no?) che vibra e si ricongiunge a certe nevrosi del grunge degli anni novanta, un passaggio obbligato per qualsiasi rocker contemporaneo.
Tutto ciò è estremamente gradevole per il sottoscritto, non manca neanche la benezione ufficiale dell'evento con una incredibile riproposizione di "Love Fuzz" in una apocalittica "sloved down doomy version" (così connota nella scaletta il sito setlist.fm): colonna sonora ideale per la mia caracollante ed estatica escursione al bar - una delle innumerevoli, in verità, ma del resto cercavo esattamente questo stasera! Che dire, infine: mission accomplished!
Certo però, fra le pieghe del piacere provato, mi vien da pensare: da quanto tempo non presenzio ad un live aspettando ed aspettandomi il Brano della Vita? Il brano da cantare a memoria, quello che si radica nel profondo della mia Storia Personale? Guardo all’agenda dei miei prossimi appuntamenti live e penso a quanto oramai i concerti a cui decido di andare si distacchino dai miei gusti, dai miei ascolti e soprattutto dai mie acquisti. Artisti che conosco a mala pena, di cui non ho nemmeno un CD, che magari hanno la fortuna di passare per la città nel fine settimana (perché un concerto in un giorno infrasettimanale è sempre una rottura di coglioni), in una venue non distante da casa mia. Magari in locali che mi piacciono o in cui non sono mai stato e che vorrei scoprire. Esibizioni che fanno parte di un evento o di un festival che mi incuriosisce, con sempre ben in mente la posizione del bar, la qualità dei suoni, l’atmosfera del posto in generale, la gente che vi bazzica, la zona, il quartiere della città. E poi l’età anagrafica dell’artista, che se è più giovane è meglio perché ha più energia e voglia di suonare.
La sublimazione di questo concetto si ha avuto un sabato mattina, sabato 25 maggio 2024 per l'esattezza. Il giorno prima nella splendida cornice della Union Chapel avevano suonato i Current 93, uno dei miei Gruppi della Vita (avrà di loro una cinquantina di CD). Ma alla fine, dopo averli visti tante volte, mi son sentito di disertare e dare la precedenza al Portals Festival, a cui non avevo mai partecipato e che si sarebbe tenuto il giorno dopo. Con quale sgomento ho appreso da internet, la mattina del sabato, la scaletta del concerto dei C93 della sera prima: una scaletta meravigliosa, con tantissimi classici (“Ach Golgotha (Maldoror is Dead)”, “The Descent of Long Satan and Babylon”, “In the Heart of the Wood and What I Found There”, “A Sadness Song”, “Mary Waits in Silence”, “The Carnival is Dead and Gone”, “Be”, “Alone”, “The Death of the Corn”, ”, Oh Coal Black Smith”), un miracolo che non accadeva da anni, ideale best of che è da sempre il sogno della mia vita! Tutto questo barattato con cosa? Per una giornata di concerti al Portals con band per lo più a me sconosciute? Cosa sono dunque diventato? Un frequentatore distratto di happening musicali?? Un ubriacone pretenzioso che gli piace bere con buona musica di sottofondo? Dove sono finite le emozioni connesse alla musica???
In verità le emozioni ci sono ancora, e sono connesse più che mai alla musica. Solamente, sono cambiate le modalità di fruizione delle stesse. Per molti andare ad un concerto significa andare ad ascoltare un artista che piace, meglio se ne conosce bene il repertorio. Per me invece, agevolato dall’incredibile offerta di eventi di una città come Londra (parlo da privilegiato), andare ad un concerto è quasi come uscire a prendere una birra con un sottofondo "figo": meglio dieci eventi minori che due mega concerti da stadio con decine di migliaia di persone, se dovessi fare un discorso prettamente economico. Del resto essere appassionato di musica da 35 anni ha i suoi vantaggi, permettendomi di gioire indisturbato e in pieno relax della grande musica di "piccoli" artisti, nomi di nicchia dall'alto valore artistico e con un seguito limitato (ma devoto e rispettoso). E poter dunque evitare situazioni - come si suol dire - social-popolari, che oggi mi infastidiscono più che mai.
La mia è più che altro la ricerca di una situazione, di un mood, di una sensazione. Non altro che l’inseguimento di un attimo: il presente. Che poi, invecchiando, è un po’ il senso della vita, no?