15 ago 2022

FERRAGOSTO (LUTTUOSO) CON I CLOUDS

 


Ferragosto con i Clouds, fra foschia, cieli grigi e lutti da elaborare. E come al solito voi direte: ma è il quindici agosto, santoiddio, potremmo avere qualcosa di più festaiolo, almeno per oggi?? 

Non so come voi abbiate trascorso il 2022, ma io, personalmente, l'ho passato ascoltando funeral doom. Lo ascoltavo che c'era ancora la pandemia, e forse questa immersione nella cupezza più assoluta aveva un senso nell'allinearsi agli umori del periodo, anzi dell'epoca, e alla sensazione di isolamento che ci pervadeva durante il lockdown e restrizioni varie. Lo ascolto ancora, il funeral doom, anche se di pandemia ad un certo punto si è smesso di parlare. Ma ecco che la piaga ha rialzato la testa e in ogni caso c'era già la guerra ad intorbidirci l'umore, e chissà cos'altro si aggiungerà a tenerci "allegri"...Non è dunque una cosa così fuori dal mondo trascorrere Ferragosto ascoltando i Clouds, che in fondo mi liberano dal senso di asfissia che caratterizza molte delle produzioni in ambito funeral doom e che mi proiettano, se non su una spiaggia assolata, almeno in refrigerati scenari di consolazione emotiva... 

C'è appunto da chiarire che i Nostri rappresentano la costola melodica del funeral doom, tanto che a tratti sembrerebbero più vicino a certe cose ariose ed introspettive del gothic metal degli anni novanta che al suono lento, brutale e massimalista sdoganato dai vari Disembowelment, Thergothon, Esoteric e Skepticism. Insomma, c'è da stare rilassati con i Clouds...  

Con i Clouds, poi, è come tornare a casa. A casa dei Clouds troviamo persone conosciute e che rispettiamo. Questa all-stars band di eminenze del funeral doom originava nel 2013 dalla mente di Daniel Neagoe, leader degli Eye of Solitude e titolare di una miriade di altri progetti gravitanti tutti più o meno in area doom. La formazione che incideva “Doliu”, più che convincente debutto uscito nel 2014, comprendeva anche Jarno Salomaa (Shape of Despair), Kostas Panagiotou (Pantheist) e Deha (Slow e moltissimo altro): un team internazionale, questo, chiaramente in possesso di un know how importante in materia "funeraria" e che va a mescolare le proprie energie in un unicum coerente e dotato di una propria ragion d’essere. 

La coerenza stilistica è data dal fatto che tutti gli artisti coinvolti e le rispettive band condividono una comune visione artistica, rappresentando da anni un filone del funeral doom che intende esplorare la sua dimensione più melodica ed abbordabile (per quanto un genere come questo lo possa effettivamente essere). Ascoltare le note umbratili di questo “Doliu” ci riporta alla mente inevitabilmente gli album di Shape of Despair, primi Pantheist, Slow ed Eye of Solitude: un funeral doom, quello dei Clouds, elegante, raffinato, perennemente proteso verso l’espressione di una interiorità affranta e senza possibilità di ristoro. Del resto il progetto ha consacrato la propria produzione artistica proprio sul concetto di lutto (“Doliu” - lo ricordiamo - significa proprio “lutto” in rumeno, lingua madre di Neagoe). 

Quando la perdita di una persona stordisce, immerge in un senso di vuoto che non lascia spazio alla ragione, allora abbandonarsi alla malinconia, alla contemplazione del proprio dolore, può divenire l’unica via per elaborare un grave lutto. Proprio questo processo di catarsi, questo effetto salvifico della malinconia rende dolce e confortevole la proposta artistica dei Clouds, autori di un suono sì decadente, ma mai affossante: un suono ben levigato ed addolcito continuamente dal pianoforte, dalle tastiere e dalle frequenti voci pulite. Di certo i Clouds non sono il gruppo preferito di chi del funeral doom preferisce l’asfissia senza compromessi, ma davvero costituiscono un bel sentire per tutti gli altri. 

I brani (sei in tutto, per una durata complessiva di cinquantasette minuti) nonostante la lunghezza scorrono bene nel continuo interscambio fra growl e registri puliti, con un Neagoe profondamente ispirato e capace di muoversi in modo eccellente su entrambi i fronti. Egli è un rinomato polistrumentista, e in questa circostanza lo troviamo impegnato anche alla batteria: una batteria, la sua, che detta tempi lenti ma non lentissimi. Egli nondimeno fa il suo dovere senza strafare, limitandosi ad indicare il passo richiesto dai diversi brani con qua e là qualche gradita variazione che certo non guasta. La chitarra di Salomaa, come nei suoi Shape of Despair, fluisce tramite riff corposi ed avvolgenti, semplificando le lezioni di decadenza dei maestri Katatonia. Deha (chitarra e basso) e Panagiotou (tastiere), infine, portano in dote il sound melodico e sognante delle proprie band, scivolando talvolta in territori pinkfloydiani

Ci si sente a casa con i Clouds, perché la loro musica è pregna di sentimento, genera vivide visioni nella mente dell'ascoltatore e chiudendo gli occhi non sarà difficile immaginarsi cieli nuvolosi e grigi che sovrastano un dolore inconsolabile. L’openerYou Went so Silent” si apre con i toni della ballata per piano e voce, richiamando alla mente l’intimismo degli Anathema di “Alternative 4” e degli Antimatter, per poi esplodere e riavviarsi sui binari del funeral con un growl sofferente e il lento incedere di chitarra e batteria. Da segnalare l’ottimo lavoro alle tastiere di Panagiotou (una costante di tutto l’album), mai sopra le righe, bensì incisivo nel delineare melodie struggenti dominate da un’epica quasi pinkfloydiana

Standing ovation per la bellissima “If These Walls Could Speak”, il miglior epsodio del lotto per chi scrive, impreziosita dalla coinvolgente performance dietro al microfono di Jon Aldara (Hamferd) e da un assolo da spellarsi le mani dagli applausi di Ben Ellis (momento decisamente gilmouriano che ci riporta alla maestosità del suono degli Slow dello stesso Deha). 

Heaven Was Blind to my Grief” prosegue coerentemente offrendo un andamento monumentale che evoca i primi Tiamat unendolo allo spleen decadente dei Katatonia, una influenza evidente in casa Clouds. Stupenda anche “A Glimpse of Sorrow” che nei suoi quasi dodici minuti di durata offre una prima metà di solo pianoforte (e sì, i ragazzi non vanno di fretta) per poi cementarsi in una straziante processione dove la batteria passeggia implacabile e sorregge un suono imponente solcato dal growl dell’ospite Pim Blankenstein (degli Officium Triste – tanto per rimanere allegri!). 

 “The Deep Vast Emptiness” si distingue per un rifferama quasi black metal, costituendo a mio parere il frangente di maggior ispirazione per Salomaa, che non ho mai considerato un grande riffer (sebbene le sue intuizioni melodiche, nella loro semplicità, non risultano mai sgradevoli). La conclusiva “Even if I Fall” brilla invece per inserti di tastiere ambient posti in apertura ed in chiusura e che strapperanno la lacrima anche ai più duri di cuore. 

Insomma, c’è da piangere ad ascoltare i Clouds, e non mi stupisco che abbiano saputo dimostrare una straordinaria longevità nel corso di una esistenza oramai quasi decennale. Fra un cambio di formazione e l’altro, il progetto giunge ai nostri giorni sempre all’insegna di collaborazioni prestigiose e ospitate illustri. Della gloriosa formazione originale sarebbe rimasto solo Daniel Neagoe, il quale avrebbe continuato a contornarsi di personalità di primario livello in ambito doom e gothic. 

Si possono nutrire ragionevoli perplessità innanzi ad operazioni di questo tipo: di solito, in questi casi, il mestiere prevale e il prodotto finale raramente è superiore alla somma delle singole parti, ma io lo darei un ascolto spassionato a questo “Doliu” (come al successivo, ed altrettanto buono, “Departe”): se vi trovate nella giusta predisposizione d’animo, potreste fare bingo. Per tutti gli altri ci sono gli Evoken…