"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

15 gen 2017

CLOUDS, TREES OF ETERNITY, FVNERALS: LA RISCOSSA DEL "NUOVO" DOOM!



 
 

 A volte l'anno nuovo non inizia il primo gennaio, ma qualche giorno dopo. Un anno infatti non si spegne all'improvviso, ma la sua eco si propaga per qualche tempo, velando le fattezze del successivo ancora inconsistente nei suoi primi vagiti.

Perché codeste affermazioni? Perché questo, spiritualmente parlando, è il mio effettivo primo post del 2017: anno che avevo invece affrontato in modo neutro parlando di Ronnie James Dio. Del resto Dio è un personaggio al di fuori del tempo ed evidentemente, scrivendo su di lui, avevo bisogno di sostare per un momento ancora in una dimensione atemporale per smettere di confrontarmi con il presente, che era stato il mio cruccio per tutto il 2016.

A partire dal post lapidario "Il Metal è morto!", per il sottoscritto sono stati dodici mesi di faticosa ricerca con l'obiettivo di trovare, nel mare vastum del metal odierno, qualcosa capace di smuovermi dentro e che, al tempo stesso, potesse consegnarmi una parvenza di novità: non dico un fenomeno di netta rottura, ma almeno qualcuno che aprisse nuove possibili vie. Niente: tanti buoni gruppi, album più che dignitosi, ma alla fine solo passi laterali o indietro animati da impulsi revivalistici, contaminazione con altri generi ed una affannosa lettura del presente che non ha portato altro che, nel migliore dei casi, a compiere impercettibili movimenti in avanti. Ma forse era il mio approccio ad essere sbagliato perché in questo mio cammino ho lavorato troppo di testa e poco di cuore. Dovevo invece chiudere gli occhi e farmi guidare dalle emozioni. E così un giorno mi son detto: "Che fatica, lasciamo perdere sta roba-cervellotica-avant-post-neo-progressiva-o-djent-che-dir-si-voglia ed andiamo a rilassarci!"

Mosso così da curiosità per via di una serie di recensioni davvero entusiastiche, mi sono gettato nell'ascolto di "Departe", secondo album rilasciato dai Clouds sul finire del 2016. Già dalla copertina si respira aria di Anni Novanta e l'ascolto non tradirà le aspettative: Ulver, Anathema, Tiamat, Katatonia, In the Woods, Amorphis, Arcturus sono i nomi che vengono in mente mano a mano che scorrono i minuti iniziali dell'opener "How Can I Be There". Che sarebbe a dire: desolante pianoforte con sussurri à la Kristoffer Rygg, feedback di chitarra in crescendo, riffoni sabbathiani che girano alla grande e che, ricorsivi, si protraggono a lungo animati da bellissime melodie. E poi una struttura che prosegue libera, fra pieni e vuoti, alternando un growl cavernoso a limpide voci pulite.

Le uniche concessioni alla contemporaneità sono certe sonorità ricavate dall'esempio degli ultimi Ulver, come già accennato, e certe delizie che rievocano il celestiale post-rock dei Sigur Ros, ormai un punto di riferimento obbligato per chi si approccia in modo passionale e sognante alla materia gotica. Diversi sono i cantanti che nel corso del platter si avvicenderanno dietro al microfono ed altrettanti sono i musicisti chiamati a dare un contributo all'operazione, incastonando preziosismi in un'opera corale che non incappa in un attimo di cedimento. I Clouds, del resto, sono un super-gruppo formato da esponenti più o meno noti di entità dedite a doom, funeral doom e gothic quali Eye of Solitude, Officium Triste, Shape of Despair, Pantheist, Wijlen Wig, My Dying Bride e molti altri. Tutti nomi, ad eccezione dell'ultimo, che non mi dicono nulla, visto che saranno almeno quindici anni che non mi interesso alle nuove leve del doom. Quindi potrete capire la mia gioia nel riscoprire la vitalità di un genere che pensavo cristallizzato nei suoi cliché oramai vecchi e consunti.

Il fatto è che c'è voglia di dare emozioni, e non è cosa da poco, visto che oggi tutti inseguono faticosamente sogni di differenziazione, spesso non coronati da risultati esaltanti: i Clouds non hanno niente da dimostrare, niente di antipatico o spocchioso, no dissonanze no psichedelia no velleità di ricerca o innovazione. L'unica ambizione è quella di ricreare una musica dai contorni monumentali che si sviluppa in brani piuttosto lunghi dove accade più o meno di tutto. E dove quel tutto sembra conservare un senso unitario in quanto ogni tassello conserva la sua funzione, facendo sì che non si percepisca quella ridondanza, quella tendenza all'asfissia, che anima molti album di genere, sebbene i temi funerei (tutto ruota attorno al concetto di "dipartita", o meglio, di lutto legato alla scomparsa di persone care) potrebbero implicare atmosfere ben più tetre ed affossanti. C'è quella "spensieratezza" che si respirava ancora negli anni novanta, quel desiderio, quel romanticismo, quell'aspirazione a voler essere "belli e decadenti", pomposi, senza timor di suonare pacchiani o poco innovativi. Ecco perché il metal è vivo: perché è capace di generare band come i Clouds che sanno ancora emozionare.

Che si tratti di una piacevole eccezione? Finito l'album, YouTube ne carica uno similare: è la volta dei Trees of Eternity con il loro "Hour of the Nightingale", anch'esso del 2016. Partiamo dal monicker: poteva esserci un nome più scontato? Ma questo è il bello del doom/gothic che sto riscoprendo in questi giorni: scontato ma sincero!

Scontato non è però chi sta dietro al progetto: la leader/cantante è la sudafricana Aleah Liane Stanbridge, che forse qualcuno avrà conosciuto per le sue comparsate canore in Swallow the Sun ed Amorphis, ma che in realtà di mestiere faceva la fotografa (!), la web designer (!!), la stilista (!!!), la creatrice di linee di gioielli (!!!!). Dico "faceva" perché la bella cantante è deceduta quest'anno a soli trentanove anni, prima ancora che il primo full-lenght di questo suo progetto personale, dopo un brillante e promettente demo, venisse pubblicato. Beninteso, scopro tutte queste cose dopo aver ascoltato l'album ed esserne rimasto incantato.

Sì, incantato è la parola giusta, perché anche qua, come nel caso dei Clouds, si parla di emozioni, emozioni vere. La proposta dei Trees of Eternity (oltre alla cantante troviamo a darle manforte componenti degli stessi Swallow the Sun), sebbene poggiante sui numi tutelari del genere, Paradise Lost in primis, suona più particolare di quella dei Clouds: chitarre arpeggiate compongono l'ossatura di brani scorrevoli e che strizzano l'occhio alla dark-wave, ma che non disdegnano affatto le pesanti distorsioni di matrice gothic, anche perché i Trees of Eternity sono una band metal e mai rinnegano nelle intenzioni e nei fatti questa appartenenza.

Qui non è questione di idee, ma di bellezza che attraversa ed anima tutti i brani, dal primo all'ultimo: brani in apparenza semplici ma che non stancano mai, ravvivati dalla voce magnetica della Stanbridge, eterea ma anche energica, lontana dalla leziosità di tante soprano o angeliche sirene che popolano il mondo del gothic. Ad aggiungere gloria alla gloria, due importanti ospiti, Mick Moss (Antimatter) e Nick Holmes (Paradise Lost): due nomi che aiutano ad inquadrare ulteriormente le sonorità di questo "Hour of the Nightingale", sospeso perennemente fra fragile intimismo e vigorosa epicità.

Chiudiamo il cerchio con un'ultima band che della materia doom/gothic fornisce un'ulteriore lettura. Parlo degli scozzesi Fvneral, i quali con "Wounds", sempre nel 2016, raggiungevano il traguardo del secondo album. Delle tre band trattate in questo post, costoro sono sicuramente i più intellettuali, in quanto il loro scarno e crudo doom asseconda rigorese tendenze minimaliste, sconfinando nei territori oscuri e privi di speranza della drone-music e nell'ambient.

Uno stile asciutto, essenziale, caratterizzato dalle lente ed ipnotizzanti schitarrate di Syd Scarlet e dalle nenie soffuse della vocalist Tiffany Strom: c'è del dark, dell'esoterismo, del post-rock e per questo, rispetto al revivalismo delle altre due band di prima, i Fvneral si iscrivono a quella schiera di doomer che da qualche anno a questa parte cercano di trovare nuove strade al di fuori del classico bacino di influenze degli anni novanta. E l'ascolto ne risente, in quanto seguire gli scarsi quaranta minuti di queste "Ferite" richiede un approccio più cerebrale, in quanto la mente ha da addentrarsi nelle nebbie vaporose di un rito che puzza di zolfo, occultismo e psicoanalisi.

La band, infatti, si focalizza più sull'atmosfera che su la concretezza della propria musica e per chi ascolta diviene impegnativo riconoscere le figure che si muovono di soppiatto fra le confuse pennellate di una rappresentazione espressionista. Si, il tutto scorre con maggiore fatica, ma è indubbio che siamo ancora una volta al cospetto di un lavoro fresco e di qualità: un'opera che sa ripagare degli sforzi di attenzione profusi solo dopo ripetuti ascolti.

Per lo stato d'animo in cui oggi mi trovo, tendo a preferire album "facili" come quelli dei Clouds e dei Trees of Eternity che a scoppio ritardato eleggo ex aequo migliori album metal del 2016. Chi l'avrebbe mai detto, due album gothic/doom, nel 2016...