Non è certo impresa ardua trovare colori pinkfloydiani sulla tavolozza utilizzata dagli Anathema, essendo, i Nostri, i campioni indiscussi del “pinkfloydesimo” nel metal. La cosa che li rende diversi dagli altri sotto questo aspetto, tuttavia, è che nella loro proposta si rinvengono più dimensioni dell’universo pinkfloydiano, che in genere troviamo dissociate in altre band. Vi sono infatti artisti che hanno preferito adottare un approccio concettuale, pescando a piene mani da lavori come “The Wall” e “The Final Cut”, ed altri invece che hanno guardato al lato estetico, a quel suono maestoso, fluido, elegante che in genere si associa ai Pink Floyd delle lunghe suite.
Negli Anathema entrambe le cose hanno convissuto, grazie alla compresenza delle visioni artistiche del bassista Duncan Patterson, l’autentica anima watersiana della band, e Daniel Cavanagh, più incline ai paesaggi sonori che sono tipici dell’estro di David Gilmour.
1995-1997: Metal-pinkfloydesimo
Rispetto a molte altre band dell’ondata doom-death degli anni novanta, gli Anathema hanno fin da principio mostrato una forte volontà di emanciparsi dagli stilemi del metal estremo. L’LP d’esordio “Serenades” (1993) era ancora infestato dal growl cavernoso di Darren White e le composizioni si mantenevano salde su tempi medio/lenti che esprimevano quella sensazione di esasperata asfissia tipica del doom. Eppure i più attenti avranno potuto notare significative intuizioni melodiche che, con il senno di poi, potrebbero essere descritte come pinkfloydiane (si faccia caso, per esempio, a certe spennellate di chitarra solista dopo il ritornello di “Sweet Tears”).
Ma è con il trittico di lavori successivi che la band sarà in grado di rendere chiari i propri intenti. L’EP “Pentecost III” (1995) già si presentava in modo diverso, con un sound “impalpabile”, liquido, dilatato dove gli spigoli della incarnazione precedente venivano smussati: dolenti arpeggi, sublimi intrecci di chitarre, il rimbombo del basso e persino il drumming soffuso, tutto concorreva a generare una sorta di “psichedelia dei sentimenti”, ove il crooning sofferto di White ne era il perfetto compendio (si pensi a “Kingdom” e “We, The Gods” per farsi un’idea).
In “The Silent Enigma” (1995) quelle stesse intuizioni venivano portate ad un ulteriore livello di consapevolezza e maturità, con un sound ancora più a fuoco, basato sulla felice alternanza di pieni e vuoti e su maelstrom sonori che sapevano coniugare alla perfezione la potenza del metal al sound imponente dei Pink Floyd (un esempio su tutti: la spettacolare coda strumentale di “Sunset of the Age”). Al microfono non vi era più White, ma il chitarrista Vincent Cavanagh, ben più di un semplice rimpiazzo.
Affiorava ancora qualche rigurgito doomish in “Eternity” (1997), dove la voce si assestava più o meno stabilmente su registri puliti, andando perfettamente a supportare una scrittura che valorizzava l’atmosfera prima ancora che l’impatto sonoro. Il contributo di pianoforte e tastiere da parte dei due compositori principali, il bassista Duncan Patterson e il chitarrista solista Daniel Cavanagh, rendeva ancora più etereo il sound degli Anathema che adesso oscillava fra un malinconico rock cantautoriale e soundscape che guardavano ad orizzonti metafisici, come del resto suggeriva il titolo dell’album (episodi come “Eternity Part I” ed “Eternity Part II” parlano chiaro). E se qualcuno avesse nutrito qualche dubbio in merito a chi si ispirasse la band, la cover di “Hope”, brano scritto da un certo signor David Gilmour, fungeva da chiara conferma.
L’evoluzione della band, in questa prima fase artistica, si è dipanata lungo una chiara direttrice stilistica che ha visto i musicisti, album dopo album, focalizzarsi su suoni sempre più dilatati e in grado di supportare la vocazione introspettiva delle liriche. Alla base di tutto questo encomiabile sforzo, vi era stato il merito di Duncan Patterson nell’aver “contagiato” i suoi sodali con la passione per i Pink Floyd, fonte di ispirazione che ha permesso agli Anathema di ampliare le potenzialità espressive del metal. In particolare il lavoro alle sei corde del fantasioso Daniel Cavanagh era stato determinante nell’applicare lo spleen epico-malinconico di Gilmour (gli infinite solos, le "note lunghe", il prolungarsi dei feedback) ad un contesto insolito come quello del metal estremo.
Ma quella che per Patterson era nata come una passione, con il tempo sarebbe divenuta una vera e propria ossessione…
1998: “Alternative 4”
Il quarto full-lenght degli Anathema ha rappresentato un passaggio cruciale nella carriera degli inglesi, non solo perché esso rimane il punto di snodo fra il passato metal della band e il suo futuro nei meandri del rock (più o meno) progressivo, ma anche perché esso è l’ultima incisione con Duncan Patterson, il cui ego era evidentemente divenuto una presenza ingombrante nei processi creativi della band. L’album, di fatto, è letteralmente ammorbato dal pessimismo cosmico del bassista, il quale riversa in esso tutte le sue paturnie esistenziali, ben rese grazie al ricorso ad una miriade di escamotage tratti dal vasto repertorio dei Pink Floyd: dalle origini psichedeliche alla maturità progressiva, con un occhio di riguardo per opere come “The Wall” e “The Final Cut”.
“Alternative 4”, pertanto, era un album che vedeva forti fratture al suo interno, con il songwriting diviso fra Patterson e Daniel Cavanagh, ed un equilibrio instabile che sembrava propendere verso l’approccio concettuale del bassista. E cosi, in controtendenza con l’evoluzione avuta fino all’album precedente, adesso il sound degli Anathema si faceva più asciutto, essenziale, con brani spesso brevi e privi di ridondanze, per nemmeno tre quarti d’ora di durata complessiva. Cosa che, in un primo momento, lascerà alquanto freddi i fan di vecchia data.
Riconoscere chi ha scritto i singoli brani è cosa assai semplice. In genere la penna di Patterson si è rivelata più incline ad ambientazioni congeniali a quello che abbiamo definito il “soliloquio watersiano”, con rintocchi minimali di pianoforte, vocalità che passano subitaneamente dal sussurro alla disperazione ed accorgimenti presi in sede di post-produzione, come l’eco della voce che si prolunga una volta terminata la strofa (espediente utilizzato fino allo sfinimento dal Waters autore). È il caso della opener “Shroud of False”, poco più di un minuto e mezzo per presentare l’album, passando dalla quiete di un pianoforte e la voce lacrimevole di Vincent alla tempesta delle chitarre, per poi richiudersi nuovamente in una chiosa dimessa, con eco finale ad aggiungere il proverbiale tocco watersiano.
“Empty” si sviluppa su binari electro-pop, anticipando le tentazioni elettroniche che contraddistingueranno il prosieguo di carriera di Patterson. “Lost Control” è invece il capolavoro dell’album, una tragica ballata impreziosita dal contributo di un violoncello, dove, fra quiete, scoppi improvvisi e crescendo di grande intensità, si compie ancora una volta il “teatro watersiano”, reso possibile dall’espressività di Vincent dietro al microfono. Di traverso Daniel ci piazza dentro un bell’assolo di chitarra acustica che non sfigurerebbe in “The Division Bell” (“High Hopes” nello specifico).
La title-track, altra gemma di Patterson, alterna pieni e vuoti con una bel basso pulsante e tastiere sinuose che ricordano l’andamento strisciante di una “Set the Controls for the Heart of the Sun”, sebbene gli scenari dipinti dal bassista tendano all'apocalittico. “Feel” e “Destiny”, infine, sono ulteriori "saggi di interiorità in frantumi" che Patterson getta nel mucchio. La prima si fregia di un organo hammond in stile “Us and Them”: un po’ fiacca nel complesso, ma con un bell’urlo watersiano a destare dal torpore e un montare di chitarre nel finale che richiama certe dinamiche di “The Wall” (a venire in mente è la marziale “Waiting for the Worms”). La seconda, nella sua brevità, poco aggiunge al tutto, se non qualche sfumatura gotica che anch’essa troveremo nella produzione discografica successiva del Nostro.
Da parte sua Daniel si rende autore di brani coerenti con gli umori “esistenziali” dell’album, prediligendo una musicalità più convenzionale, ma che comunque continua a guardare ai Pink Floyd. “Fragile Dreams”, destinato a divenire il classico più longevo della band, è un gothic-rock in linea con quanto fatto nei medesimi anni dai colleghi Paradise Lost e Tiamat (insieme ad “Emply” è l’episodio meno pinkfloydiano). “Inner Silence” apre il lato B facendo da specchio all’opener “Shroud of False”, con un testo breve, appena sussurrato, ed una seconda parte strumentale, dove le chitarre tornano protagoniste nel tessere melodie degne degli “Anathema che furono” (con il fantasma di Gilmour che continua ad aleggiare). “Regret”, nei suoi (quasi) otto minuti, è il momento più composito del lotto e se la gioca con “Lost Control” per la palma di brano più bello dell’album: una avvincente ballata con chitarre arpeggiate ed un organo hammond che sembrano uscire direttamente da “Animals” (“Dogs” è questa volta il miglior termine di paragone), ravvivata dal canto amaro di Vincent, che in più di un frangente sembra voler fare il verso a Roger Waters.
Menzione a parte merita la trascurabile “Re-Connect”, unico brano firmato da Vincent, il quale, fra i vari spunti, sembra citare il Syd Barrett di “Astronomy Domine” (a dimostrazione di come la band abbia voluto pescare un po’ da tutte le stagioni dell’epopea pinkfloydiana).
Fatta questa eccezione, la partita si conclude, da un punto di vista quantitativo, con un 6 a 3 per Patterson, dove però Daniel compensa dal punto di vista qualitativo con brani ispirati e di alto livello compositivo: da queste premesse proseguirà il cammino degli Anathema, destinati a percorre la via di un rock progressivo sempre più sofisticato nella forma ed efficace nel comunicare sentimenti. La componente pinkfloydiana non verrà rinnegata: la band infatti continuerà a battere il filone gilmouriano, fatto di splendide ballate, commoventi interventi solisti della chitarra e passaggi dalla grande carica visionaria. Vero è che tale componente verrà ridimensionata per fare spazio ad altri input: uno su tutti, i Radiohead di “Ok Computer”, “Kid A” ed “Amnesiac”, stella polare per gli Anathema a partire dal successivo “Judgement”.
In un certo senso questo processo di affrancamento dall’ascendenza pinkfloydiana gioverà alla band, che sarà in grado di sopprimere quel “citazionismo” che ha rischiato di soffocare la libera espressione della personalità, e che invece non ha risparmiato la gestazione artistica di Patterson nel suo cammino al di fuori degli Anathema. Egli infatti continuerà a rielaborare la medesima formula di “Alternative 4”, prima con gli Antimatter, poi con gli Alternative 4, condensando gothic-rock, elettronica e reminiscenze pinkfloydiane: un percorso a tratti esaltante, ma che non troverà spazio in questa nostra rassegna in quanto maturato al di fuori del perimetro del metal.