Fare le “corse all’indietro” per
individuare chi o che cosa sia stato il primo a creare determinate sonorità non
è un esercizio particolarmente divertente. Né molto interessante.
Ma per esporre (finalmente!) la
lista dei dieci album glam metal, e chiudere la relativa Anteprima, non credo si possa fare a meno di andare a
parlare di quel genere, figlio degli anni settanta, che può essere considerato il
“papà” musicale del Glam, vale a dire il Glam Rock. Questo perché,
obiettivamente, i gruppi Glam degli anni ’80 si ispirarono direttamente ad
esso, riprendendone le caratteristiche musicali e riproponendole con un sound
più moderno e aggressivo.
Si potrebbe parlare perciò, ma non è il nostro focus, dei principali esponenti
di questa corrente nata in Inghilterra alla fine degli anni ’60 e che aveva in David Bowie e nei T-Rex di Marc Bolan i propri artisti di punta. Proprio l’ex
modello, morto in un incidente stradale non ancora trentenne, fu il primo
infatti a indossare sgargianti vestiti con lustrini, scialli piumati,
improbabili cilindri inghirlandati e un make
up vistoso. Caratteristiche che portavano inevitabilmente in secondo piano
la musica, quasi a volerci dire che la sostanza di essa combaciava con la
superficialità dell’immagine.
Negli Stati Uniti, al di là del
c.d shock rock di Iggy Pop e dei
Kiss, però ci fu un gruppo assolutamente straordinario, snobbato inizialmente
dalla critica che, miope all’inverosimile, li definì una copia sbiadita dei
Rolling Stones, ma che invece fu assolutamente seminale, sia musicalmente che
esteticamente, per la nascita di tanto rock e metal del futuro. I New York
Dolls.
Il loro omonimo album di debutto,
pubblicato nel 1973, sarà rivalutato solo molto dopo dalla critica
specializzata, tanto da entrare nella lista dei più importanti album di tutti i
tempi stilata dalla rivista Rolling Stone.
Mi espongo subito: “NYD” è un
capolavoro assoluto. Lo definisco tale perché, rimasticandolo, anche a distanza
di molto tempo da un ascolto all’altro, rimane di una freschezza assoluta, di
un’audacia concettuale raramente riscontrabile per quei tempi.
Il mix proposto è infatti davvero
difficile da descrivere, dato che al suo interno, in un connubio quasi
sacrilego e incestuoso, ci troviamo tanto blues, con l’utilizzo di pianoforte,
tastiere, sintetizzatori; un rock rollingstoniano
e ipervitaminizzato (sulla scia di quello che avevano fatto appena un paio di
anni prima i “padrini” putativi delle Bambole newyorkesi, i Motor City 5) e un qualcosa che all’epoca non si
definiva ancora, ma che di lì a quattro anni sarebbe scoppiato grazie a un paio di
ragazzotti inglesi decisamente fuori di testa, certo Sid Vicious e certo Johnny
“Rotten” Lydon, e un album, “Never mind the bollocks”, che qualche traccia
nella storia della musica avrebbe lasciato…
Si, perché non c’è gruppo
fondamentale in ambito punk/rock che non sia stato influenzato in qualche modo
dai NYD, influenza che da questi gruppi sarebbe stata pienamente riconosciuta.
Dai Kiss, che avrebbero debuttato l’anno successivo con il disco omonimo, ai
contemporanei Aerosmith (anch’essi usciti nel ’73 con il self-titled album),
per passare appunto ai seminali gruppi punk, Ramones, Pistols e Dead Kennedys in primis.
Per arrivare poi sia ai
“nostri” gruppi Glam metal anni ’80 che oltre, agli anni ’90, durante la prima
metà dei quali una serie di formazioni di grandissimo successo commerciale
(Green Day, Weezer, NO FX, The Offspring, Rancid, The Queers) riportarono in
auge il punk rock a chiare tinte melodiche (una tipologia di sound già
sperimentata dai NYD nelle celebri songs “Trash” e “Private world”, tanto
semplici quanto trascinanti con i loro cori beat).
Insomma era già tutto lì,
racchiuso in quel dischetto di 43 minuti scarsi.
L’album è pieno zeppo di anthem che faranno la storia del rock e
del punk, a partire dall’opener “Personality crisis”, un inno rock-blues, la
canzone sicuramente più famosa del combo, stracoverizzata negli anni successivi
da decine di band, in cui tutta la verve e il carisma dei NYD, capitanata
dall’istrionico David Johansen (fisicamente una versione meno “scimmiesca” di
Mick Jagger e stilisticamente molto vicina al buon Mick, sia per le movenze sul
palco che come timbro vocale) si esprime in tutta la sua sporcizia trascinante,
accompagnata dal chitarrismo vario e fumante di Sylvain Sylvain, autore della
prestazione anche al pianoforte. La canzone ti prende subito per le palle, ti
acchiappa cuore e viscere, scuotendoti nel profondo. E’ solo l’inizio di un
vortice pazzesco che non mollerà la presa fino all’ultimo secondo di musica.
Tutti i brani, ad eccezione della
sola “Lonely planet boy” che spezza un po’ la furia del disco (e in cui fa
bella mostra di sé una sezione di sax), sono duri e veloci, senza sosta, seppur
vari nelle ritmiche. Si va da pezzi più mid tempo,
ma carichi comunque di energia e potenza (“Looking for a Kiss” o la cover in
acido di “Pills” del guru di Chicago
del Rock n’ Blues degli anni ‘50 e ’60, Bo Diddley) a vere e proprio bordate
proto-metal (“Frankenstein”, “Subway train” e la mastodontica conclusiva “Jet
boy”).
Menzione doverosa per la
strepitosa “Vietnamese Baby”, unico brano scritto interamente da Johansen, con
le chitarre sporche al limite del grunge (ma quasi vent’anni prima) e per “Bad
girl” forse il pezzo più duro del lotto e con maggiori accenni a quel punk
ancora a venire.
Se a questo mélange sonoro davvero unico ed esplosivo, condito da un’aura
sempre avvertibile di auto-ironia e da un mood
volutamente ludico, unite l’immagine androgina e spiccatamente glam con gli
immancabili stivali dai tacchi altissimi, le capigliature stra-cotonate e il
trucco pesante, si capirà da dove proviene tutta la genie di gruppi glam metal degli anni ottanta.
La copertina del disco è programmatica ed emblematica,
con tutti quegli ammiccamenti, quegli sguardi lascivi, quelle pose sexy, con un
rossetto che lascia una scia rosso-sangue dopo aver vergato il nome della band.
Stilemi estetici che verranno ripresi anche negli anni ottanta (basti pensare,
ad esempio, alla cover di “Look what the cat dragged in” dei Poison).
E’ per
tutti questi elementi che mi verrebbe da dire che il Glam metal sta a “New York
Dolls” come il fiume Po sta al Monviso! Un album enorme, per
utilizzare un termine ciclistico, hors
catégorie, “fuori categoria”. Nel nostro caso, fuori classifica…
Incomprensibilmente (o forse no??
Erano troppo avanti, probabilmente…), rispetto ai principali gruppi Glam metal del futuro, i NYD
non ebbero lo stesso successo. Anzi. Nel breve volgere di un paio di anni la
band, dopo il buon “Too Much Too Soon” (secondo album dal profetico titolo…) e
il live “Red patent leather” si
sciolse nel 1977, lasciando quasi simbolicamente il testimone alla nascita del
punk e agli esordi col botto, in quell’anno come detto, dei Sex Pistols e dei
The Clash.
Puntualizzato quindi da dove
arriva il Glam Metal, possiamo ritornare dieci anni più avanti, a quel 1983 che
abbiamo preso come punto di inizio della nostra analisi.
Stavolta si comincia per davvero…
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Conclusioni
Capitolo 1
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Capitolo 4
Capitolo 5
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