"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

14 giu 2015

IL DITO NELLA PIAGA - UNA TEORIA SUL DEATH METAL


“Il più grande mistero della vita è che essa è governata unicamente da gente morta”
(da "Inferno" di Dario Argento)

I confini del Death vanno ricavati innanzitutto risalendo al periodo in cui è nato. Ad esempio una differenza tra Death e Black, individuata a posteriori e su base stilistica, non aiuta a capire poiché all'epoca non si parlava di Black. Il Metal estremo era genericamente indicato come Thrash e più veloce e brutale del Thrash c'era il Grind.


Il Death iniziò sostanzialmente quando alcuni gruppi (poi vediamo se esce il primo...) cominciarono a trattare in maniera maniacale temi quali la morte violenta, la decomposizione, la malattia letale e la deformità. Contemporaneamente lo stile vocale si spostò verso il growl o altre varianti e rese i testi incomprensibili. La velocità, tutto sommato, non era una peculiarità del Death, anche perché il Grind di per sé andava anche più veloce e del resto alcuni dei gruppi che hanno fatto la storia del genere spaziavano da velocità sostenute ad altre rallentate (Death-Doom).

L'elemento comune, sia a livello di immagini che di lirica, era la necromania, ovvero la centralità delle tematiche di morte fisica, ma anche spirituale. Tavolta la morte spirituale sembra il vero messaggio, con le immagini fisiche a fare da metafora. Questo aspetto della morte spirituale è cruciale, perché altrimenti, se si prende come elemento centrale il macabro, non è possibile sostenere che i gruppi Death fossero una novità rispetto, ad esempio, agli Slayer di "Reign in Blood". Estremizzazioni, riduzioni, parossismi, ma non novità.


Uno dei primi dischi death, ovvero “Leprosy” dei Death, mette in copertina il lebbroso come esemplificazione della morte come via crucis di disfacimento inevitabile. Certo la metafora corporea è caratteristica del death, più o meno estrema, ma è metafora. Nel disco successivo i Death affronteranno temi sociali e morali, sempre con gusto macabro, sotto il titolo “Salvezza dell'anima”. Laddove la spiritualità sembra assente, è però rappresentata dalle divinizzazione del caos e in particolare il pantheon sumero e lovecraftiano. Il dolore è stato dell'anima, individuale o sociale, ed è questo il termine a cui ricondurre la metafora corporea.

Andrei un passo oltre: l'idea del death è quella della fine, dell'exitus, a partire dal processo che conduce alla morte. Prendiamo i titoli degli Obituary: “Lenta decomposizione” / “Causa del decesso” / “La fine di tutto” / “La morte del mondo”. Questi due elementi, ovvero lentezza e violenza, sono la definizione del concetto di fine: una rescissione della vita che avviene con una volontà violenta, ma con una serie di atti distruttivi o decompositivi che danno un respiro alla morte, per così dire, cioè ne dilatano i tempi permettendo di raccontarla, di descriverne lo svolgimento. Dove il Black parla di assenza, di niente, di vuoto come fine ultimo e principio generatore verso cui protendersi; il Death parla invece di morte da testimoniare ed interpretare. E' un po' come il rito di lettura delle viscere degli animali sacrificati, da cui gli aruspici ricavano previsioni sul futuro. Ma anche una riflessione su quello che era a partire dalle sue scorie: Mors magistra vitae, sembrano dire i gruppi Death.

Laddove il Black recupera la spiritualità, con piglio nichilistico, il Death rifonda la spiritualità a partire dalla testimonianza della morte. Il culto della morte, del resto, ha come scopo istintivo quello di ricondurre l'uomo all'unica certezza e cioè che non siamo qui per restare. La lettura della vita come “lenta putrefazione” fa quindi coincidere la vita con la morte: quello svolgimento della morte di cui parlavamo, e che il death descrive in ogni sua piega, non è solo l'agonia, la decomposizione, ma in senso lato è lo svolgimento del destino di morte che inizia con l'iniziare della vita.

I cimiteri sono il tempio della religione death. La carne e il dolore sono la comunione quotidiana. La spiritualità corrispondente al Death non è il nichilismo, in cui l'assenza è usata come cifra della definizione del mondo, dell'uomo e della vita; ma lo scetticismo, in cui ogni verità si disgrega, si scioglie, si disfa sotto la pressione della morte. Nessuna verità regge, è il presupposto del nichilismo, ma non è il nichilismo: manca il concetto di assenza, il risultato finale. Si potrebbe dire che il Death finisce quando le ossa divengono polvere; dalla polvere che si disperde con l'aria inizia il Black, il culto della non-materia, di ciò che è stato consumato e distrutto.

Se guardiamo il rudere di un edificio, il Death è il processo di invecchiamento e crollo, il Doom sono le macerie, il Black è la parte di edificio che non c'è più: come dicono i Carpathian Forest (Black), “in uno spazio io sono l'assenza”.

L'unico problema è che mentre il Black ha avuto diversi teorici consapevoli, la teoria del Death è meno facile da ricostruire, anche perché il Death stesso non nasce come movimento nuovo, ma come fase terminale del Metal. Per la precisione, ci furono due filoni principali, uno americano e uno svedese, che corrispondono anche a due fasi diverse del fenomeno: quella di consumazione e quella di spiritualizzazione della morte. Un gruppo per tutti, gli At the Gates, descrive con i titoli dei suoi stessi dischi la parabola spirituale: “Il rosso nel cielo è nostro” / “Con paura bacio la tenebra infuocata” (questo titolo potrebbe essere benissimo un titolo Black, se togliessimo “con paura”) / “I giardini del dolore” / “Malattia terminale dell'anima” / “Assassinio dell'anima”.

Nei primi anni '90, il Death Metal costituì la malattia terminale del Metal, che lo salvò dalla vita indegna a cui lo stavano destinando alcune tendenze di successo. Il sogno di una uscita dal ghetto accompagnò il Metal per tutti gli anni '80, ma poi di fronte alla consapevolezza dell'impossibilità di conciliare massificazione e qualità, un meccanismo di “apoptosi”, ovvero di “morte cellulare programmata”, intervenne a salvare il salvabile. L'assassinio dell'anima ("Slaughter of the Soul") è l'atto che segna il passaggio dalla morte osservata all'azione oltre la morte, che è il cuore della filosofia black. Sfiorata, ma non abbracciata.

Un problema serio dei gruppi death fu che questo loro carattere “terminale” ne limitava la longevità: si dissolsero abbastanza rapidamente, alcuni nell'arco di un disco. La forza che animava il Death era un gorgo autodistruttivo, che apparentemente non aveva sbocco, ma offriva spazio per esprimersi in maniera libera e definitiva, come nel titolo dell'unico EP dei Liers in "Wait Spiritually Uncontrolled Art”.

Si raggiunse con il Death Metal melodico anche il paradosso interno per cui il Death parlava anche di emozioni, desideri e vita, anche se per celebrarne l'illusione, la caduta e la morte: emblematico il titolo del primo brano di “The Gallery” dei Dark Tranquillity “Punish My Heaven”: “Dammi la luce, dal buio che non ha mai fine, l'alba non verrà mai, punisci il mio paradiso...”. Il brano inizia con la frase programmatica “noi siamo le dita distese che cercano di agguantare il vento”. Le memoria della vita scorre via nelle acque del fiume dell'oblio, il Lethe, una morte liquida, lacrimosa, umorale. Una morte non bella, non pietosa, non dolce: un dito nella piaga, il Death fu un dito nella piaga. Ecco, alla fine siamo arrivati alla giusta e sintetica definizione.

Una morte spirituale in cui non c'è quasi più traccia degli sbudellamenti (metaforici anche se compiaciuti) del Death americano, ma non per questo si muore di meno.

“Mi interrogo sulla vita anche se la morte è vicina e la mia perduta vita scivola verso la sua ultima fine” (Ophthalamia, "A Journey in Darkness"). 

A cura del Dottore