“Shades of God”
per i Paradise Lost è l’album che occupa una zona delicata nella loro
carriera: è il classico “anello mancante”, il “colpo a vuoto” della
gioventù a cui si cercherà di rimediare inconsapevolmente per tutto il corso
della vecchiaia. Un po’ come quella “notte in bianco” sulla spiaggia
tanti anni fa, in campeggio, e che ancora oggi ci fa tornare l’amaro in
gola.
“Gothic”,
uscito nel 1991, diverrà il manifesto del gothic metal nella sua
accezione death-doom, di cui i Paradise Lost sono considerati gli
iniziatori. Ma al di là del coraggio e di diverse buone intuizioni (inserti di
orchestra e incursioni di voce femminile) questo album fotografa una band
ancora acerba e non pienamente padrona dei propri mezzi espressivi. E’ vero che
la formula era rivoluzionaria, ma il sound rimaneva ancora troppo legato
al death: growl cavernoso, riff palesemente sabbathiani,
una semplicità esecutiva di fondo che ancora non descriveva quel potenziale che
la band avrebbe espresso in futuro.
“Icon”, del 1993
(appena due anni dopo), segna invece un brusco cambio di passo, tanto che
sembra partorito da un’altra band: voce pulita, composizioni dall’andamento
fluido, forme eleganti, l’ispirato chitarrismo di Greg Mackintosh
(il famigerato “wah-wah ad oltranza” che farà scuola), un afflato
melodico che permea i brani dal loro principio alla loro fine. Il successivo “Draconian
Times”, che rappresenta l'album della maturità (nonché il maggior successo
commerciale), non farà altro che mettere in bella copia le idee qui dispiegate.
Fra
i Paradise Lost di “Gothic” e quelli di “Icon” c’è dunque un abisso. “Shades
of God”, l’album “intermedio” (usciva nel 1992), non è però il ponte
che unisce le due sponde dell'abisso, ma un oggetto che vi precipita dentro.
I
Paradise Lost sono stati dei bambini precoci. Quei bambini che hanno
iniziato a masturbarsi in segreto e con una punta di vergogna, quando ancora i
loro coetanei si scambiavano le figurine. Con quelle titubanze che sono tipiche
della fase dell’adolescenza, si sono poi misurati con le prime
esperienze sessuali concrete. E da ragazzi vincenti quali erano riuscirono,
prima degli altri, ad “esplorare” zone inedite dell’universo femminile. Da
grandi sarebbero divenuti dei micidiali trombatori, ma prima di
guadagnarsi questa gran fama, ebbero l’immancabile esperienza maldestra, quella
fatidica notte sulla spiaggia, con quella ragazza bellissima, immersi in
quell’atmosfera speciale, dove tutto era perfetto, dove tutto doveva essere
perfetto, ma qualcosa andò storto.
Quella
notte porta il nome di “Shades of God”. Nonostante esso sia l’album con
cui io li ho conosciuti più di venti anni fa (ammazza come passa il tempo),
non mi ci sono affezionato. Averlo riascoltato l’altro giorno non mi ha portato
a rivalutarlo, in quanto ho riassaporato il medesimo disappunto che provai le
prime volte che lo ascoltai. Al di là della produzione, bruttina già all’epoca,
in esso i Nostri decisero di fare il classico passo più lunga della gamba.
Forti di accresciute competenze tecniche, guardarono ad altre soluzioni,
esplorarono nuove vie, provarono a comporre brani più lunghi (ben quattro
superavano i sette minuti) e maggiormente dinamici. Nick Holmes
sfoggiava un growl più espressivo, e, fra tutti, c’è da dire che egli si
rese responsabile della prova più convincente. Erano i brani che non
funzionavano e dietro al banco dell’imputato siede proprio il mastermind
Greg Mackintosh, reo di una discutibile prova alle sei corde. Troppi
riff, troppi cambi di tempo, un dispendioso (e poco personale) uso della
materia sabbathiana. Fatto sta
che i pezzi sono prolissi, e solo a tratti si illuminano, o per una linea
melodica azzeccata, o per un arpeggio messo al punto giusto. I giri di basso di
Stephen Edmondson e le lunghe escursioni acustiche a base di chitarra
classica concesse alla seconda ascia Aaron Aedy appaiono corpi estranei
all’interno di brani disorganici che, fra rallentamenti e ripartenze, non
sembrano avere né capo né coda.
Del
resto gli album dei Paradise Lost, per quanto validi, hanno tutti lo stesso
problema: accanto a brani bellissimi e decisamente riusciti, troviamo non pochi
episodi anonimi (o perché si assomigliano troppo, o perché poco ispirati e semplicemente
impiegati come filler) che costituiscono evitabili zavorre che
appesantiscono l'ascolto. Gli album dei Paradise Lost spesso partono a bomba, ma
nella seconda metà si sgonfiano misteriosamente. “Shades of God”
costituisce un’eccezione, in quanto non vi è una netta cesura fra brani belli e
brani inutili, in quanto questa inutilità è diluita all’interno di tutti i
brani.
Tutti
i brani tranne uno. L’eccezione nell’eccezione (che dunque riconduce alla
regola) è proprio la conclusiva “As I Die”, vertice assoluto della prima
fase artistica dei Paradise Lost, e sottile e pericolante ponte sospeso che
unisce le due sponde dell’abisso fra “Gothic” (capolavoro per un verso) e
“Icon” (capolavoro per un altro). “As I Die” è un brano bellissimo, breve,
coinciso, asciutto, essenziale, ma anche dinamico, variegato, dotato di un bel
ritornello e di belle melodie di chitarra, arpeggi, tastiere e voci femminili:
praticamente tutto quello che ci aspettavamo, ma che è stato condensato in soli
tre minuti e quarantanove secondi. Nella fatidica notte, quella passata
in compagnia di quella bellissima ragazza che ci rapì il cuore, una dea in
terra, incorniciata in quella incantevole spiaggia della nostra gioventù,
quella notte disastrosa in cui tutto improvvisamente andò a puttane, i tre
minuti e quarantanove secondi di “As I Die” sono stati la durata della brevissima
erezione che non bastò a coronare i nostri intenti.
I
Paradise Lost ebbero molto da imparare dagli errori effettuati in “Shades of
God”, che comunque conta un altro paio di frangenti positivi: l’opener “Mortals
Watch the Day” e l’altro singolo “Pity the Sadness”, guarda caso
brani non lunghissimi e dal buon mordente. Gli autori stessi continuano ancora
oggi, nelle interviste, a parlare di “Shades of God” con indulgenza,
perdonandone i limiti, e riconoscendo l’importanza di una canzone come “As I
Die” per gli sviluppi futuri del loro sound. Tornando alla nostra metafora, con
il tempo diverranno grandissimi trombatori, ma cambiando strategia,
ossia rifuggendo le lusinghe della carnalità e puntando su un approccio più
intellettuale. Il corteggiamento raffinato, quello che si fa in un ristorante
sofisticato, davanti ad un bicchiere di Porto, a parlare di Klimt e
della Yourcenar: azione finalizzata ovviamente alla penetrazione, ma
solo dopo aver alimentato il proprio ego ed acquisito la giusta sicurezza. Magari
con donne più adulte o complessate. I
Paradise Lost ripudieranno così la carnalità del metal più estremo ed avranno
successo, venderanno, diverranno i capofila di un movimento che si farà
gigantesco nel corso degli anni, detteranno standard, determinando di volta in
volta la moda da seguire.
Non
paghi di aver superato il death, ad un certo punto si vorranno lasciare alle
spalle pure il metal. Ma “One Second” (1997), l’album della svolta
elettronica, era già abbastanza vacuo di contenuti, in quanto dietro
all'effetto sorpresa e ai nuovi arrangiamenti, l’ispirazione latitava. Caduti
nella trappola dell’“evolversi a tutti i costi”, con il successivo “Host”
(1999) faranno ancora peggio: l’electro-pop di marca depechemodiana prenderà
totalmente il sopravvento, con l’inconveniente che Holmes, con l’estensione
vocale che si ritrova, fa venire presto il latte alle ginocchia; Mackintosh,
invece, si vedrà costretto a sacrificarsi quasi totalmente alla tastiere,
evitando di fare quello che gli riusciva meglio, ossia il chitarrista. La
seconda svolta dei Paradise Lost, a conti fatti, suona come se Rocco
Siffredi decidesse di abbandonare il porno per darsi al drammatico.
Con
la vecchiaia, però, si torna in parte bambini, ci si riconcilia con la propria
natura, non si ha più voglia di sostenere una parte e s'inizia ad avere dei
seri ripensamenti su certe dinamiche consolidate della nostra vita: il giro di
boa sarà “Believe in Nothing” (2001), ancora piuttosto “pop”, ma con
qualche chitarra robusta in più. A partire da “Symbol of Life” (2002) i Nostri
torneranno, prima a passetti incerti, poi a gambe levate, nei luoghi da dove
erano venuti. Dalle parti di “Draconian Times”? Naaaa. Essi si
ritufferanno nel famoso abisso, inseguendo la chimera dell’album doom-death-perfetto-ma-mai-pubblicato,
inseguendo niente meno che l’ombra di “Shades of God”, alla luce ovviamente di
una nuova consapevolezza: perché da vecchi, finalmente, si può fare, senza
remore, quello che ci riesce meglio e che ci piace di più (anche un po’ rinfrancanti
dal comportamento dei cugini My Dying Bride, che già da qualche anno
avevano fatto il drastico dietro-front che li avrebbe riportati
addirittura dalle parti di “Turn Loose the Swans”).
E
così, dopo anni che stai con la nevrotica che infine sposasti, con cui non fai
più sesso, ma ti becchi tanti bronci perché magari ti dimentichi di dar da
mangiare ai suoi fottuti gatti (tu che, fra l’altro, i gatti non l’hai mai
sopportati), ripensi con nostalgia a quella bellissima ragazza di quella
fatidica notte, inizi a capire di aver perso tanto tempo voltando le spalle a
quello che effettivamente desideravi. L’ultimo album, il fresco di uscita “The
Plague Within”, presenta così un sound assai simile all'album mai
uscito fra “Gothic” ed “Icon”, uno spazio impunemente occupato da “Shades of
God”. Un capolavoro, dunque? Ovvio che no, quei tempi sono passati, e non
torneranno. I Paradise Lost sono oggi degli ottimi mestieranti che vantano un
passato che permette loro di continuare ad operare nel pieno rispetto di tutti
i loro fan. I Paradise Lost, che son dei signori, non ci pensano minimamente a
registrare nuovamente “Shades of God” (soluzione adottata da tante altre band
non convinte della resa originaria di un loro vecchio lavoro), bensì continuano
a coltivare l’ambizione di essere-e-di-non-rifare. Eppure in cuor loro
lo sanno che questa operazione nostalgia non è solo figlia di una passione o di
una strategia commerciale, ma porta con sé la disperazione di voler tornare a
cogliere la grande occasione perduta: essere dunque i Paradise Lost che si è
sempre voluto essere, ma con l'inconveniente di non essere più giovani ed
ispirati.
Riaffiora
il ricordo di quella ragazza bellissima sulla spiaggia della gioventù. La parabola
artistica dei Paradise Lost ha lo stesso sapore delle vite di quegli uomini
che hanno una discreta vita sessuale, poi si sposano pensando che, ad un certo
punto, sia la cosa giusta da fare; uomini che dunque hanno figli, divorziano,
frequentano le chat, iniziano a farsi “massaggiare” in dubbi saloni di
benessere, poi ad andare a puttane; uomini che infine si risposano con una
ragazza giovanissima, cercando nelle sue carni giovini, nelle sue forme, nei
suoi occhi, nei capelli, nel viso, nello sguardo, quelli di Lei, specchio di
una perfezione sfiorata, di un’occasione perduta, di una gioventù che non
tornerà più.
P.S. Anche io, per sentirmi ancora fintamente giovane, potrei andare a comprare "The Plague Within", ma siccome sono un signore, più signore degli stessi Paradise Lost, non lo farò...