I 10 MIGLIORI ALBUM GLAM METAL
CAPITOLO 8: “APPETITE FOR DESTRUCTION” (21/07/1987)
In principio fu una T-shirt con
un immagine magnetica.
Poi venne la divina visione di una
bianca giarrettiera calzata da meravigliose gambe, lunghe più o meno un chilometro.
Infine ci furono le aspre liti e
gli accesi dibattiti tra compagni di classe.
Questi sono stati i tre passaggi
che mi portarono a conoscere i Guns n’
Roses.
Era il 1991 ed arrivavo in prima superiore a digiuno di musica
heavy. I miei ascolti, in campo estero, si limitavano a Dire Straits, Pink Floyd
e Deep Purple (per carità, tanta qualità, ma di certo mooolto parziale!). Ma
soprattutto, da anni, ai Queen. Ero un queeniano sfegatato, innamorato di
ogni cosa riguardasse la leggendaria band inglese.
Ma andiamo con ordine: la T-shirt
dell’incipit del post era quella di un mio compagno di classe alquanto "alternativo", che veniva in aula indossando spesso, appunto, la maglietta con
l’effige della copertina di “Use Your Illusion”: una cover che mi ha sempre
affascinato e che ho sempre trovato di grande impatto.
Le gambe da capogiro invece erano
quelle di Stephanie Seymour, ex
fidanzata di Axl Rose e protagonista del video di “November Rain”, la celeberrima ballatona progressiva che girava in heavy
rotation su MTV ed era mio appuntamento fisso alla tv la mattina presto, mentre
facevo colazione prima che uscissi per andare a scuola.
Scontato dire che mi innamorai perdutamente e follemente della Seymour (che all’epoca non sapevo neppure come si chiamasse…), anche perché quello che stava sopra le gambe era ancor meglio delle gambe stesse…
Scontato dire che mi innamorai perdutamente e follemente della Seymour (che all’epoca non sapevo neppure come si chiamasse…), anche perché quello che stava sopra le gambe era ancor meglio delle gambe stesse…
Ma io, come detto, ero un
queeniano doc: non so come e non so
perché si crearono nella mia classe due fazioni tra sostenitori dei Queen e
seguaci delle “Pistole & Rose”. Le liti, ricordo, erano profonde e noi queeniani venivamo tacciati di essere dei retrogradi e dei “passatisti”. Il gruppo del momento erano i Guns e chi non li ascoltava era davvero uno sfigato. Così, per non sentirmi tale, cominciai ad ascoltarli, partendo dalla fine, cioè proprio dal doppio “Use your illusion”, fresco fresco di pubblicazione.
Nonostante la musica del gruppo
californiano (peraltro nessuno dei membri originari era californiano…) mi intrigasse fottutamente non avrei mai ammesso che mi piacessero
più della mia amata Regina e, soprattutto, non avrei mai ammesso che Axl fosse un
cantante migliore di Sua Maestà Freddy, come qualcuno dei miei coetanei
arrivava incredibilmente, a sostenere. Questo no, non lo potevo
accettare! Axl aveva una voce a tratti calda, suadente, graffiante, ma per me,
abituato a Freddy, risaltava maggiormente la sua parte gracchiante e nasale.
Come si faceva anche lontanamente a paragonarli??
Ma al di là di questo non potevo nascondere a me stesso di essere rimasto stregato. Soprattutto da pezzi (in realtà meno pubblicizzati delle hits che spopolavano allora) come “Dead horse”,
“Locomotive”, “Dont’ damn me”, “Estranged”, che avevano una forza e una potenza
inusuali per le mie giovani orecchie.
Ma il meglio doveva ancora
venire. E arrivò andando a ricostruire a ritroso la discografia della band, ossia con l’ascolto del debut “Appetite for destruction” (già il
titolo è strepitoso!), oggetto del nostro presente capitolo.
Piccola premessa: per la nostra Retrospettiva sul Glam la scelta del disco che dovesse rappresentare al meglio
il 1987 non è stata facile per il sottoscritto. In quell’anno uscirono infatti
tre dischi fondamentali per il movimento: a maggio fu la volta del capolavoro
dei Motley Crue (“Girls, girls, girls”); ad agosto venne dato alle stampe
“Permanent vacation” degli Aerosmith; e a novembre infine il masterpiece dei Dokken, “Back for the attack”. Ma questi tre dischi ripercorrevano strade già
battute, sonorità che negli anni precedenti erano state già esaurientemente codificate. Dopo
vari anni dalla nascita del Glam/Hair metal qualcosa di nuovo doveva scuotere i
kids americani. E, per loro fortuna, arrivò AFD, contro il quale per il resto della
concorrenza c'era poco da fare. Non a caso, a posteriori, venne riconosciuto da
tutta la critica il miglior disco d’esordio hard rock degli interi anni
ottanta. E, per una volta tanto, parliamo di un’etichetta non esagerata.
Attenzione, Axl, Slash, Stradlin, McKagan e Adler non arrivavano da Marte: il loro era un sound derivativo sia della
scena hard rock settantiana (Aerosmith, ancora, su tutti, omaggiati nel successivo
“Lies” con la cover di “Mama kin”), che di tutta la grande tradizione rock and blues statunitense, le
cui radici vennero fatte prepotentemente riemergere nel songwriting del disco ma solo per poterle meglio stuprare con
un approccio punk e un mood malato, sporco, stradaiolo. Nasceva così lo Street/Sleaze Metal: un metal squallido, sordido, corrotto dalla
dura vita-da-strada.
Il cordone ombelicale con i
gruppi della prima ora del Glam non era reciso del tutto, assolutamente: con
essi condividevano senz’altro la predisposizione ad una vita ai limiti. Il
trittico droga+sesso+rock 'n’ roll, di cui i Motley Cure furono i più plastici
esempi della decade, veniva dai Guns se possibile ancor più esasperato e in
maniera smaccatamente auto-distruttiva. I 5 membri, con alle spalle passati
molto difficili e traumatici, sembrava quasi che volessero
diventare icone viventi di quella way of life. Si badi bene però: un approccio non costruito, ma derivante dalla vera vita fino ad
allora conosciuta da questi ragazzi, che all’epoca avevano un’età media di 25
anni ma con la pelle e l'anima già segnate abbondantemente dalle difficoltà dell'esistenza. E i testi delle canzoni sono infatti uno specchio fedele di queste esperienze
vissute in prima persona.
Un elemento, codesto, sicuramente di
forza ma a lungo andare anche di debolezza per la coesione della band, squarciata
dopo pochi anni da contrasti interni, liti furibonde e ambizioni
personalistiche; senza contare gli effetti fisiologici di questo stile di vita
che di certo non aiutarono la longevità del gruppo (il mio amico della T-shirt,
ad esempio, li andò a vedere a Modena dal vivo, supportati dai Suicidal
Tendencies e mi disse che Slash era talmente “gonfio” che sbagliò tutti gli
assoli…)
Passando all'aspetto prettamente musicale poi avevano in
comune col resto della Scena Glam l’urgenza comunicativa, senza fronzoli e
mediazioni. In questo disco di debutto infatti i Guns buttarono in faccia
all’incauto ascoltatore tutte le loro idee, quasi alla rinfusa, passando da
momenti di grande esplosione elettrica ad altri più riflessivi, da graffianti
partiture metalliche a dolci melodie cadenzate, ma sulla base di una modalità operativa di fondo sempre molto potente e violenta; in due parole molto metal!
Un platter che è la dimostrazione plastica di come un risultato meraviglioso e sorprendente non sia necessariamente la somma delle singole parti, magari non tutte eccelse. Descriverne i brani track-by-track sarebbe infatti un puro esercizio pleonastico e non renderebbe onore al tutto. Ognuna delle 12 tracce, dalla celeberrima opener “Welcome to the jungle” (il cui intro ancora adesso mette i brividi) alla splendida “Rocket Queen”, fa parte di un unico flusso sonoro, da ascoltare tutto d’un fiato in 53 minuti di pura goduria.
Un platter che è la dimostrazione plastica di come un risultato meraviglioso e sorprendente non sia necessariamente la somma delle singole parti, magari non tutte eccelse. Descriverne i brani track-by-track sarebbe infatti un puro esercizio pleonastico e non renderebbe onore al tutto. Ognuna delle 12 tracce, dalla celeberrima opener “Welcome to the jungle” (il cui intro ancora adesso mette i brividi) alla splendida “Rocket Queen”, fa parte di un unico flusso sonoro, da ascoltare tutto d’un fiato in 53 minuti di pura goduria.
Un album talmente perfetto nelle
sue imperfezioni, e talmente totalizzante nel suo approccio concettuale, che se
la band si fosse fermata a quest’unico disco per la storia della musica sarebbe stato lo stesso, talmente l’equilibrio,
musicale e di affiatamento tra i musicisti era perfetto. Seppur si leggeva già
tra le righe che quest’equilibrio reggesse su basi molto magmatiche.
E infatti fu così. Il suddetto equilibrio,
anche a causa di una personalità così folle e umorale come quella di Axl Rose,
si ruppe presto. In particolare l’ottimo batterista Steven Adler, per la verità
eroinomane incallito, venne allontanato e l’arrivo del tecnicamente insufficiente
Matt Sorum pesò non poco nel sound delle release
successive. La vita privata così sregolata e dipendente da sesso&droga
(Slash arrivò a dichiarare che dopo i concerti era talmente fatto che si
scopava “qualsiasi cosa si muovesse” senza rendersi conto di cosa fosse) da un
lato, come accennato sopra, li fece assurgere al ruolo di rock star planetarie,
ma dall’altro ne minò la stabilità. Irrimediabilmente.
Tant’è che dopo quella
che doveva appunto essere la loro opera
magna, gli oltre 150 minuti di “Use your illusion”, la band, totalmente
esaurita, morì (non voglio neppure prendere in considerazione quella cagata di
“The spaghetti incident?”, e se qualcuno obietterà che i Guns sono ancora in
attività, non lo ascolterò neppure…)
Quasi inutile quindi sottolineare
che i picchi compositivi che possiamo ascoltare su AFD i Guns non li
raggiungeranno più, se non altro a livello di full-lenght. Le “November Rain”, le “Civil War”,
le “14 years” e le “You could be mine” di UYI (per non parlare della cover di
successo planetario di “Knockin’ on heaven’s door” di Bob Dylan) sono
indubbiamente ottimi pezzi ma, forse perché sembrano un po’ costruite “a
tavolino”, o forse perché paiono espressione di una mania di grandezza davvero
fuori luogo, NON hanno nello spirito quel genio compositivo delle dodici
schegge impazzite di AFD, fresche portatrici di tanta rabbia e insoddisfazione
verso la propria condizione di outcast,
di reietti, di esclusi.
Ma, al di là di queste importanti
considerazioni, la musica maleducata, polverosa ed estremamente penetrante di
AFD era proprio quello di cui c’era bisogno nel 1987 per rinverdire il Glam
che, nella sua declinazione più “classica” aveva ormai detto quasi tutto
nell’arco degli ‘80.
Le bordate di “Welcome to the jungle”, “Nighttrain”, “Mr.
Brownstone” (un manifesto tragico e ironico allo stesso tempo degli effetti perversi della dipendenza da stupefacenti), “Paradise City” e "Sweet child o' mine", che assurgeranno di lì a breve a veri e propri
inni delle giovani generazioni, arriveranno a minare le sicurezze di un mercato,
specchio della società U.S.A., che si stava assuefacendo alla pericolosità e
trasgressività glam.
L’atteggiamento ludico ed edonistico dei vari Poison &
co., come avevamo già accennato nel nostro capitolo precedente, si va un po’
perdendo, per una maggiore accentuazione di quell’incazzatura punkeggiante che
brani come “It’ so easy”, “Think about you” e la splendida “You’re crazy”
esprimono appieno.
Un gruppo quindi, e un disco, che
ebbero (e tuttora hanno!) la capacità e il merito di entrare nell’immaginario collettivo
statunitense e non solo, riuscendo a esprimere una forza d’urto primigenia che
è prerogativa di pochi (tra i gruppi da noi trattati inserirei in questa
categoria solo i New York Dolls, di cui anche i Guns furono debitori, e gli Hanoi Rocks).
AFD è in definitiva una vampa enorme alimentata da una “fame di distruzione” senza eguali; una fiamma intensissima ma che ineluttabilmente bruciò troppo velocemente la candela
che la sorreggeva.