Qualche notte fa, svegliato dal
tossire di mio figlio, faticavo a riprendere sonno, e, come mi capita in queste
situazioni da quando esiste Metal Mirror, rimuginavo su qualche papabile tema
da approfondire per un post del blog.
La mente mi è andata quindi alla
splendida Retrospettiva sul Black Metal Norvegese del nostro Mementomori, che
mi ha dato l’occasione di conoscere album che non possedevo e di tornare su
gruppi che non ascoltavo da tempo. Tra questi, gli Immortal. Riascoltandone
l’intera discografia anni novanta, non posso che concordare sul fatto che
l’album migliore e maggiormente rappresentativo nell’ambito del Black norvegese
dell’epoca sia stato lo splendido “Pure Holocaust”. Ma emozionalmente, e quindi
affettivamente, sono forse ancor più legato ad “At The Heart Of Winter”.
Così
mi chiedevo? Quanto sono importanti nella Storia di una Scena quei dischi,
come il succitato, che escono apparentemente “fuori tempo massimo"? Cioè quando
un Genere ha già detto quasi tutto, quando i suoi capolavori
immortali (gioco di parole non voluto…sorry) sono stati già composti,
pubblicati e riconosciuti tali da tutti? E quando ormai la maggior parte di quegli
stessi gruppi si sta ingegnando per superare i confini del genere stesso
proponendo un sound che “rompe” col passato?
ATHOW è uscito a fine 1999,
quando la Norvegia era sì ancora leader del Black mondiale, ma più per l’affermazione
della sua versione Symphonic che non per la riproposizione dello stile della
prima metà della decade! Tra il 1997 e il 1998 erano infatti usciti una caterva
di album che avevano segnato il sotto-genere, decretandone la fortuna tra fans
e critica: da “Enthroned darkness triumphant” dei Dimmu Borgir a “The pagan
prosperity” degli Old Man’s Child; da “Anthems to the welkin’ at dusk” degli
Emperor ad “In abhorrence dementia” dei Limbonic Art, sempre per rimanere in
terra norvegese. E la lista potrebbe continuare.
Ora, si sarebbe potuto anche
capire se gli Immortal, dopo il flop di “Blizzard Beasts” (1997), si fossero
buttati in quel 1999 nel calderone sinfonico, provando a “evolversi” in quel
filone. Ma Abbath non la deve aver
pensata ugualmente e, anzi, imbracciata anche la chitarra lasciata vacante dal
fido Demonaz, vittima di un’acuta tendinite che lo impedì fisicamente nel
suonare (ma non lo limitò nel dare il suo contributo per i testi), se ne uscì
con ATHOW che è un album a mio modo di vedere geniale e bellissimo, perché
rappresenta di certo un’evoluzione del sound ma non verso quello che ci si
poteva aspettare. Se da un lato infatti gli Immortal non abbandonano del tutto gli
stilemi black dei primi album in puro norwegian
style (sono presenti furiosi patterns di blast beat, arpeggi in piena
distorsione, il rantolo agonizzante e riconoscibilissimo di Abbath, ecc.), dall’altro
questi stessi elementi sono messi in minoranza da altre caratteristiche direttamente mutuate dal
Thrash e, udite udite, dal Death, spesso di stampo melodico. Già, il buon Olve
deve essere rimasto colpito e affascinato da tutto il melodeath di matrice svedese (aaahh, bellezza!! Come del resto non
rimanerne ammaliati??!) e, assimilatane la lezione, l’ha usata per corroborare
il suo sound con robusti inserimenti di partiture che, come si può denotare già
dalla opener track, la superba “Withstand the Fall of Time”, strizzano sovente
l’occhio ai Dark Tranquillity del capolavoro “Skydancer”. Ma, al di là di rimandi e influenze, la qualità del
songwriting è talmente alta per tutta la durata dell’album che queste
considerazioni contano poco e niente.
Tutti i brani del disco sono
piuttosto dilatati, il minutaggio dei pezzi è molto ampio per gli standard del
genere (appena 6 canzoni per 46 minuti totali), ma la noia non fa mai capolino,
grazie soprattutto ai numerosi cambi di tempo e a un rifferrama straordinario e
incalzante, che satura il sound facendo rifulgere di luce propria ogni brano, distinguendo gli uni dagli altri. I Nostri si permettono persino diversi
momenti di quiete riflessiva, come in “Solarfall” o nella monumentale “Tragedies
blows at horizon”, il brano più lungo del disco; mentre nella title track i primi due minuti, con
l’utilizzo di arpeggi in clean e
synth eterei, sembrano essere presi in prestito da Mortiis e dal suo ottimo
“Anden som gjorde oppror” (1995), prima che l’elettricità torni ad essere
protagonista.
Note di merito poi sia per la splendida
copertina, opera dell’illustratore free lance J.P. Fournier, che, oltre a
presentare un logo finalmente leggibile, abbandona la classica foto in bianco e
nero con i volti dei membri della band, prediligendo una di stampo fantasy che
veicola perfettamente il messaggio del titolo del platter (oltre ad avere un
flavour epico davvero potente); e poi per la produzione che è molto pulita e
precisa (al contrario di “Blizzard Beasts”), dando risalto e corposità a tutti
gli strumenti, persino al basso!
Del resto non poteva essere diversamente
dato che dietro la consolle c’era un certo Peter Tagtgren; una produzione che
forse fa perdere un pizzico di oscurità e malvagità al mood generale, ma che consente al sound di acquistare in corposità,
fruibilità e, a dispetto del titolo, calore.
A proposito, la batteria non è
affidata al fai-da-te di Abbath come
in “Pure Holocaust” o “Battles in the north”, ma è affidata ad un
professionista con le contropalle, quell’Horgh che proprio Tagtgren, dopo
averlo visto all’opera, si porterà dietro nei suoi Hypocrisy di lì a qualche
anno; Horgh è un bestione che spezza le pelli del drum-kit dal primo all’ultimo
minuto, con una varietà e una tecnica da primo della classe. E questo è un
altro valore aggiunto.
Insomma, tornando alla domanda
che mi ero posto: quanto sono importanti nel trascorrere degli anni, per un
determinato genere musicale, questo tipo di album? La risposta
che mi sono dato è che se da un lato non potranno essere inseriti in una lista
di dischi “rivoluzionari”, “seminali” o determinanti”, dall’altro, oltre
all’importanza soggettiva che risponde ovviamente ai nostri gusti personali, ve
n’è una ulteriore che è sintetizzabile nel concetto di “complementarietà”, cioè
di una sorta di consolidamento, e quindi credibilità, di un genere musicale,
capace, grazie ai suoi artisti di punta, di sfornare, anche a distanza di tanti
anni dalla sua nascita, dischi freschi, godibili e di spiccata inventiva.
Magari non dei capolavori, all’uso dei tardo-capolavori,
o quantomeno dei tardo-ottimi-dischi
(uhm...che brutta locuzione…).
Evolversi senza “tradirsi”: eterno dilemma degli
artisti. Non fare album in serie tutti uguali, cambiare ma al contempo
mantenere il proprio trademark. Prerogativa di pochi, prerogativa dei migliori.
E gli Immortal del 1999 dimostrarono di poter essere a pieno titolo inseriti
nella categoria.
Continuando a rimuginare nel
letto (di notte, al buio, i pensieri vanno alla velocità della luce), mi
chiedevo quale altro disco esemplificasse i concetti sopraesposti. E la mente
mi è andata ancora più indietro nel tempo, a i Dark Angel e al loro “Time Does Not Heal”, pubblicato nel 1991.
Il 1991…non so se mi spiego! L’Anno, con la “A”
maiuscola, del Death Metal! Praticamente il corrispettivo del 1986 per il Thrash
(quando peraltro i D.A. pubblicarono il tiratissimo e violentissimo “Darkness
descends” che li pose a pieno titolo tra i grandi del genere)! E l’”Atomic Clock”,
quel bestione immane di Gene Hoglan, cosa ti sforna a ben cinque anni da quel
1986 (un lustro nella Storia Metal è quasi un’eternità…)? Quasi 70 minuti di
grandissimo thrash sparato a velocità folle, pieno zeppo di riffoni tritaossa,
conditi da testi particolarmente conturbanti, in cui lo stesso fenomeno texano
riversa tutte le sue paturnie sessuali, i suoi dolori interiori, nonchè le
critiche al Potere politico e alla conformista società americana (come da
tradizione thrash, giustamente…). Certo, all’inizio l’album non se lo filò
nessuno, l’attenzione dei media non era più in California ma seguiva le next big things floridiane. Però, a
distanza di quasi 25 anni, chi non inserirebbe TDNH tra i capisaldi del
genere? Chi non ne riconosce l’importanza nonostante il suo anno di uscita? Canzoni
come la title track, “Pain’s invention, madness”, “The new priesthood” e la
conclusiva, terribile, “A subtle induction” sono quanto di meglio il thrash
americano abbia prodotto, quantomeno da “Seasons in the Abyss” in poi. Insomma,
un altro “tardo-capolavoro” a tutti gli effetti…