Per descrivere in maniera adeguata una esibizione dei Sunn O))), e soprattutto spiegarla a chi non vi ha mai assistito, bisogna
distinguere anzitutto fra un "prima" ed un "dopo".
Durante e dopo c'è la musica, c'è l'esperienza, ci sono le
emozioni, ma prima di esse ci sono le chiacchiere, il gossip da red
carpet, la sociologia spicciola o la semplice enunciazione di paradossi.
Il primo paradosso è che è il 21 marzo, il primo
giorno di primavera, e ci accingiamo a celebrarlo con l'esibizione di una delle
entità più oscure e meno primaverili del mondo della musica.
Il secondo è che i Sunn O))), punta di diamante dell'odierno
metal estremo (per certi aspetti, i più estremi degli estremi, con in più Attila Csihar, l'Artista dall'Estremo per eccellenza, vuoi anche e soprattutto
per la sua militanza nel più grande e seminale ed estremo act black metal
di tutti i tempi, ossia i Mayhem), si esibiranno al Barbican Centre, che
non è proprio una bettola per metallari, bensì il più grande centro teatrale d'Europa, nonché imponente centro espositivo
dedicato all'arte contemporanea. Cosa che a regola non ci
dovrebbe stupire più di tanto, tenendo conto che oramai Greg Anderson e Stephen
O'Malley (per reali meriti artistici o mero opportunismo, questo spetta a voi
deciderlo) sembrano sempre più addentrati nel regno dell'avanguardia,
nonostante la brutalità della loro proposta.
A stupirci semmai (terzo paradosso!) è che l'evento è sold
out: io che sapevo da mesi dell'esibizione dei Sunn O))) al Barbican (fra
l'altro a cinque minuti a piedi da dove abito!), io che lo scorso gennaio sono
riuscito a vedere i Black Sabbath (i Black Sabbath!!) per il loro tour
d'addio (l'ultimo!!!) senza particolari menate, mai e poi mai avrei potuto
prevedere che un duo dedito ad un genere di ultra-nicchia e con un seguito principalmente
nutrito da esponenti delle frange più estreme del metallo pesante, potesse
registrare il tutto esaurito…in un teatro! Evidentemente l'hype
creatosi intorno ai Sunn O))) travalica gli ambienti metal e si insinua nei salotti
in cui si parla di installazioni e performance d'avanguardia, finendo
per configurare l'ensemble americano come qualcosa che non è solo
musicale, ma artistico a tutto tondo.
Passiamo dunque alla sociologia: potremmo
parlare del tizio grasso pelato con barba esagerata e maglietta con spirale, ma
costui non fa più notizia, anzi, ci stupiremmo se non ci fosse gente come lui.
Potremmo parlare del personaggio in stampelle (capelli lunghi riccioli sfibrati
e scarpe da tennis a stelle e strisce - parrebbe quasi Kirk Hammett se
Kirk Hammett fosse finito sotto il bus al posto di Cliff Burton…) che
arranca nella spaziosa e silenziosa hall per raggiungere la
biglietteria: ma nemmeno lui, alla fine, fa notizia, perché i casi umani del metal
sono il sale necessario per eventi come questo. Potremmo parlare della
giapponese con i capelli blu, del mingherlino con gli occhi a mandorla nero
vestito, con borsetta e capello da emo, ma perché sorprendersi?, non siamo forse
al Barbican?, immersi nella crème de la crème dell'intelligentia
londinese? Potremmo però menzionare il ragazzino (capello corto, occhialini da
secchione, look da Harry Potter) sul divano che legge un libro di
Hegel, e forse qui magari un campanello d'allarme si potrebbe accendere
sul fatto che non è proprio tutto nella norma. E come tacere della vecchia (o,
tutt’al più cinquantenne che porta male i suoi anni, con i capelli grigi
e la coda di cavallo) con la maglietta dei Wolves in the Throne Room? O
del ragazzo di colore dai capelli rasta con la maglietta degli Enslaved?
Insomma, si sarà capito, la platea è variegata, in prevalenza maschile, in
quanto i pochi esemplari femminili, spesso al seguito di buzzurri di una certa
imponenza fisica, sembrano essere qui per caso o per cortesia, probabilmente
ignare di quello a cui dovranno assistere.
Da notare che sto notando tutte queste cose mentre
sono nella fila degli sfigati senza biglietto in attesa che tornino disponibili
i posti dei rinunciatari dell’ultimo minuto (nell'attesa snervante ammazzo il
tempo leggendo un articolo sui Take That in una rivista gratuita
capitatami fra le mani, ed anche questo, volendo, potrebbe essere un
paradosso...). Insomma, alla fine la Madonna della Brutalità mi
vuole bene e riesco ad accaparrarmi l’agognato rettangolo di cartoncino.
Siederò dunque sul balcone, un po' lontano dal palco, ma centralissimo: una
posizione che si rivelerà ottimale, garantendomi una bella vista dall'alto e
completa del palcoscenico. E soprattutto tenendomi ben distante dalle bordate
sonore dei Nostri. Già: all'ingresso distribuiscono gli immancabili tappi
per le orecchie, che accetto con indifferenza, più come un orpello di
marketing che come strumento necessario per la salvaguardia dell’udito.
Silenzio, le luci si spengono. A fare da spalla ai
protagonisti della serata, troviamo questa ragazza dal nome impronunciabile,
tale Hildur Guðnadóttir, violoncellista ed anch'essa dedita al verbo
dronico. Un esile cono di luce separa la musicista dall’oscurità totale.
Anche il silenzio è totale. La gentil donzella parte intonando una nenia vocale
che fa molto "folk arcano" e poi prosegue con una
perlustrazione sonica (direi ambient) lenta e riverberata per mezzo del
suo strumento, che suona inquietante e potente, aiutato da qualcuno dei molti
amplificatori stanziati alle sue spalle: insomma, venticinque minuti di niente
che scorrono via come una puntata dell'A-Team…
Durante l'esibizione il tasso di concentrazione è altissimo,
tanto che uno spettatore viene rimproverato perché maneggiava un cellulare e
due ragazzi, che chiacchieravano tutto sommato educatamente, richiamati
affinché tacessero. Volendo anche questo è un paradosso: ci si accinge ad ascoltare
la band più rumorosa del mondo e ci si indigna per il minimo sussurro? Ma
vi dirò: anche io ho provato fastidio innanzi alla più insignificante fonte di distrazione.
E’ come se i Sunn O))) fossero riusciti laddove Queen e Blind
Guardian hanno fallito con i loro rispettivi "A Night at the Opera":
portare i bifolchi a teatro!
Ma tutte queste sono e rimarranno cazzate. Cazzate destinate
ad essere spazzata via dalla forza dell’esperienza che ci apprestiamo a vivere:
l'oscurità cala ancora una volta, il momento tanto atteso è finalmente giunto…
E' buio totale, dal nulla inizia a materializzarsi
una voce cavernosa che recita versi in una lingua sconosciuta. Una
colonna di fumo, trafitta da suggestive luci rosse, si alza e oscilla con
lentezza, delineando i contorni di un'ombra nera, un uomo incappucciato: Attila
Csihsar è fra di noi. I primi sette-otto minuti son tutti suoi e la sua
inquietante invocazione, fra mantra vedici, cori gregoriani
e sospiri satanici, è semplicemente magistrale.
Da “lontano” iniziano a subentrare i feedback
vischiosi delle chitarre, presto raggiunti da ampi e profondi accordi doom.
I ricami minimali del moog smussano il metal torvo dei Nostri con
delicati contorni electro-jazz-ambient. Nel frattempo le luci rosse si
diramano sugli altri componenti, tutti rigorosamente incappucciati: in mezzo Tos
Nieuwenhuizen al moog, ai lati Anderson ed O’ Malley, ai margini un altro chitarrista e Stephen
Moore, che si destreggerà fra trombone ed altri strumenti che è difficile
distinguere nella semi-oscurità.
E' difficile descrivere a parole quello che accade sul
palco: i suoni grevi e minacciosi sono un tutt'uno con le immagini. Cinque/sei
ombre nere si aggirano per il palco, avvolte nella coltre densa di una
nebbia che si muove lentamente e in modo circolare, in perfetto stile
cimiteriale. Anderson e O’ Malley accompagnano con gesti ampi e solenni le lunghe note dalle basse frequenze e spesso sollevano le chitarre come se
fossero oracoli. Pare di assistere ad un rituale pagano: niente altro,
oltre la parte illuminata del palcoscenico, sembra esistere. Gli enormi
amplificatori sovrastano la scena da dietro, come enormi e minacciosi
monoliti, tanto da ricordare paesaggi ancestrali, mitici come quello di Stonehenge.
A venire in mente, non a caso, sono le sequenze iniziali di "2001:
Odissea nello Spazio", ma questo non è l'unico riferimento al maestro Stanley
Kubrick che mi si è palesato durante l’esibizione. Impossibile,
infatti, non pensare anche alla scena madre di "Eyes Wide Shut":
il salmodiare di Attila la ricorda incessantemente, tanto che, almeno per
stasera, potremmo definire i Sunn O))) come una sorta di Ligeti in
versione metal brutale, avvicinandosi di fatto a certi stilemi di musica
classica contemporanea. Ok, anche guardando "laicamente" la
faccenda, il tutto è dannatamente suggestivo e, data la carica visionaria dello
show (ottimo l’utilizzo delle luci!), quasi sembra
di vivere un’esperienza in una dimensione che non è la nostra.
Per quanto riguarda la musica, o meglio, il materiale
proposto, riconosco frammenti estratti dall'ultimo “Kannon” (il più
saccheggiato), da "Monoliths & Dimensions" (la loro opera
più celebrata e sicuramente quella che li ha fatti conoscere fuori dagli
ambienti del metal) e da "Black One" (molto importante anch'esso in quanto l'album che aveva spalancato le porte verso il black metal). Logico che i Nostri non riproporranno in modo fedele le
composizioni così come sono state registrate in studio: per capire l'evolversi dello
spettacolo è dunque più utile descriverlo in termini di movimenti. Io ne
avrei individuati circa quattro.
Il primo è quello che ho appena descritto, ossia l'inquietante introduzione
(una iper-dilatata "Kannon 3") che ci ha condotto dal silenzio (e l’esibizione della violoncellista ne è stata
la giusta premessa) al più classico super-doom dei Nostri, con Attila in
prima fila ad officiare la "messa".
Segue poi un corpus centrale in cui le sensazioni si
stabilizzano all'interno di un magma sonoro che al profano
sembrerebbe frutto di sola improvvisazione. Incontreremo le chitarre
ronzanti della superba "CandleGoat" (direttamente dal già citato "Black One") e persino un trombone dal gustoso sapore jazz (il giro è quello
sornione di “Alice” da "Monoliths & Dimensions"): spunti che
impreziosiscono una performance che non ammetterà il minimo calo di
tensione, grazie anche al sapiente dosaggio di pochi ingredienti. In questi
suoni sferraglianti, colgo finalmente l’anarchia e la violenza deragliante di
quell’hardcore old school di cui Anderson ed O’ Malley sono
insospettabili ammiratori. Nei lunghi momenti in cui non canta, Attila continua
a presenziare stoicamente sul palco in veste di mesmerico figurante, accompagnando
i lenti movimenti delle chitarre con altrettanto lenti movimenti di braccia.
Verso il quarantatreesimo decido di mettermi i tappi alle orecchie,
perché i volumi, tollerabili in principio, nel persistere iniziano a rompere un po’ il
cazzo.
Segue poi il Gran Finale, o quello che poteva (e
doveva) essere la degna conclusione del tutto. In questa fase torna
protagonista Attila, ma è tutto l'ensemble che si mostra in gran forma, ergendosi
compatto ed apocalittico più che mai. Da brividi i momenti in cui le chitarre
di Anderson e O’ Malley si incontrano ed accompagnano in accordi che più
affossanti non si può. Ad aggiungere gloria alla gloria, in questa catarsi
sonora, due scene a dir poco memorabili. Prima i componenti del gruppo si
scambiano, fra il fumo e la semi-oscurità, una bottiglia di vino, che viene
sorseggiata con grande solennità, come a completare la celebrazione di un rito.
Poi, ma forse in molti non ci avranno fatto caso, l'uscita di scena di Attila,
che a fatica striscia via in un varco che era stato lasciato libero fra gli
amplificatori alle sue spalle. Nella coda di distorsioni brucianti poteva
consumarsi il giusto commiato ad una esibizione a dir poco perfetta.
Ed invece i Nostri hanno voluto esagerare, forse con il
sadico intento di devastare psiche e timpani a tutti coloro che pensavano di
assistere ad una normale performance di arte contemporanea. Ma in fondo, data la circostanza, l'esagerazione va accettata come una parte irrinunciabile del pacchetto concettuale. Quindi apprestiamoci a soffrire con questa ultima annichilente fase. Senza che un
istante di silenzio riesca a filtrare fra i suoni saturi ed asfissianti dei
Nostri, Attila fa nuovamente il suo ingresso sul palco, indossando questa volta
un curioso costume costellato di lunghi pungiglioni e con il microfono che
proietta lunghi raggi laser rossi (in effetti, un po’ una caduta di
stile…). Il suo registro vocale si fa decisamente black, acuto, stridulo,
e le sue urla lancinanti sono fendenti che recidono il suono denso delle
chitarre (mi pare fra l’altro che il volume sia ancora più alto, o forse sono i
musicisti che suonano con maggior foga), alla stessa maniera di come i raggi affettano
le tenebre. Il caos è però eccessivo, anche per me: i tappi oramai fanno ben
poco e i bassi giungono sotto forma di vibrazione scuotendo le poltroncine a
cui siamo quasi aggrappati. Attila è in ginocchio e si spreme fino a quasi
spirare, gli altri si lanciano in un crescendo di immani proporzioni.
Poi tutto finisce. Segue
una lunga standing ovation, dove tutti si spellano letteralmente le mani
di applausi e qualcuno addirittura si alza in piedi. Forse siamo esaltati
dall’esperienza appena vissuta, ma forse siamo anche un po’ sollevati dal fatto
che è finalmente giunta a termine quella che stava per divenire una tortura insostenibile
per le nostre orecchie. Gli artisti sul palco, abbracciandosi ed inchinandosi, si
godono visibilmente il bagno di folla, forse accennando anche dei sorrisi, mostrandosi
per la prima volta di essere anch’essi degli esseri umani.
Il battere delle mani giunge ovattato, il fruscio delle orecchie ci ricorda che siamo quasi sordi. Sordi ma felici…
Il battere delle mani giunge ovattato, il fruscio delle orecchie ci ricorda che siamo quasi sordi. Sordi ma felici…
1967, Velvet Underground - 2017, Sunn O))): apoteosi
della musica.