Ci torno sopra. Tanto ormai mi
sono sputtanato, quindi tanto vale…
Torno sugli Slayer. Perché
l’amore è grande e quando l’amore è così grande le delusioni che ne derivano sono ancora più
cocenti.
Per me gli Slayer sono e
rimarranno quelli dal 1983 al 1991, da “Show no mercy” a “Decade of
aggression”. Ci ho provato a farmi piacere
anche le altre pubblicazioni. Sono passati 23 anni e non ci sono riuscito.
Non mi emoziona nulla della loro
discografia da “Divine Intervention” a “Repentless”. Per carità, niente di
“vergognoso” o insufficiente. Ma di certo nulla di memorabile. Si ok, lì per lì
ci basta. Ma da qui ad esaltarci e ad emozionarci il passo è, ahimè, lungo.
Lo so, gli Slayer non andrebbero
neppure analizzati e/o recensiti. Vanno presi così come sono, tipo icone. Ce l’avete presente quando i
nostri amati nonnini ci raccontano per l’ennesima volta quell’episodio della
loro gioventù come se fosse la prima? E in realtà quella storia l’abbiamo
sentita non meno di cento volte? Ecco, mica gli andiamo a dire: “Nonno,
fermati: questa ce l’hai già detta!”? No, li si sta a sentire fino alla fine e
poi si ride di gusto.
Ecco, la stessa cosa per gli Slayer:
bisogna stare ad ascoltarli e apprezzare, anche se siamo stra-abituati alle
urla di Araya, ai soliti assoli dissonanti di King suonati a mille all’ora e a
tutto il resto dell’armamentario collegato al loro nome. Già sento qua in
redazione il nostro Lost In Moments che mi redarguisce: “Gli Slayer si amano e
basta! Non ti basta la barba di Zio Tom per godere?!?”
Si, mi potrà anche bastare ma ciò
non toglie, così come fatto in occasione del post sui Grip Inc., di divertirmi
a pensare a come avrebbe potuto essere l’evoluzione dell’Assassino, rimanendo
nell’alveo thrash (un alveo per sua stessa natura non troppo ampio, ma neppure
così angusto).
E per immaginarmela parto dal post che il nostro
Mementomori scrisse su “Diabolus in Musica”, nel quale si diceva: più che nu-metal i Nostri
recuperavano quella violenza deragliante che li aveva ispirati in gioventù […].
Fra tutti gli incartapecoriti della vecchia scuola thrash, gli Slayer furono
lungimiranti: capirono che l’unico modo per progredire era tornare indietro,
regredire alla fase hardcoreanale.
Il problema è che, secondo me,
DIM non è granchè. A parte l’opener “Bitter peace” (gran pezzo) il resto si
mantiene su una sufficiente omogeneità, che di certo non fa strappare i
capelli. E allora? Cosa avrebbero dovuto/potuto fare al posto di quel disco?
Come evolvere, anche a voler tornare alla fase hardcore? Come evitare quel
rischio, cui di fatto gli Slayer sono poi incappati nel terzo millennio, di
portare più o meno stancamente le loro classiche sonorità essendo l’ombra
di se stessi?
Ecco, la risposta era arrivata
già in quel lontano giugno del 1998. "Diabolus In Musica" esce il 09/06. Due settimane dopo, il 23
giugno, esce l’omonimo debut dei The Haunted. Ascoltandolo capisco; capisco quale poteva essere la linea evolutiva davvero azzeccata degli Slayer.
Perché, al netto di lievi retaggi swedish, "The Haunted" è un album di hardcore nudo e
crudo. Devastante, fresco, dinamico. Un disco che, per citare ancora il
collega, è da ascoltare se si hanno 40 minuti liberi e si ha voglia di
sfalloppiarsi il cervello. Del resto i The Haunted per 3/5 di line-up sono gli
At the Gates (i fratelli Bjorler e quel grande batterista che risponde al nome
di Adrian Erlandsson). E quindi potete immaginare che in quanto a classe e
capacità tecniche e di scrittura non avevano da invidiare niente a nessuno. Se a
questo background, si aggiunge il cantante Peter Dolving, già singer
dell’hardcore/thrash band Mary Beats
Jane, allora il piatto è pronto. E il sapore lo si può immaginare: hardcore/thrash/death
dei più validi. Davvero un disco spaccaossa.
Il confronto tra i due dischi si
può fare, eccome. Perché i TH, per certi fraseggi e in molto solos, si rifanno
chiaramente agli Slayer. Senza essere troppo derivativi, senza scopiazzature di
sorta. L’influenza è fortemente mediata da una personalità spiccata, da
un’esperienza che parla da sé e da una vena compositiva talmente straripante
che, appunto, non ha di certo bisogno di emulare pedissequamente qualsivoglia
altra band, Slayer inclusi. E, credetemi, da tale confronto chi esce vincitore
sono gli svedesi, sia nei brani più diretti e schiettamente hard-core come "Hate
Song”, “Undead” o “Chock hold”; sia in quelli più articolati (le meravigliose “Chasm”,
“In vein”, “Bullet hole” e “Blood rust”).
E ne escono vincitori anche per una prova strumentale di altissimo livello,
così come quella di un Dolving indemoniato dietro al microfono.
E così gli Slayer, in quella
seconda metà degli anni novanta, si ritrovano superati: a sinistra dal thrash
moderno, "progressista" e contaminato dei Grip Inc. di “Nemesis” (1997) e “Solidify”
(1999).
E a destra dal "conservatore" thrash/hardcore dei The Haunted.
Per fortuna che gli Slayer non
temono niente e nessuno, e non c’è “morsa” che li possa stritolare.
Ma poi, alla fin fine...cosa diavolo pretendo? Non mi basta il barbone di zio Tom? Che voglio di più??!?...
A cura di Morningrise