Moriremo.
Moriremo tutti.
L'ovvietà
di questa sentenza viene inasprita dai lutti sempre più numerosi che investono
il nostro microcosmo. Invecchiare significa anche vedere gli altri morire,
assistere alla morte altrui, di quelli che conosciamo, direttamente ed
indirettamente.
I
padri del rock sono già da un po' di tempo “vecchietti”, ma anche nel metal non
si scherza a livello anagrafico. Un'evidenza, questa, che abbiamo compreso appieno
solo con il decesso di Lemmy, occorso oramai quasi due anni fa. Un
evento che in un certo senso ha smosso qualcosa nella nostra coscienza
collettiva: anche quel mondo incantato
del metal, con cui siamo cresciuti, che credevamo immortale, conosce la morte.
Che senso ha dunque elencare questa infinita sequela
di nomi di morti? Per intristirci? No,
per richiamare un concetto: il
nocciolo artistico che questi morti, da vivi, hanno modellato per lasciarlo su
questo mondo. Non è quindi per solo dovere di cronaca che oggi commemoriamo il
grande Martin Stricker, in arte Martin Eric Ain, deceduto a soli
cinquant'anni per un infarto, il 21 ottobre scorso.Nel metal vi sono grandi e piccoli eroi: il bassista dei Celtic Frost, per un discorso di gerarchie, rientra nella seconda categoria. Ma per chi è appassionato di metal estremo, egli è un artista geniale, uno dei padri fondatori di un certo modo di intendere e fare metal (estremo).
Forse
non lo ricorderemo per le sue linee di basso, ma indubbio è il suo contributo
nel forgiare i contorni di quella mostruosità che risponde al nome di Celtic
Frost: un'entità seminale che sarebbe divenuta parimenti propedeutica per il black
metal come per il gothic metal e per l'avant-garde metal.
Certo,
siamo soliti associare il nome della band alla figura di Tom G. Warrior,
anima & corpo dell'entità elvetica, ma se Gabriel Fisher è la volpe, Martin Ain è stato il gatto.
Compagno
di viaggio del leader maximo fin dai
tempi degli Hellhammer, Ain ha, secondo noi, ricoperto un ruolo
tutt'altro che secondario in seno alla band: non solo in quanto membro
fondatore, ma costituendo negli anni il complice/alleato ideale per portare
avanti una proposta così dirompente, spesso non compresa in tutta la sua
portata rivoluzionaria.
Anche
come autore, ovviamente, il suo contributo non è stato da poco. Ed è
interessante notare come la sua penna sia stata puntualmente presente negli
episodi più inquietanti, tesi, perversi e pervasi da suggestioni esoteriche
della band svizzera. Si abbia in mente la "Danse Macabre" di
"Morbid Tales", irrequieta strumentale ammorbata da una
attitudine rumorista che vogliamo ricondurre in primis all'estro visionario del
bassista (anche agli “effetti”, in quella circostanza).
Sarebbero
stati così "dark", così misterici, così morbosi i Celtic Frost senza
Martin Eric Ain? Propendiamo
decisamente per il no.
Vogliamo
però ricordare Ain anche per un paio di brani che fanno bella figura in quello
splendido ritorno sulle scene che fu "Monotheist", edito nel
2006, dopo anni di silenzio discografico. "A Dying God Coming into
Human Flesh" (ma che splendido
titolo!) è probabilmente la migliore del lotto: sorta di "ballata
spettrale" sorretta dal plumbeo basso di Ain, essa vede il Nostro anche
dietro al microfono, interprete di un testo filosofico che è la migliore
espressione di uno spessore culturale per niente comune nell'universo metal.
Non
da meno, a livello di profondità concettuale, citiamo "Totengott",
primo capitolo di una imponente trilogia di brani che chiude magistralmente l’album.
Traccia ambientale scossa da umori funesti, essa rappresenta il lato
sperimentale del musicista, anche qui al "canto", che in questo caso
si fa latrato agonizzante di una malvagità unica: non altro che il degno
complemento di un testo che è il manifesto del satanismo libertario di
Ain.
Mi
ricordo come all'epoca mi facesse sogghignare di soddisfazione l'idea che un
"signore di una certa età" avesse ancora voglia di confrontarsi con
certi temi e con certe modalità espressive, pur non essendo più un giovincello in
preda a scariche ormonali: è il bello della "Vecchia Scuola", di quelli duri per davvero che non
indietreggiano mai innanzi all'abisso.
D'altra
parte c'è da ritenere che nel maneggiare certi concetti nemmeno lui si
prendesse troppo sul serio, guardando al lato più intellettuale, metaforico ed
artistico della faccenda, non privandosi mai, peraltro, di una intelligente e
tagliente ironia. Non so se avete presente quella foto della band in cui,
vestito da prete maledetto, si è
fatto immortalare in una smorfia di dolore, mentre, in un insensato atto di
autolesionismo, si portava al viso un crocifisso. Splendido!
Ecco,
partendo da questi presupposti, e pensando alla sua esperienza di imprenditore
(come titolare di un negozio di DVD e di un bar, l'Acapulco…) e
co-gestore del locale Mascotte a Zurigo (dove ogni martedì sera
presentava "Karaoke from Hell"), non penso che si offenderà,
ovunque egli sia adesso, se lo salutiamo dicendogli:
"Martin,
ci vediamo all'Inferno!"