"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

31 ago 2021

I MIGLIORI ALBUM DI ATMOSPHERIC BLACK METAL - ELDERWIND: "THE MAGIC OF NATURE" (2012)


Mi perdonino i puristi della lingua russa, ma non mi sento a mio agio con il cirillico, pertanto adotterò le traduzioni in inglese ufficiosamente diffuse su internet per riferirmi ai titoli delle opere degli Elderwind, nome sicuramente noto agli appassionati di atmospheric black metal
 
I russi sono infatti dei campioni indiscussi del genere e meritano di presenziare con onore nella nostra rassegna. Se a volte viene il dubbio che l’atmospheric black metal non sia altro che un’etichetta apposta sulla musica di gruppi anche molto diversi fra loro, a confermare il fatto che esso sia un genere a sé stante vi sono proprio gruppi come gli Elderwind, realtà che, germogliate in anni più o meno recenti, incarnano in pieno i cliché di quello che riteniamo essere il “perfetto” atmospheric black metal. 
 
Maestosi picchi montuosi baciati dalle nevi perenni sovrastano, imperturbabili, foreste di conifere dominate da una quiete che potremmo definire sacrale: uno scenario di assoluta immensità dove una natura incontaminata regna sovrana e dove l'uomo non trova spazio. Questa è la copertina di "The Magic of Nature", la quale non solo rappresenta lo spirito più autentico dell’atmospheric black metal, ma anticipa umori e temi lirici che ritroveremo nell'album. La musica dei russi è infatti una superba celebrazione della Natura: una natura grandiosa ed imponente, descritta con passione da un ensemble che incarna al meglio quel filone del black metal atmosferico che potremmo definire "naturalistico". 
 
Gli Elderwind, in verità, non sono una band vera e propria, in quando, come spesso capita nell’atmospheric black metal, anche qui troviamo un uomo solo al comando, Vyacheslav Oboskalov (detto Persy), chitarrista, bassista e tastierista, nonché unico compositore del progetto. Accanto a lui, tuttavia, troviamo altri due figuri, Alexander Sinyugin al microfono e Andrey Bykov alla batteria, a dare voce, tempi e ulteriori sfumature alle visioni del mastermind. Attivi dal 2009, gli Elderwind non hanno certo inflazionato il mercato discografico, avendo essi rilasciato solamente tre full-lenght: “The Magic of Nature” (2012), folgorante disco d’esordio di cui parleremo oggi, “The Colder the Night” (2018), suo brillante sequel, e il più recente “Fires” (2021), uscito proprio quest’anno (ottimo anch'esso). 
 
Gli otto brani contenuti in “The Magic of Nature” esprimono un sound solido, compatto, omogeneo, che si distingue per una ispirata vena melodica: una melodia anche troppo infiocchettata, che sembra rispecchiare certa musica leggera russa (grazie agli Elderwind mi spiego finalmente il perché delle trionfali tournée di Toto Cutugno in Russia). I tempi mediamente lenti (ma non lentissimi) divengono l’intelaiatura ideale affinché l’ottimo lavoro di Persy possa esprimersi al meglio. Chitarre e tastiere si spartiscono i compiti in parti uguali, mai prevalendo le une sulle altre: gli imperanti tappeti di tastiere, punteggiati da rintocchi di pianoforte o alambicchi danzanti, conferiscono un’aura fantastica ed irreale al tutto, mentre le chitarre si muovono modestamente senza mai affannarsi ad inseguire protagonismi. 
 
Un sound che potremmo definire arcturusiano, al netto dei virtuosismi dispensati dal combo norvegese. Un sound che qualcuno potrebbe giudicare piatto, privo di guizzi, e che i più maliziosi potrebbero persino vedere più incentrato sulla forma che sulla sostanza. Ma come spesso capita, le apparenze ingannano, e certo gli ascolti ripetuti potranno rivelare nuovi dettagli, in particolare per quanto riguarda il comparto ritmico: raramente Bykov sale in cattedra, ma il suo drumming, preciso e scorrevole, sa svelare preziosismi che sapranno intrattenere l’orecchio fine e paziente. Lo stesso si può dire della sentita interpretazione di Sinyugin, il cui screaming, mai sopra le righe, mi ha ricordato quello di Peter Tagtgren ai tempi di “Abducted”. Anche la produzione, linda e potente, ricorda molto gli Hypocrisy, persino in certi fade-out frettolosi che a volte danno l’impressione che i brani finiscano troppo in fretta, sebbene essi in media abbiano una durata considerevole, fra i sei e i sette minuti. 
 
L’album, si sarà capito, scorre fluido e si gioca la partita principalmente sul fronte dei suoni (ammalianti) e delle intuizioni melodiche, a volte illuminate da influssi del folclore russo, con temi che, per il genere, potremmo definire radiosi. Un black pieno di luce, quindi, quello degli Elderwind, che non raggiungono le vette emozionali dei maestri Alcest, ma che rimpinguano con qualità e sentimento quel calderone di black metal band di ultima generazione che prediligono un sound aereo, celestiale, "pastellato" nella sua capacità di descrivere nel dettaglio pittoreschi paesaggi. 
 
Per capire quello che stiamo dicendo, basti ascoltare gli istanti iniziali della prima traccia (ripeto: il cirillico non è il mio forte), aperta dalla pioggia e da ariose tastiere, presto fagocitate da un riffing decisamente ispirato: caratteristiche che troveremo costantemente per tutti i 52 minuti di durata del platter. E’ quasi con sorpresa, pertanto, che accoglieremo il furioso blastbeat in mezzo alla seconda traccia: le parti tirate, peraltro molto gradite, saranno sporadiche, chiamate di tanto in tanto a spezzare la monotonia e a gettare ulteriore intensità sul piatto emozionale
 
Nel suo scorcio finale l'album saprà riservare le cartucce migliori, con un trittico di brani letteralmente da applausi (e da lacrime). La sesta traccia, la più lunga del lotto (oltre nove minuti), si apre inaspettatamente con tempi velocissimi, per poi ripiegare su trionfali mid-tempo e riarrabbiarsi nel finale. Tastiere e chitarre procedono pompose evocando una fierezza che si lega, melodicamente, al folclore russo. Scroscia di nuovo la pioggia mentre un pianoforte dispensa malinconia: la quiete dopo la tempesta giunge con la traccia successiva, quasi una ballad se raffrontata agli altri brani, forte di ammalianti alchimie di chitarra e sognanti tastiere, ed un enfasi ancora maggiore a quello spleen romantico che percorre l'intera opera. Non siamo lontani da certe estrinsecazioni di melodic death metal di metà anni novanta. 

Finale con i contro-fiocchi con il brano conclusivo, il quale mostra fin dall’inizio un passo diverso, con trame ritmiche finalmente sugli scudi: si percepiscono un’energia ed una verve che cozzano piacevolmente con l’approccio contemplativo che ha animato gli episodi precedenti. Il brano, sospeso fra dramma ed epicità, si giova dunque di un rinnovato dinamismo, destinato a sfociare in incalzanti up-tempo fino all'intensa sfuriata, per poi chiudere il cerchio con poderosi tempi medi: l’ascolto termina con un ottimo sapore in bocca che invita a premere nuovamente il tasto play del lettore. 
 
Il successore “The Colder the Night”, che vedrà la luce ben sei anni dopo, persevererà sulla stessa formula, puntando ancora di più, se possibile, sulla componente melodica ed ampliando ulteriormente lo spettro sonoro. A noi tuttavia continua a piacere molto questo brillante debutto, che non possiamo non inserire fra le migliori testimonianze dell’epopea dell’atmospheric black metal.