4 mag 2022

VOGLIA DI CAMPAGNA INGLESE: DARKHER


Ci sono delle volte che hai bisogno di deserto, polvere, lunghe highways, di vento in faccia e di una motocicletta, anche se non la sai guidare e non te ne è mai fregato un cazzo di guidarla. A volte invece hai bisogno di città, di asfalto e cemento, di vetro e acciaio, delle vibrazioni della grande metropoli con gente che va e gente che viene, ognuno preso dalle proprie fulitità. Ma io adesso ho voglia di campagna, e nemmeno di una campagna sui generis, di sicuro non di quella da cartolina della mia Toscana, una campagna fatta di colline, cipressi e tramonti mozzafiato mentre in terrazza ti sorseggi un buon Chianti. 
 
Ho voglia della nebbiosa ed umida dimensione rurale inglese, quella tinta di un verde sbiadito, bagnata da una pioggerella fina, sovrastata da un incombente cielo grigio, fra case diroccate e vecchie abbazie scoperchiate.
 
Grazie al black metal scandinavo ci siamo riappacificati con la natura, ma quella scandinava è una natura austera, fatta di picchi scoscesi e foreste selvagge. Quella è una natura senza uomo, dove l’uomo è componente minoritaria, annullato nella maestosità della natura stessa. Le campagne inglesi, invece, contemplano la presenza dell’uomo, anche solo sotto forma di indizi: una casa isolata su una collina, la sagoma di un campanile che si intravede dietro alla nebbia, un cimitero al di là del muretto. Anzi, certi dettagli che sembrerebbero suggerire la presenza dell’uomo finiscono per negarla, come se ne misurassero l’assenza. E non ci stupiamo se da quelle lande uggiose il doom/death gotico abbia mosso i primi passi con Paradise Lost e My Dying Bride.
 
Vivo da sei anni in Inghilterra, ma della terra di Albione ho vissuto principalmente la frenesia della capitale. Basta tuttavia prendere un treno o una macchina e in poco più di un'ora ti puoi imbattere in luoghi realmente magici ed avulsi dalla schietta urbanità. Penso, per esempio, alla zona di Canterbury, nota, oltre per la bellissima cattedrale, anche per aver dato i natali alla omonima scena prog-rock degli anni settanta con Caravan, Soft Machine e Gong. Senza poi contare luoghi come Stonehenge, oggi meta di pellegrinaggio turistico, ma che sa ancora riservare grandi emozioni se magari ci si trova, all'imbrunire, a passeggiare per gli impervi prati che separano la biglietteria dal sito dei megaliti. Ma lo stesso tessuto cittadino di Londra è capace di dischiudersi inaspettatamente in scenari di grande suggestione: si pensi a come sono concepiti i cimiteri, non intesi come luoghi consacrati alla devastazione emotiva, ma come parchi in cui puoi passeggiare e persino fare jogging. Ricordo ancora, durante una gita a Cambridge, di aver serenamente consumato un pranzo al sacco sul manto erboso di un cimitero, fra croci e lapidi di pietra. 
 
Vi è stata poi quella volta che, a causa di un grave lutto, fui costretto a prendere un aereo e volare in Italia con scarso preavviso. Era inizio marzo 2020, la pandemia era alle porte e mio figlio sarebbe nato nemmeno due mesi dopo. Durante il tragitto per l’aeroporto, di sera, leggevo sul mio telefono una retrospettiva sugli High Tide e ricordo vividamente come il mio mood luttuoso si mescolasse alla perfezione ai mesti paesaggi che sfrecciavano fuori dal finestrino del treno - lievi declivi, sporadiche sagome di alberi, qualche residenza rurale - e come il tutto fosse stimolato da quella lettura, perché gli High Tide, ottenebrante incarnazione proto-metal comunemente ricondotta all’universo prog (ma quanto fanno male i riff di chitarra di Tony Hill, e quanto sventrano le orecchie gli stridenti assoli di violino di Simon House!), si sono sempre nutriti di quelle atmosfere stregonesche di cui si impregnano le campagne inglesi, fra tradizione e superstizione. 
 
Lo stesso background che probabilmente ha ispirato il sound oscuro dei Black Sabbath e di tutte quelle altre band che hanno popolato il sottobosco dark/prog albionico degli anni settanta (si pensi a “Come to the Sabbath” ed ai "riti" celebrati in “Sacrifice” dei Black Widow). Ma se c’è una band di quel periodo che più di altre ha incarnato il carattere misterico ed inquietante delle campagne inglesi, questi sono stati i Comus che nel 1971 con il loro debutto “First Utterance” forgiavano un suono avulso da chiunque altro: un inquieto e disturbante manifesto folk-rock che pescava a piene mani dalla tradizione folcloristica inglese (chiedete a Michael Akerfeldt che qualche hanno fa è stato il più grande promotore della loro reunion). 
 
Da qui, probabilmente, avrebbero tratto influenza gli artisti della stagione del folk apocalittico, di sicuro i Current 93 di David Tibet, i più vincolati a certe sonorità folcloristiche (si pensi al legame di amicizia ed alle assidue frequentazioni di Tibet con la storica folk singer Shirley Collins). Proprio di recente è uscito il loro ultimo album, un momento che ho agognato per quattro lunghi anni, visto che il lavoro precedente, l’ottimo “The Light is Leaving Us All”, risale oramai al 2018. Ma come? – mi chiedevo durante la fase più cruenta della pandemia – da sempre David Tibet ci canta dell’apocalisse, ci ammorba con le sue laceranti visioni sulla Fine del Mondo, ed adesso che il mondo sembrerebbe finire per davvero, dov’è? Il Nostro in questi anni si è concentrato principalmente sulla pittura, ma fortunatamente ad un certo punto si è ricordato di essere anche un grande autore ed interprete musicale, ed ecco che la sua poesia rientra nelle nostre case con l’intenso “If a City is Set Upon a Hill”, ennesima perla rilasciata dalla Corrente in quaranta anni di gloriosa carriera. 
 
Oggi Tibet appare vecchio e stanco, la sua voce è greve e tremolante, sembra volersi lasciare alle spalle gli aspetti più vistosi ed invadenti della sua musica, ma anche del suo canto: oramai la sua è una recitazione sommessa, accompagnata dai movimenti fluidi di un folk che sa integrare alla perfezione strumentazione acustica (violino, pianoforte, chitarra acustica) ad elettronica (samples, droni, distorsioni). La Corrente oggi si muove con il passo inquieto di un folk acido e dalle derive psichedeliche con al centro la poetica affranta del suo deus ex machina. E le lacrime scendono copiose solcando aride guance lasciate per troppo tempo ad indurirsi sotto i colpi nefasti del black metal atmosferico e del funeral doom
 
E torniamo di colpo alle campagne inglesi, alle distese di verde sbiadito, ai ruderi, al grigiore del cielo, alla magia di quei paesaggi sospesi fra un torbido passato e pratiche magiche. La morsa delle campagne inglesi è stata implacabile in questo ultimo periodo, da un lato i Current 93, dall’altro Darkher e il suo ultimo album “The Buried Storm”. Bellissimo
 
Darkher, alias Jayn H. Maiven, è da mettere accanto a Chelsea Wolfe, Anna Von Hausswolf e Amalie Bruun/Myrkur. La cantante e musicista proveniente dal West Yorkshire è indubbiamente l’ennesima intrigante manifestazione di questo nuovo "cantautorato" al femminile che non teme di confrontarsi con le frange più oscure del metal, sapendo mettere a punto una formula basata su ritualità folcloristica, ambient, doom e post-rock. Ma la voce della Maiven, contrariamente a quelle delle colleghe sopra elencate, preferisce mimetizzarsi nella musica e divenire una presenza ammaliante nell'evocazione di forze misteriose, e in questo vengono in mente i sortilegi della visionaria Rachel Davies degli Esben and the Witch, altro frutto perverso scaturito dalla terra albionica (loro sono di Brighton), fautori di un gothic rock (?) dalle forti tinte stregonesche (si abbia in mente l'ottimo "Older Terrors").  
 
Protetta dalla Prophecy, la Maiven rilasciava nel 2014 l’EP “The Kingdom Field” per poi confermare il proprio talento con il solido debutto “Realms” (2016) e l’ancor migliore “The Buried Storm” (2022). Si guardi per cortesia il video di “Lowly Weep”, singolo di lancio dell'album (per modo di dire visto che il brano osa durare otto minuti e non è certo quel gingle commerciale realizzato per accalappiare l’ascoltatore distratto). 
 
Il video rappresenta in pieno tutto quello che ho voluto intendere in questo mio scritto: si parte con riprese in esterna, una vegetazione spoglia fa da sfondo ai lenti movimenti circolari di una esile donna di nero vestita e dai lunghissimi capelli rossi. Anelli, amuleti, tutto l’armamentario ci proietta in una dimensione magica ed esoterica. E’ il lento procedere delle immagini che manda in catarsi lo spettatore, ipnotizzato dal volteggiare della cantante, sempre dal volto coperto dalla folta chioma, tanto che a tratti non si capisce se sia di spalle o in posizione frontale rispetto alla telecamera. 
 
Movimenti circolari, la telecamera che si sposta lentamente dal basso in alto o dall’alto in basso, sfondi che cambiano, la natura selvaggia che si alterna alla pavimentazione di pietra e i contorni arcigni di una vecchia chiesa: questo è uno dei classici video a basso budget che risultano straordinariamente efficaci nella loro semplicità . La musica, ovviamente, è quanto di meglio possa essere associato a queste immagini: una litania che da funereo ambient monta implacabile fra percussioni marziali ed incombenti riff di chitarra, con una seconda parte strumentale da brividi dove sinistri fraseggi e possenti accordi di chitarra celebrano l’abbraccio fatale fra doom e post-rock. In mezzo la voce eterea della Maiven, canto flebile ma magnetico, sibilo di strega che ci avvolge nell’oscurità e conduce in un passato ancestrale fatto di riti ed evocazioni misteriche. E chissà, anche di sacrifici umani...

"The Buried Storm" è la sublimazione definitiva della visione artistica della Maiven, il luogo dove si individua il perfetto equilibrio fra delicatezza acustica e lo sconquasso dell'elettricità. Il cerchio si apre e si chiude all'insegna dell'atmosfera con i droni di  "Sirens Nocturne" e le dilatazioni di archi di "Fear Not, My King" (ma che bellezza questi titoli!). In mezzo: gioielli di intimo raccoglimento che si incastonano fra composizioni più lunghe ed articolate. "Unbound" tocca profondità inaudite in poco più di due minuti, e lo stesso faranno successivamente, con un minutaggio leggermente superiore, le ballate acustiche "Where the Devil Waits" e "Seas". Fra gli episodi elettrci, oltre alla sopra menzionata "Lowly Weep", vanno incluse "Love's Sudden Death", marcia dolente fra blues elettrificato e folk noir, e la superba "Immortals", lunga e sinuosa, incalnzante nelle percussioni e forte di un lisergico crescendo post-rock. Il tutto condito dal vibrare degli onnipresenti archi. 
 
Con la Wolfe che sembra aver messo da parte il metal per dedicarsi ad un cantautorato altrettanto affascinante, la von Hausswolff parcheggiata momentaneamente dietro al suo organo a canne e Myrkur consacrata totalmente al verbo folcloristico del Nord Europa, Darkher rimane una realtà da tenere d’occhio e capace di darci ancora brividi elettrici. A fine luglio sarà qui a Londra a supportare Me and That Man, progetto country di Nergal dei Behemoth, vuoi mai, dopo l'umidità delle campagne inglesi, tornasse la voglia di deserto, polvere e motociclette…