"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

7 feb 2016

IL METAL PRIMA DEL METAL: UN TRITTICO DA RISCOPRIRE



 

Accediamo dunque alla seconda ed ultima parte della nostra trattazione: nella prima puntata abbiamo riconosciuto nel triennio che va dal 1969 al 1971 una fase decisamente importante nella formazione e definizione di quegli stilemi musicali che poi, messi insieme, chiameremo Heavy Metal.

Una sorta di periodo nebuloso in cui le tendenze stilistiche più disparate si scontravano: rock’n’roll, hard-rock, progressive, psichedelica, avanguardia. Proprio prendendo in considerazione questi tre anni, abbiamo deciso di ripercorrere quella fase con tre opere che, seppur non appartenenti in senso stretto alla grande famiglia dell’heavy metal, rimangono più o meno scopertamente legate ad un universo sonoro fatto di violenza e pesantezza che non poteva non attirare la nostra attenzione.

La prima di queste tre tappe è costituita da “Sea Shanties” degli High Tide, anno 1969.

Che ci troviamo innanzi a qualcosa di enormemente duro lo capiamo già a partire dall’inquietante copertina: un disegno a china ritraente un temibile vascello fantasma che riversa in mare una valanga di corpi senza vita in stile girone dantesco (il retrocopertina, invece, immortalerà simpaticamente un volatile esanime trafitto da una freccia in pieno petto). Ma aspetti iconografici a parte, l’openerFutilist’s Lament” è già heavy metal fatto e finito, nella forma sabbathiana che impareremo a conoscere a partire dall’anno successivo. Il merito è del cantante/chitarrista Tony Hill e del violinista/tastierista Simon House, i due pilastri fondanti della formazione.

Per quanto riguarda Hill, se c’è da dire che la sua voce oscura porta con sé evidenti mood morrisoniani (elemento che aggancia irrimediabilmente la proposta degli inglesi alla loro epoca), è sul fronte chitarristico che egli apporta le novità più rilevanti, rendendosi responsabile di riff di una pesantezza che solo Iommi l’anno successivo avrebbe saputo bissare (da segnalare anche un lungo assolo di ottima ed epica fattura). Il solido comparto ritmico (composto da Peter Pavli e Roger Hadden, rispettivamente al basso ed alla batteria) è il degno supporto a colui che, per primo, seppe generare riff devastanti supportati da una ancora più devastante distorsione (tanto che ad alzare il volume si sente lo scricchiolare degli amplificatori che sembrano sull’orlo di collassare).

Simon House, dal canto suo, ci butta il carico da novanta, in quanto il suo violino elettrico (anch’esso distorto) inspessisce ulteriormente il sound, conferendogli non solo sfumature inquietanti, ma anche una veste dissonante che pare degna del noise più annichilente. Esemplificativi sono i nove minuti di “Death Warmed Up”, caotico brano strumentale che offre all’orecchio del mal capitato di turno il lato più feroce e debordante della formazione inglese.

Difficile definire il genere suonato da questi violenti innovatori, anche se è corretta l’etichetta che è stata affibbiata loro dalla critica, ossia quella di progressive rock: la loro è in effetti musica progressiva, anche se le loro sperimentazioni si muovono nella direzione del rumore, piuttosto che sul piano della raffinata ricerca armonica che è stata compiuta dai nomi più blasonati del genere.

Seconda tappa: Guru Guru – “Ufo”, anno 1970.

Ci spostiamo in Germania, dove in quegli anni, per mezzo dell’opera lungimirante di formazioni quali Can, Faust, Neu!, Amon Duul II, stava prendendo forma il filone kraut-rock. Sulla scia dell’operato delle band inglesi dedite al progressive, ma con un occhio di riguardo alle sperimentazioni effettuate dall’altra parte dell’oceano dagli imprescindibili Velvet Underground, gli artisti che appartenevano al movimento kraut forgiavano una audace materia rock che espanderà i confini del genere fino a trasformarlo in elettronica.

Fra questi, meno noti, vi erano i Guru Guru del batterista/cantante Mani Neumeier, fondati nel lontano 1968. Il loro debutto, “Ufo”, rientra di diritto nella nostra trattazione grazie ai suoi suoni pesantissimi, che, sebbene diluiti in un format che metal non era di sicuro, possono sicuramente rivaleggiare con l’armamentario sonoro messo in campo dai Black Sabbath in quello stesso anno.

Julian Cope, nel suo libro “Krautrocksampler”, definirà la loro musica “roba che disintonizza la testa”: rock che per le sue arditezze sarebbe più giusto definire psichedelico, avanguardistico. Piglio improvvisatore, atmosfere spaziali, ritmi jazzati, effetti a go go, certo non sono gli stilemi classici del metal, ma come possiamo tacere innanzi alla violenza di quei riffoni di chitarra? Si pensi per esempio a come si avventa su di noi la terza traccia “Next Time See You at the Dalai Lhama”, forte di riff spaccaossa che spezzano di colpo la fumosa psichedelia dei tre (oltre a Neumeier, troviamo Uli Trepte al basso e Eddy Naegeli alle sei corde, un vero genio del suo strumento). Una violenza che potremmo definire stoner ante litteram, considerato il potenziale visionario di quella musica, abbinato alla potenza ossessiva di una chitarra che ama reiterare, in modo perfidamente circolare, il medesimo accordo, incalzato dal groove roboante del basso (potentissimo) e dalle scudisciate sulle pelli ad opera di Neumeier.

Un insieme di cose che suona innegabilmente heavy, sebbene esso sia molto distante dalle “forme metal” che una decade più tardi forgeranno le band della New Wave of British Heavy Metal (le quali, forti della rivoluzione punk, preferiranno continuare a guardare all’hard-rock e al prog). Non passa di qui il metal, dunque, ma la violenza messa in campo dai tre di Heidelberg è comunque degna di nota.

Rimaniamo in Germania per la terza e ultima tappa del nostro viaggio, che si fa a dir poco mistico: Ash Ra Tempel - “Ash Ra Tempel”, anno 1971.

Dal prog granitico e frastornante degli High Tide, al kraut pesantissimo e tossico dei Guru Guru, per giungere infine alla musica cosmica e profondamente spirituale di Ash Ra Tempel. Attenzione però: se per musica cosmica si deve intendere quanto concepito e realizzato da Tangerine Dream, Cluster e Klaus Schulze, allora per l’omonimo debutto degli Ash Ra Tempel bisognerà fare un discorso a parte.

Rispetto alle altre due band da noi richiamate, sicuramente gli Ash Ra Tempel sono il nome più noto, non foss’altro per la presenza in formazione del signor Klaus Schulze. Un giovane Klaus Schulze, per l'esattezza, che prima di divenire un grande compositore, pare si dilettasse a "strimpellare" la...batteria! Dettaglio, questo, che mi ha sempre fatto sogghignare: strano, no?, che il padre visionario della Kosmische Musik (in termini profani: sintonizzatori allucinogeni che fluttuano per decine e decine di minuti, al di fuori di ogni riferimento spazio-temporale) nascesse come caotico batterista! 

Se abbiamo incluso nella nostra trattazione il debutto degli Ash Ra Tempel non è però per la presenza del bel biondo, bensì per l’incredibile openerAmboss”: venti minuti di deliri psichedelici come mai ci è capitato di sentire in vita nostra. La composizione si muove con l’irruenza della jam selvaggia, dove l’asse chitarra/batteria costituisce la direttrice lungo la quale le visioni procedono in modalità devastante per psiche ed orecchie. 

Il modo di picchiare di Schulze sul suo strumento ha del clamoroso: confuso, pasticciato, ma terribilmente ispirato, energico, ai limiti del metal, appunto! Definire lo stile di Schulze è difficile, sebbene il suo modo di procedere abbia la furia e l’ardire dei jazzisti più estremi (c'è da ricordare che la velocità di esecuzione era pur sempre una delle tante direzioni che un artista avanguardista potesse intraprendere). 

Completano la squadra il bassista Hartmut Henke e il geniale chitarrista (nonché leader della band) Manuel Gottsching, che percuote il proprio strumento con autentica furia hendrixiana. L’azione distruttiva dei tre raggiunge l’apice proprio in questa interminabile jam session, vorticosa, travolgente, dall'incedere torrenziale, in cui si toccano momenti di violenza che la maggior parte delle band hard-rock dell’epoca si poteva sognare (mentre l’inevitabile controparte ambient, quella più classicamente “cosmica”, verrà esplorata nell’altro pezzo, “Traummaschine”, altri venticinque minuti di delirio siderale).

Che si tratti di batteria e chitarra urlanti o di evocative perlustrazioni elettroniche, la musica degli Ash Ra Tempel è roba da far uscire di cervello, l’ideale terzo atto di questa nostra breve trattazione volta a celebrare le gesta di tre band che, sebbene sconosciute al metallaro medio, dovrebbero essere da lui apprezzate: non solo per il valore intrinseco delle loro opere di debutto, ma anche e soprattutto per gli importanti punti di contatto, concettuale e formale, con il suo genere di musica preferita, l’heavy metal!