Accediamo dunque alla seconda
ed ultima parte della nostra trattazione: nella prima puntata abbiamo riconosciuto
nel triennio che va dal 1969 al 1971 una fase decisamente
importante nella formazione e definizione di quegli stilemi musicali che poi,
messi insieme, chiameremo Heavy Metal.
Una sorta di periodo nebuloso
in cui le tendenze stilistiche più disparate si scontravano: rock’n’roll, hard-rock,
progressive, psichedelica, avanguardia. Proprio prendendo in considerazione
questi tre anni, abbiamo deciso di ripercorrere quella fase con tre opere
che, seppur non appartenenti in senso stretto alla grande famiglia dell’heavy
metal, rimangono più o meno scopertamente legate ad un universo sonoro fatto
di violenza e pesantezza che non poteva non attirare la nostra attenzione.
La prima di queste tre tappe
è costituita da “Sea Shanties” degli High Tide, anno 1969.
Che ci troviamo innanzi a
qualcosa di enormemente duro lo capiamo già a partire dall’inquietante
copertina: un disegno a china ritraente un temibile vascello fantasma che
riversa in mare una valanga di corpi senza vita in stile girone dantesco (il
retrocopertina, invece, immortalerà simpaticamente un volatile esanime trafitto
da una freccia in pieno petto). Ma aspetti iconografici a parte, l’opener
“Futilist’s Lament” è già heavy metal fatto e finito, nella forma sabbathiana
che impareremo a conoscere a partire dall’anno successivo. Il merito è del
cantante/chitarrista Tony Hill e del violinista/tastierista Simon House,
i due pilastri fondanti della formazione.
Per quanto riguarda Hill, se
c’è da dire che la sua voce oscura porta con sé evidenti mood morrisoniani
(elemento che aggancia irrimediabilmente la proposta degli inglesi alla loro
epoca), è sul fronte chitarristico che egli apporta le novità più rilevanti,
rendendosi responsabile di riff di una pesantezza che solo Iommi l’anno
successivo avrebbe saputo bissare (da segnalare anche un lungo assolo di ottima
ed epica fattura). Il solido comparto ritmico (composto da Peter Pavli e
Roger Hadden, rispettivamente al basso ed alla batteria) è il degno
supporto a colui che, per primo, seppe generare riff devastanti supportati
da una ancora più devastante distorsione (tanto che ad alzare il volume
si sente lo scricchiolare degli amplificatori che sembrano sull’orlo di
collassare).
Simon House, dal canto suo,
ci butta il carico da novanta, in quanto il suo violino elettrico (anch’esso
distorto) inspessisce ulteriormente il sound, conferendogli non solo
sfumature inquietanti, ma anche una veste dissonante che pare degna del noise
più annichilente. Esemplificativi sono i nove minuti di “Death Warmed Up”,
caotico brano strumentale che offre all’orecchio del mal capitato di turno il
lato più feroce e debordante della formazione inglese.
Difficile definire il genere
suonato da questi violenti innovatori, anche se è corretta l’etichetta che è
stata affibbiata loro dalla critica, ossia quella di progressive rock:
la loro è in effetti musica progressiva, anche se le loro sperimentazioni si
muovono nella direzione del rumore, piuttosto che sul piano della raffinata ricerca
armonica che è stata compiuta dai nomi più blasonati del genere.
Seconda tappa: Guru Guru
– “Ufo”, anno 1970.
Ci spostiamo in Germania,
dove in quegli anni, per mezzo dell’opera lungimirante di formazioni quali Can,
Faust, Neu!, Amon Duul II, stava prendendo forma il filone
kraut-rock. Sulla scia dell’operato delle band inglesi dedite al
progressive, ma con un occhio di riguardo alle sperimentazioni effettuate
dall’altra parte dell’oceano dagli imprescindibili Velvet Underground, gli
artisti che appartenevano al movimento kraut forgiavano una audace materia rock
che espanderà i confini del genere fino a trasformarlo in elettronica.
Fra questi, meno noti, vi
erano i Guru Guru del batterista/cantante Mani Neumeier, fondati
nel lontano 1968. Il loro debutto, “Ufo”, rientra di diritto nella
nostra trattazione grazie ai suoi suoni pesantissimi, che, sebbene diluiti in
un format che metal non era di sicuro, possono sicuramente rivaleggiare
con l’armamentario sonoro messo in campo dai Black Sabbath in quello stesso
anno.
Julian Cope, nel suo libro “Krautrocksampler”,
definirà la loro musica “roba che disintonizza la testa”: rock che per le sue
arditezze sarebbe più giusto definire psichedelico, avanguardistico. Piglio
improvvisatore, atmosfere spaziali, ritmi jazzati, effetti a go go,
certo non sono gli stilemi classici del metal, ma come possiamo tacere innanzi
alla violenza di quei riffoni di chitarra? Si pensi per esempio a come
si avventa su di noi la terza traccia “Next Time See You at the Dalai Lhama”,
forte di riff spaccaossa che spezzano di colpo la fumosa psichedelia dei
tre (oltre a Neumeier, troviamo Uli Trepte al basso e Eddy Naegeli
alle sei corde, un vero genio del suo strumento). Una violenza che potremmo
definire stoner ante litteram, considerato il potenziale visionario di
quella musica, abbinato alla potenza ossessiva di una chitarra che ama reiterare,
in modo perfidamente circolare, il medesimo accordo, incalzato dal groove
roboante del basso (potentissimo) e dalle scudisciate sulle pelli ad opera di
Neumeier.
Un insieme di cose che suona
innegabilmente heavy, sebbene esso sia molto distante dalle “forme
metal” che una decade più tardi forgeranno le band della New Wave of British
Heavy Metal (le quali, forti della rivoluzione punk, preferiranno
continuare a guardare all’hard-rock e al prog). Non passa di qui il metal,
dunque, ma la violenza messa in campo dai tre di Heidelberg è comunque degna di
nota.
Rimaniamo in Germania per la
terza e ultima tappa del nostro viaggio, che si fa a dir poco mistico: Ash
Ra Tempel - “Ash Ra Tempel”, anno 1971.
Dal prog granitico e
frastornante degli High Tide, al kraut pesantissimo e tossico dei Guru Guru,
per giungere infine alla musica cosmica e profondamente spirituale di Ash Ra
Tempel. Attenzione però: se per musica cosmica si deve intendere quanto
concepito e realizzato da Tangerine Dream, Cluster e Klaus
Schulze, allora per l’omonimo debutto degli Ash Ra Tempel bisognerà
fare un discorso a parte.
Rispetto alle altre due band
da noi richiamate, sicuramente gli Ash Ra Tempel sono il nome più noto, non
foss’altro per la presenza in formazione del signor Klaus
Schulze. Un giovane Klaus Schulze, per l'esattezza, che prima di divenire un grande
compositore, pare si dilettasse a "strimpellare" la...batteria! Dettaglio, questo, che mi ha sempre fatto sogghignare: strano, no?, che il padre visionario della Kosmische Musik (in termini
profani: sintonizzatori allucinogeni che fluttuano per decine e
decine di minuti, al di fuori di ogni riferimento spazio-temporale) nascesse come caotico batterista!
Se abbiamo incluso nella nostra trattazione il debutto degli Ash Ra Tempel non è però per la presenza del bel biondo, bensì per l’incredibile opener “Amboss”: venti minuti di deliri psichedelici come mai ci è capitato di sentire in vita nostra. La composizione si muove con l’irruenza della jam selvaggia, dove l’asse chitarra/batteria costituisce la direttrice lungo la quale le visioni procedono in modalità devastante per psiche ed orecchie.
Il modo di picchiare di Schulze sul suo strumento ha del clamoroso: confuso, pasticciato, ma terribilmente ispirato, energico, ai limiti del metal, appunto! Definire lo stile di Schulze è difficile, sebbene il suo modo di procedere abbia la furia e l’ardire dei jazzisti più estremi (c'è da ricordare che la velocità di esecuzione era pur sempre una delle tante direzioni che un artista avanguardista potesse intraprendere).
Completano la squadra il bassista Hartmut Henke e il geniale chitarrista (nonché leader della band) Manuel Gottsching, che percuote il proprio strumento con autentica furia hendrixiana. L’azione distruttiva dei tre raggiunge l’apice proprio in questa interminabile jam session, vorticosa, travolgente, dall'incedere torrenziale, in cui si toccano momenti di violenza che la maggior parte delle band hard-rock dell’epoca si poteva sognare (mentre l’inevitabile controparte ambient, quella più classicamente “cosmica”, verrà esplorata nell’altro pezzo, “Traummaschine”, altri venticinque minuti di delirio siderale).
Se abbiamo incluso nella nostra trattazione il debutto degli Ash Ra Tempel non è però per la presenza del bel biondo, bensì per l’incredibile opener “Amboss”: venti minuti di deliri psichedelici come mai ci è capitato di sentire in vita nostra. La composizione si muove con l’irruenza della jam selvaggia, dove l’asse chitarra/batteria costituisce la direttrice lungo la quale le visioni procedono in modalità devastante per psiche ed orecchie.
Il modo di picchiare di Schulze sul suo strumento ha del clamoroso: confuso, pasticciato, ma terribilmente ispirato, energico, ai limiti del metal, appunto! Definire lo stile di Schulze è difficile, sebbene il suo modo di procedere abbia la furia e l’ardire dei jazzisti più estremi (c'è da ricordare che la velocità di esecuzione era pur sempre una delle tante direzioni che un artista avanguardista potesse intraprendere).
Completano la squadra il bassista Hartmut Henke e il geniale chitarrista (nonché leader della band) Manuel Gottsching, che percuote il proprio strumento con autentica furia hendrixiana. L’azione distruttiva dei tre raggiunge l’apice proprio in questa interminabile jam session, vorticosa, travolgente, dall'incedere torrenziale, in cui si toccano momenti di violenza che la maggior parte delle band hard-rock dell’epoca si poteva sognare (mentre l’inevitabile controparte ambient, quella più classicamente “cosmica”, verrà esplorata nell’altro pezzo, “Traummaschine”, altri venticinque minuti di delirio siderale).
Che si tratti di batteria e
chitarra urlanti o di evocative perlustrazioni elettroniche, la musica degli
Ash Ra Tempel è roba da far uscire di cervello, l’ideale terzo atto di questa nostra breve trattazione
volta a celebrare le gesta di tre band che, sebbene sconosciute al metallaro
medio, dovrebbero essere da lui apprezzate: non solo per il valore intrinseco
delle loro opere di debutto, ma anche e soprattutto per gli importanti punti di
contatto, concettuale e formale, con il suo genere di musica preferita, l’heavy
metal!