"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

26 ago 2022

AN EVENING WITH...IMPERIAL DECAPITATION AND CATTLE TRIUMPHANT (LIVE IN LONDON, 19/08/2022)


Mai come in questo caso mi sono ritrovato ad andare ad un concerto con così poca voglia di assistere all'esibizione della band che sarebbe salita sul palco. Quando qualche settimana fa esclamai, scoprendo l’evento in rete e comprando all’istante il biglietto, “Oh wow, gli Imperial Triumphant vengono in città!”, probabilmente avevo ancora in mente le buone impressioni che mi lasciò l’ascolto di “Vile Luxury”, loro terz’ultimo album. Ma era il 2018, sarebbero seguite la pandemia e molte altre cose. La pandemia nel frattempo mi ha reso un vecchio fragile, maggiormente propenso ad apprezzare proposte - come dire - cariche di emotività piuttosto che roba fredda e cervellotica. Ed ahimè l’avant-post-death/black-jazzato (o chiamatelo come diavolo volete!) degli Imperial Triumphant è quanto di più freddo e cervellotico ci possa essere oggigiorno. Ho provato a riattizzare la fiammella ascoltando l’ultima release discografica “Spirit of Ecstasy”, uscita quest'anno, ma nonostante i videoclip di “Merkurius Gilded” e “Maximalist Scream” siano indubbiamente simpatici, il mio gelo nei confronti del trio è rimasto tale. 

Nell’arco di tre album (da menzionare ad onor di completezza anche il penultimo “Alphaville”) i Nostri hanno a mio parere tracciato una parabola leggermente discendente, considerato che, una volta destata la curiosità con una proposta decisamente originale, la band non è riuscita a far evolvere più di tanto la formula. Coerenza o carenza di idee? Quel che è certo è che i Nostri fra la via della genialità e quella della rottura di coglioni sembrano aver scelto entrambe, ma almeno si può dire che la loro fan base è costituita da reali ammiratori e non da ascoltatori di passaggio attirati dall’hype del momento. Io, in verità, non so più nemmeno chi sono, ma spero tanto che la magia dei newyorkesi si palesi stasera sul piccolo palco del Dome

Arrivati a destinazione si ha l'impressione di vederci doppio, perché sono ben due le code di metallari che si parano davanti ai nostri occhi: una di professori e poeti, l'altra di gente brutta e cattiva, dove accodarsi? Il dilemma è presto svelato: al Boston Music Room, locale gemello ed attiguo al Dome, suonano stasera i Cattle Decapitation, una curiosa coincidenza ed una gatta da pelare per chi si ritrova ad essere fan di entrambe le band e deve giocoforza sceglierne una. Viene la tentazione di buttarsi dall’altra parte, ma per il momento desistiamo ed andiamo ad onorare il nostro programma originario, avviandoci con qualche titubanza al Dome insieme a personaggi di alta caratura intellettuale: un campionario ben assortito di occhiali dalla montatura spessa, crani rasati, lunghe barbe sfibrate, magliette con costellazioni o simboli esoterici assortiti e, dulcis in fundo, metallari non binari. Quasi stona il Matthew Scars che indossa una truce maglietta degli Asphyx...(#asphyx #vivavandrunen #intendersiveramentedideathmetal)

Aprono i Voices, di cui non vale la pena affliggersi più di tanto. Se due parole sul loro conto son troppe, almeno una la possiamo spendere: gli inglesi si offrono alla platea come una band di extreme metal di ultima generazione, un calderone non ben definito dove coesistono - non senza stridori - un'anima brutale ed una più piaciona. A volte spaccano il culo con il rigore di una band di brutal death, a volte si fanno scappare un tempo rock'n'roll del tutto fuori luogo, altre ancora ti spiazzano con un passaggio di voce pulita che non sfigurerebbe in un album dei Queens of the Stone Age. L'impressione, in conclusione, è che i Nostri non abbiamo ancora una identità ben definita. E senza particolari guizzi di originalità certe proposte non hanno molto significato in un mondo, quello di oggigiorno, popolato da ascoltatori smaliziati il cui cuore è refrattario al facile stupore. Procediamo serenamente oltre...

Gli Imperial in teoria hanno tutte le carte per stupirci e la missione stasera è capire quanta sostanza effettiva vi sia nella loro proposta al netto di maschere, videoclip ed inserti jazz che con molta probabilità saranno riproposti direttamente dal mixer come tracce pre-registrate. Ma adesso bando alle ciance, solo le 9 in punto e il cigolio di una orchestra jazz sgangherata ci introduce fra i grattacieli di una New York da bere. Senza bisogno di sgomitare ci troviamo fra le prime file, giusto in tempo per l'attacco di "Tower of Glory, City of Shame": un caos indistinto in cui il growl di Zachary Ilya Ezrin è un borbottio lontano che si perde fra lo stridore di smerigliatrici e martelli pneumatici. Difficile giudicare l'operato della band in questo primo frangente tanto i suoni sono poco a fuoco. Fortunatamente le cose miglioreranno con i brani successivi, ma lo dico subito a scanso di equivoci: è stato un concerto che ha impegnato più la testa che il cuore. 

Di jazz nella scrittura dei brani ce n’é veramente poco, questo va detto: i Nostri, piuttosto, sembrano dei Voivod incattiviti a cui hanno tolto il reddito di cittadinanza. C’è poi da aggiungere che la spocchia newyorkese stasera si affetta con il machete: non sono molto loquaci i Nostri e le stesse maschere (suggestive quanto vi pare) creano una distanza incolmabile fra musicisti e pubblico, a partire dal fatto che è strano sentire cantare e non veder muovere la bocca. Ovviamente i Nostri non proferiranno una sillaba fra un brano e l'altro, neanche un grazie ai quei cinquanta cristi che sono venuti a vederli, ma non ci formalizziamo, è il gioco delle parti: gli Imperial fanno gli stronzi, ma si capisce che non lo sono davvero e che sotto sotto, dietro le maschere, mentre assumono pose plastiche e studiate, se la ridono alla grande. Il pubblico ricambia con lo stesso aplomb (ci abbiam provato a pogare in due, ma evidentemente non siamo stati contagiosi...). 

In questo tour post-pandemico il trio porta sul palco una scaletta ben bilanciata che vede rappresentati in egual misura gli ultimi tre album. I brani tendono ad assomigliarsi in modo inquietante tale è la coerenza stilistica dimostrata dalla band negli ultimi anni. Non sono mancati tuttavia i diversivi, cosa molto gradita che ci ha aiutato a buttare giù un boccone altrimenti veramente duro da digerire: abbiamo dunque assistito all'immancabile rito della benedizione con lo champagne ed anche all'assolo di basso da parte di uno scatenato Steven Blanco

Entrambi i momenti ci sono stati offerti in occasione di "Transmission to Mercury", che si apre con i toni pacati di un piano jazz ed una tromba sorniona, con Ezrin che stappa una bottiglia (se è champagne, spumante o prosecco del discount questo lo avranno capito solo i "fortunati" in prima fila) e, con fare cerimonioso, ne riversa il contenuto un po' qua e un po' là, per poi passare il testimone, sempre in modo solenne, ad un invasato Blanco. In questa scenetta sta secondo me la cifra stilistica della band che, non senza ironia, attualizza la vocazione ritualistica del black metal introducendola nei salotti radical chic dell'upper class e prestandola alla critica all'opulenza, alla corruzione spirituale ed al materialismo della società post-capitalistica di cui la Grande Mela ne è fiera rappresentante (lo ricordiamo a chi lo ignorasse e che per motivi inspiegabili fosse giunto a questo punto della lettura: il concept lirico/visivo/musicale della band si basa sulla città di New York - la stessa maschera di Ezrin richiama il volto stilizzato e scheletrico della Statua della Libertà mentre quella di Blanco la celeberrima statua del toro di Wall Street). 

Finito il brano, il buon Blanco si lancia in un rimbombante assolo di basso che lo vede persino penetrare di persona fra il pubblico per poi completare l'opera sulle assi percuotendo il suo strumento ai limiti della tortura e lambendo esiti psichedelici. Blanco è una figura fondamentale per gli Imperial Triumphant e non solo perché esegue le parti di pianoforte e sintetizzatori su disco ed è autore degli accattivanti videoclip della band. Se è vero che Ezrin, diviso fra voce e chitarra, ha l'onere di doversi far carico della sostanza del suono della band, Blanco si rivela il vero mattatore della serata, scatenato performer sul palco nonché ottimo bassista (ricordiamo che suona senza plettro e che il pulsare delle sue quattro corde, talvolta belle effettate e riscaldate da un vibrante wah-wah, è la vigorosa spina dorsale che sorregge le fughe dissonanti delle sei corde, le quali, nella loro pazza corsa, a volte perdono in consistenza). 

Entrati nel giusto mood lo spettacolo diventa apprezzabile. Per quanto mi riguarda (ma c'è da dire che in questo mi ha dato una mano l’alcool) il clic nella testa è avvenuto a partire da "Merkurius Gilded" che mi ha gasato nella sua velocità supersonica (paradossalmente i momenti più interessanti si hanno avuti quando la band ha premuto il piede sull’acceleratore, raggiungendo l’intensità panica del black metal più ortodosso – alla faccia del jazz!) per poi raggiungere il climax con il "classicone" "Chernobyl Blues" che con la lunga introduzione fumosa ed atmosferica ha costituito il frangente più rilassante della serata. 

Insomma, è stato un crescendo: gli Imperial ti sono arrivati poco a poco, schiaffo dopo schiaffo, pantomima dopo pantomima, con una presenza sul palco effettivamente importante e con la componente scenica che indubbiamente aiuta (le pose assunte da Ezrin e Blanco conferiscono un carattere rituale alla critica sociale professata dalla band). Ma proprio quando mi stavo iniziando a divertire il concerto è di colpo finito, con un solo bis (una devastante e senza diritto di appello "Swarming Opulence") e dopo appena un'ora di durata. Fatemi capire, questi son venuti da New York per suonare un'ora? Siamo veramente al minimo sindacale, ma neanche qui ci formalizziamo: in fondo chi li regge questi per più di sessanta minuti? 

Esco soddisfatto dall'esperienza, ma per evitare di andare a letto con i polli, visto che sono solo le 10, decido di fare un'ultima tappa nella zona fumatori all’aperto che il Dome condivide con il Boston. Apprendo che, mentre gli Imperial si tolgono lo smalto dalle unghie, i Cattle Decapitation stanno ancora dando il cuore dall’altra parte. Resisto a tutto tranne che alle tentazioni, diceva Oscar Wilde, pertanto è questione di un solo attimo che mi ritrovo al di là della barricata fra gli amici dei Cattle. E quello che mi si para davanti è uno scenario del tutto diverso: gente scatenata, svestita, urlante, pogante, adulante e dei grandissimi Cattle Decapitation che dispensano impagabili emozioni sul palco. 

C'è ancora tempo per gli due ultimi brani della serata, “Time’s Cruel Curtain” e “Death Atlas” (intervallati dall’intermezzo “The Unerasable Past”), roba da pelle d’oca. I Nostri hanno dato tutto e lo sforzo profuso si misura sui corpi madidi di sudore e sui visi stravolti ma ancora pulsanti di vita. Non sembrano nemmeno più un gruppo death/grind tanto la materia sonora si è deteriorata nel frattempo: un suono complessivamente pastoso, sbavato ma vibrante, dal tiro a dir poco apocalittico, in linea con il messaggio ecologista della band. La voce del buon Travis Ryan è tirata, stridula ed acuta, sembra quasi un Udo stravolto che si aggira moribondo nel bel mezzo di un incontro di wrestling. Ma che gran cuore hanno i Cattle! Contrariamente agli snob newyorkesi di prima, i Nostri sembrano aver dato tutto, badando alla sostanza ed alla musica suonata. Emblematica rimarrà la scena in cui Ryan sputa in aria, prende al volo lo sputo con la mano e se lo appiccica alla maglietta: un gesto non eclatante, quasi fatto per sé stesso e non per il pubblico - chissà, forse si è pentito di aver sputato per aria in tempi di Covid e ha provato a rimediare: un atto di rispetto per il pubblico, se così fosse. 

Grandissimi Cattle! Non voglio dire che son stati meglio due loro pezzi che l’intero concerto degli Imperial, ci mancherebbe altro: son due cose diverse e per certi aspetti incomparabili. Però il "pacchetto completo" cervello + cuore si è fatto decisamente gradire, in quello che potremmo definire un brutale congresso sulle sorti del nostro pianeta: pur con forme di espressione decisamente diverse, le due band sembrano infatti voler combattere la stessa battaglia, portando avanti una feroce critica ad un presente che, nelle sue logiche perverse, ha tutto il potenziale per compromettere per sempre il nostro futuro...

​We forget our lavish life
And seek luxury in death
Emptiness through decadence
And madness through beautiful greed

("Swarming Opulence")

We deserve everything that's coming!
We deserve everything that's coming!
We deserve everything that's coming!
We took this world to our graves!

("Death Atlas")