Recentemente, nelle mie giornaliere elucubrazioni metalliche, ho fatto questo pensiero: presumo che, tendenzialmente, ogni appassionato
di musica divida i gruppi/artisti in tre grandi categorie: quelli che apprezza/ama, quelli che detesta/non
gli piacciono e quelli che gli stanno indifferenti o piacciono “così così”.
Comincio con questa lapalissiana
cagata semplicemente per dire che, personalmente e in relazione al Mondo Metal,
a queste tre macro-categorie aggiungo una quarta. Cui appartengono quelle band
di cui non posso che constatare, e quindi riconoscere, grandezza, classe e
originalità.
Ma che non hanno la caratteristica di smuovermi le budella, di
farmi “vibrare”. Insomma: non mi emozionano. E quindi solo rarissimamente, e
neppure con grande entusiasmo, ne riascolto la discografia.
Tra queste, l’esempio per il
sottoscritto più macroscopico sono i Voivod.
Ne parlo perché quest’estate è
ricorso il decimo anniversario della scomparsa di Denis “Piggy” D’Amour,
storico chitarrista della band del Quebec, portato via nel giro di poche
settimane da uno dei più terribili dei tumori, quello al colon, che raramente concede scampo.
Premesso che per parlare
diffusamente e con precisione della band canadese bisognerebbe scrivere una
piccola enciclopedia dedicata, vi dico subito che io i Voivod non li capisco. Non li ho mai capiti.
Cos’è ‘sta storia del Voivod, sorta di divinità vampiresca partorita dalla
mente, evidentemente alquanto malata, del batterista Michel Langevin, in arte Away?
Come si fa a star dietro alle sue avventure e ai suoi viaggi? E poi queste tematiche post-apocalittiche e/o
post-nucleari in salsa futuristico-spaziale cosa davvero rappresentano?
Se poi proprio ci si vuole
estraniare dai fil rouge lirici che
collegano le diverse produzioni discografiche della band (il che vorrebbe dire
perdere molto del contenuto sostanziale della proposta del quartetto ma forse mantenere un sano equilibrio mentale), non si
ha molta fortuna in più se ci si sofferma "solo" sulla colonna sonora che li
accompagna...Technical Thrash, approccio punkettaro (soprattutto nelle prime
produzioni e nell’uso delle vocals del grande Denis Bélanger, in arte Snake),
psichedelia come se piovesse, dissonanze e tempi dispari, acidi assolo,
fraseggi jazzistici, stop-and-go spiazzanti e chi più ne ha più ne metta.
Se a tutto questo ci aggiungiamo
la formazione classica dello stesso Piggy, particolarmente riscontrabile nel
songwriting di molti album, allora si
potrà capire come affrontare l’ascolto di un disco dei Voivod sia impresa più
che ardua.
Insomma, io i Voivod cerco di non
ascoltarli! E se ogni tanto non resisto, vado direttamente alla loro produzione
della seconda metà degli anni ottanta (per quanto anche quella anni '90 non sia
per nulla male, anzi!), quando fecero uscire un trittico di album pazzeschi:
“Killing Technology” (1987) e “Dimension Hatross” (1988) sono due full-lenght
assolutamente devastanti, sia concettualmente che musicalmente.
Ma poi c’è “Nothingface” (1989).
E’ difficile spiegarlo ma nessuno mi può togliere dalla testa che “Nothingface” sia uno dei dieci album più importanti e
rappresentativi del Metal anni ottanta. Ma del Metal tutto intendo, non di un
singolo genere metallico!
Ma se mi si chiede il perché, la mia risposta è…boh!!
Non ne ho idea! L’ho ascoltato a più non posso, lo riascolto tutt’oggi e
continua a essere per il sottoscritto un oggetto misterioso. Non ci capisco
nulla. So solo che è incredibile, che ad ogni ascolto ti rivela mille nuove sfaccettature (prerogativa dei Grandi...). E che dentro ci ritrovi, in un continuo ossimoro sonoro, tutta
la Musica del mondo (perdonatemi l’iperbole, ma giusto per rendere l’idea): dai
Rush ai Motorhead, dai King Crimson agli Slayer, dai Pink Floyd ai Discharge,
dai Deep Purple ai Venom, dai grandi compositori della Musica Classica ai
Celtic Frost. Impossibile direte? No, con i Voivod si può e in particolare si
può con “Nothingface”!
Ad eccezione dell’opener “The Unknown Knows” (l’unica
song un po’ più “abbordabile” da un ascoltatore occasionale), brano di una
bellezza indicibile, e della superba cover di "Astronomy Domine" dei Pink Floyd, tutte le altre tracce sono piccole catastrofi psico-metalliche,
flussi incontrollabili privi di qualsivoglia struttura o formato. Non vi
troverete ritornelli da canticchiare o anthem
da urlare a squarciagola, ma solo cibernetiche staffilate musicali che fanno disorientare al primo ascolto come al centesimo. Tanto da poterci immedesimare negli ultimi versi di "Sub-Effect", pezzo conclusivo del disco: Troppo tardi per l'S.O.S. [...] / Nessuna ricerca, nessun salvataggio / Mi sono incagliato, sono differente / L'errore è perfetto / come un sub-effetto della mia mente
Facile no? Giusto per capire di cosa parliamo (e soprattutto di cosa parlano!).
Facile no? Giusto per capire di cosa parliamo (e soprattutto di cosa parlano!).
Poi penso che con tutta la
visionarietà e l’immaginazione possibile, ogni artista vada a pescare anche
dalla realtà quotidiana in cui è immerso. E allora provo a interpretare, o meglio a farmi la mia idea del "Mondo-Voivod": quegli ipercubi, quegli
specchi a raggi x, quelle architetture aliene di lovecraftiana memoria, quei mondi robotizzati, potrebbero non essere altro che la
rappresentazione della nostra società e delle nostre città alienanti, e nel loro
caso specifico le grandi metropoli del Nord-America (Montreal e Quebec City in
primis); non-luoghi da cui fuggire
con l’estro e la fantasia e in cui sublimare traumi, esperienze e sogni. Ma
anche il proprio amore per la fantascienza, lo spazio e l’astronomia. Tutti
elementi che riscontriamo costantemente nella produzione voivodiana.
Il loro problema, per sfondare
davvero sul mercato, è stato probabilmente il fatto di essere avanti anni luce
rispetto al resto della concorrenza. Troppo semplici&complessi assieme, troppo
visionari e al contempo troppo brutali e a-commerciali. E poi tutte le sfighe
collegate a problemi personali, l’incidente stradale quasi mortale che
coinvolse il nuovo cantante Eric Forrest, litigi con le case discografiche (ne
cambiarono 5 in nei primi 15 anni), l’impossibilità di andare in tournée in
Europa per molto tempo…e nonostante tutte queste disavventure sono ancora qua, a deliziarci e straniarci con i loro paradossi metallici. Che grandi!
E allora riposa in pace, caro
Piggy. La tua chitarra ha regalato alla nostra amata musica parti indelebili.
E Metal
Mirror, nel suo piccolo, vuole omaggiarle col tuo ricordo.