Venendo a parlare qui non ho un’agenda nascosta, sto solo lottando per il mio futuro. Perdere il mio futuro non è come perdere un’elezione o alcuni punti sul mercato azionario.
Sono qui a parlare a nome delle generazioni
future, a nome dei bambini che stanno morendo di fame in tutto il pianeta e le
cui grida rimangono inascoltate. Sono qui a parlare per conto del numero
infinito di animali che stanno morendo nel pianeta, perché non hanno più un
posto dove andare.
[…] Tutto ciò sta accadendo sotto i nostri occhi e ciò nonostante continuiamo ad agire come se avessimo a disposizione tutto il tempo che vogliamo e tutte le soluzioni.
La maggioranza dei
giovani d’oggi presumo conoscano Greta Thunberg ma non so in quanti, tra questi, abbiano mai sentito il nome di quella che potremmo definire come la Greta Thunberg del XX sec.,
cioè Severn Cullis-Suzuki.
La Suzuki, oggi 42enne attivista
ambientale, conferenziera e autrice, è anche conosciuta con la definizione de la ragazza dodicenne che ha silenziato il
Mondo per 6 minuti. Il riferimento è al discorso, di cui abbiamo sopra
riportato uno stralcio, che l’adolescente canadese tenne esattamente 30 anni
fa, durante il Summit di Rio de Janeiro, nel giugno del 1992, il primo di una
lunga serie di vertici su Clima e Sviluppo. Appuntamenti tanto attesi quanto
inutili dal punto di vista dei risultati ottenuti. Opportunità, agende,
tabelle, impegni…tanto “bla bla bla” che non si è mai tradotto in una vera
svolta, in un radicale cambiamento degli stili di vita e di produzione dei
paesi “sviluppati” (?). Cambiamento senza il quale, ovviamente, non potrà
neppure realizzarsi la svolta climatica che ormai, anche
avvenisse domani, sarebbe, con tutta probabilità, fuori tempo massimo.
L’intervento di Severn, per 6 minuti e
mezzo, zittì il consesso di politici, giornalisti e amministratori delegati che
erano di fronte a questa ragazzina dallo sguardo sicuro e dalla voce ferma nel
lanciare delle accuse verso una classe dirigente mondiale che già allora, pur
conscia del baratro verso il quale stava spingendo l’umanità a velocità folle,
non ha prodotto nulla di significativo se non lungimiranti propositi
contenuti in documenti dal titolo altisonante. Documenti rimasti per lo più lettera morta.
La giovane Suzuki, che già a 9
anni, nella sua Vancouver, aveva messo in piedi, assieme ad altri 4 coetanei,
un’organizzazione ambientalista dall’acronimo emblematico (la ECO, Enviromental
Children’s Organization), era riuscita, in quei 300” che vi consiglio
caldamente di ascoltare per intero qui, ad elencare nel dettaglio tutti gli
elementi che stavano portando la Terra verso la rovina e l’Umanità verso
un’estinzione autoinflitta e, dopo questi tre decenni lo possiamo dire, più che
meritata: deforestazione, effetto serra, regime alimentare, consumi, sovrapproduzione
di beni inutili. Tutto, nel monologo della Suzuki, era correlato e lucidamente
descritto.
Parole al vento, nonostante il
volto contrito e sinceramente (?) impressionato degli astanti.
Quando la Suzuki parlava a Rio,
Travis Ryan era un giovane diciottenne di Escondido, cittadina a nord di San
Diego, California. Non so se quel discorso lo sentì, né se lo influenzò quando
nel 1997 fondò i Cattle Decapitation. Ma pensarlo, non è un’ipotesi peregrina.
Se c’è un gruppo, infatti, che ha fatto dell’ambientalismo, dell’etica
alimentare e produttiva e della salvaguardia delle specie animali le sue
bandiere, questi sono i Cattle Decapitation. Travis Ryan & co., declinando
il tutto secondo l’estetica death-grind, non ha mai usato mezzi termini nel denunciare
tutti quegli elementi che la Suzuki aveva esposto nel suo storico intervento.
Oggi è il decimo anniversario dell’uscita di “Monolith of Inhumanity”, settimo full lenght dei Nostri e senza dubbio uno dei più importanti album di metal estremo della scorsa decade. I Cattle riuscivano, in poco meno di tre quarti d’ora, a spingere più in là un genere dai margini di manovra non troppo ampi, come il death/grind, commistionando con slabbrature sludge e rallentamenti doom la solita carneficina sonora cui i 4 californiani ci avevano abituato in passato (e avrebbero continuato a fare in futuro). Quello che ne usciva era un capolavoro del metal estremo, tra le punte più alte (la più alta?) della loro carriera ormai 25ennale.
E i testi di Ryan si presentavano
come sempre repellenti ma altrettanto esemplificativi della loro poetica.
“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”!
Potremmo riassumere così, dantescamente, il titolo e i primi versi della splendida opener “The
Carbon Stampede” (La fuga di carbonio);
versi che mettono subito le cose in chiaro: Il
disastro giunge a ondate / il tempo ci perseguita, ci consuma / con una pistola
fumante puntata alla nostra faccia. […] Intrappolando la Terra,
sprigionando azioni di totale virulenza ignorando le conseguenze / il più
vanitoso organismo sulla fottuta Terra-bara / Emissioni mortali, nati solo per
soffocare.
Ecco, cominciamo bene. La Terra è
la tomba dell’Uomo e la nostra vita è soffocata da subito dalle emissioni di
Co2 prodotte da noi stessi…come a dire: ci stiamo auto-infliggendo
l’estinzione (cfr. con il discorso di Severn di cui sopra).
Il prosieguo non è da meno, tra
invettive anti-cristiane, descrizioni della specie umana non proprio ortodosse
(per i Cattle l’essere umano è un pezzo di carne defecato che respira)
e altri tipici argomenti gore-death (lecca-cartilagini,
ovulazioni a proiettile e cambi di genere forzati).
Ma la tematica ambientalista
torna prepotentemente nella parte finale del disco, con l’ultimo, spettacolare,
trittico di brani. In “Your Disposal”, per chi scrive il migliore del lotto,
leggiamo:
[…] Su una montagna di rifiuti fatto dalle vostre mani / si erge il
monolite dell’inumanità / un’indistruttibile testimonianza della società
tecnologica / dalla spazzatura siamo emersi, schiavi desiderosi di servire / le
nostre dannate richieste dalle nostre dannate mani…uomo involuto. […] Nessuna
pietà, nessuna rappresaglia / nessuna seconda occasione.
E nella successiva “The Monolith”,
breve intermezzo prima dello straordinario finale di “King of Tyrants”, Ryan,
con dolore, si, e ci, domanda:
Qui, nel Giardino, non sappiamo cosa stiamo facendo / Fatti per mentire
in pascoli verdi / lasciati a morire nella sporcizia / Se ci era stato promesso
il Paradiso, perché siamo tutti all’Inferno?
Già…perché? E’ quello che si domandava trent’anni fa la
nostra Severn. E Ryan, a distanza di 20 anni,
ribadiva la struggente impellenza del quesito.
A noi, oggi, non resta che
ringraziare questi due personaggi pubblici che, tra i tanti, ci hanno fatto
riflettere, e continuano a farlo, con le loro rispettive attività, sullo stato dell’arte della distruzione della
nostra Unica Casa in cui poter abitare.
In chiusura, lasciamo ancora voce
alla Suzuki che, premettendo l’insegnamento di suo padre che le diceva 'Noi
siamo quello che facciamo, non quello che diciamo', arringava i Potenti del
Mondo con queste ultime parole:
Sono solo una bambina ma so che se tutto il denaro speso in guerre
fosse destinato a cercare risposte ambientali, terminare la povertà e per
siglare degli accordi, che mondo meraviglioso sarebbe questa Terra! I genitori
dovrebbero poter dire ai loro figli: ‘Tutto andrà a posto. Non è la fine del
mondo, stiamo facendo del nostro meglio’. Ma non credo voi possiate dirci
queste cose. Siamo davvero nella lista delle vostre priorità?