Trentatreesima puntata: Gris – “Il était une Forêt... ” (2007)
C'era una foresta...
Sono probabilmente le foreste del Quebec, i paesaggi mozzafiato di questa selvaggia porzione del Canada ad ispirare la musica di questa entità superiore. Si è visto che nel depressive black metal gli ambiti di manovra sono angusti, ma anche che, una volta pienamente calati nei meandri del genere, è possibile individuare tendenze e sostanziali differenze fra filoni e scuole di pensiero: dalle estrinsecazioni più sfilacciate e minimaliste ai lavori più complessi ed elaborati, il DBM si è dimostrato un sotto-genere che possiede una discreta, benché limitata, capacità di spaziare stilisticamente, abbracciando diverse “sfumature di grigio”.
A proposito di grigio, i canadesi Gris (dal francese grigio, appunto) si ergono con grande autorevolezza fra le macerie sonore di un filone musicale votato in tutti i sensi all'auto-distruzione, probabilmente rappresentando la forma più “alta” e nobile che certo black metal depressivo e/o atmosferico abbia saputo incarnare nella sua storia trentennale...
I Gris sono un misterioso duo che proviene dal Quebec. Poco o nulla si sa di coloro che si nascondono dietro agli pseudonimi di Neptune ed Icare, nemmeno i volti sono noti al pubblico. I due (quando ancora Icare si faceva chiamare Orion) iniziarono il loro percorso insieme nel 2004 sotto l'insegna dei Nifheim, che tuttavia ebbero vita assai breve. Sotto quella dicitura sono stati rilasciati quattro demo e l'album "Neurasthénie", del 2006. Nel medesimo anno si ebbe dunque il cambio di nome in Gris, passo che costituì la naturale evoluzione dell'esperienza precedente, tanto che "Neurasthénie" sarebbe passato di diritto sotto la nuova ragione sociale, costituendone il debutto ufficiale.
In data odierna parleremo del secondogenito “Il était une Forêt...”, uscito l'anno dopo e capolavoro indiscusso della band - ma attenzione, ragazzi, come dicevo sopra siamo di fronte ad una entità superiore che non si limita ad una sola stoccata vincente, e sebbene la discografia dei Nostri risulti ad oggi assai risicata, il successivo superlativo doppio-album "À l’âme enflammée, l’äme constellée", del 2013, rimane un ascolto obbligato per gli amanti di queste sonorità. Ma quali sonorità?
Il sound emanato da questo power-duo (con Neptune a chitarra, basso e violoncello, ed Icare alle prese con voce, pianoforte, violino e batteria) è corposo, solido, articolato e non chiaramente classificabile, tanto che i Nostri sono anche etichettati come atmospheric black metal. Etichette a parte, doveroso diviene includerli nella nostra rassegna sul depressive, visto che i Gris presenziano sistematicamente nelle zone alte delle classifiche in rete dei migliori album di questo sotto-genere.
Che ci troviamo davanti ad un prodotto non conforme lo capiamo dalla copertina, fin troppo colorata rispetto agli standard del genere. Anche il tratto della stessa è peculiare e a me personalmente ha ricordato quelle immagini stilizzate ed arcaiche che spesso hanno campeggiano nelle copertine di certe estrinsecazioni più spirituali del post-hardcore. Non affermo questo a caso, in quanto l’impatto della musica dei canadesi mi ha suscitato una sensazione che di rado percepisco, che ho conosciuto con i Neurosis e che ho più recentemente sperimentato con gli Amenra. Parlo di quella carica terremotante, primordiale, lacerante, quel “grido dal profondo” che sa coniugare Io ed Universo, sofferenza individuale e tragedia universale. Prendete con le pinze questa mia definizione, ma potremmo inquadrare il suono dei Gris come il riuscito incontro fra il Burzum di "Filosofem" e i Neurosis di "A Sun That Never Sets": da un lato la spigolosità, la poesia del black metal, dall'altro quelle costruzioni complesse che sanno alternare con grande equilibrio muri di suono potentissimi e fasi più meditative.
L'album parte in pompa magna e mostra il suo grande valore già dai primi clamorosi minuti. Dopo pochi secondi di quiete, la title-track si riversa prepotentemente nelle orecchie dell'ascoltatore attraverso il frastuono di un epico riff di scuola burzumiana e cori apocalittici. Poi il tutto si interrompe, il muro di suono frana di colpo e lascia spazio ad un rancido arpeggio elettrificato che costituirà l'ossatura della marcia dolente che seguirà. Il brano dura quasi dieci minuti ma non indugia in lentezze e ripetizioni, anzi si giova di un suono dinamico, stratificato (da lacrime le linee melodiche sempre sull'orlo della dissonanza) che contempla cambi di tempo, intrecci di chitarre e tastiere, ma soprattutto dei portentosi climax emotivi che riconducono questa musica alla dimensione emotiva del DBM più introspettivo e meno artefatto.
La produzione gronda sbavature, ma di quelle sbavature che non danno fastidio, ma anzi rendono ancora più genuino ed autentico un lavoro di questo genere. Il brano si ferma e riparte più volte, ora affidandosi alla potenza della chitarra, ora alla delicatezza delle tastiere, il tutto sorretto da una base ritmica elementare, bellamente fracassona, ma efficace nel conferire ulteriore umanità ad una traccia che sa coinvolgere dal primo all’ultimo istante.
Stupore. Quante volte oramai lamentiamo l’assenza di emozioni, di curiosità nel procedere nell’ascolto di un album, di cui, se si è scafati ascoltatori di metallo, si riesce ad intuirne gli sviluppi fin dai primi minuti. Qui invece l'ascolto diviene una girandola di emozioni imprevedibile che ti tiene incollato fino alla conclusiva strumentale “La Dryade”, fra carezze di pianoforte ed archi a tratteggiare un desolante requiem, chiosa ideale per l’apocalisse sonora descritta dai cinque brani precedenti.
Nei 59 minuti dell'album i brani cambiano spesso volto, ora facendosi espressione di un suono massimalista, maestoso, ora di uno scavo spirituale che parla il linguaggio delicato della chitarra acustica e del pianoforte (da rimarcare l'utilizzo anomalo che si fa del violino, per lo più pizzicato e lasciato passeggiare nel bel mezzo dei flutti elettrici delle sei corde). Icare è un crooner che si presta ai continui rivolgimenti dei brani, principalmente attraverso uno screaming esasperato che solca la pura teatralità, ma senza rinunciare a passaggi di sofferto recitato che la lingua francese rende ancora più unici.
Attenzione, anche i testi costituiscono una peculiarità per il genere: vale la pena darci una lettura, sebbene essi siano in francese e, per chi non conosce la lingua, debbano essere tradotti. Visionari e pregni di simbolismi come pochi, essi inanellano una serie di figure allegoriche che vanno a dipingere in modo vivido un universo di dolore che riconduce inevitabilmente ad una visione del mondo pessimista, perennemente sospesa fra impeto romantico e disperazione abbacinante.
C’è da dire che la musica, nella sua complessità e nelle sue molteplici sfaccettature, ha una sua vitalità, un che di consolatorio, riparatorio, catartico, potremmo dire: come se l’espressione così enfatica ed ostentata del dolore fosse anche la cura per lo stesso. Contrariamente a molti nomi del depressive che giocano a perseverare nei circoli viziosi di una umanità irrisolta (se la soluzione c’è, ossia il suicidio, essa si concretizza sempre nello spazio appena fuori dall’opera artistica, dove invece si celebrano proclami ed intenti), la musica dei Gris rappresenta una parabola vitale, un percorso di rigenerazione, un viaggio di ricerca esistenziale...
"C'era una foresta, dove l'avidità dell'uomo era solo l'ombra di un passato pesante
C'era una foresta, dove la corteccia dell'albero rifletteva la bellezza di un mondo perduto
C'era una foresta, dove la canzone della notte ha risvegliato il sole di un'altra vita”