Eviteremo di ricomprendere nella nostra cernita dischi già trattati nel corso della stagione (ad esempio, per le uscite di heavy classico, vi rimandiamo al nostro apposito post), o di quelli griffati da calibri da 90 sui quali avrete già letto e sentito di tutto: Dark Tranquillity, Flotsam and Jetsam, Nightwish, Rotting Christ, My Dying Bride, Darkthrone, Bring Me the Horizon, Leprous, Ulver e Marilyn Manson, giusto per tirarne giù una decina appartenenti ai più disparati filoni metallici.
Invece, su un altro paio di album, Devin Townsend e Opeth, sarà opportuno
fare un discorso più ampio con un post ad
hoc che ci riserviamo di
pubblicare quanto prima.
Insomma, tra scelte obbligate e tagli dolorosi, ogni mese sarà rappresentato perché, come sappiamo, il metal non dorme
mai e ci accompagna 365 giorni all’anno. Come l’anno passato, 30 album, con
annesse, mese per mese, delle menzioni
onorevoli (a placare il nostro
atavico senso di colpa). Si parte con la prima quindicina. E lo si fa alla grande
con gli…:
hauntOLOGIST – “Hollow” (08/01): giusto il tempo di concludere festeggiamenti natalizi e auguri befaneschi, che il metallo ci fa risprofondare nella
cupa malinconia con questo splendido debut album di post-black del duo polacco
Hauntologist (la corretta grafìa, si badi bene, è quella trascritta sopra).
Dietro al nickname Darkside si cela in realtà Maciej Kowalski che
conosciamo per i suoi trascorsi nei Kriegsmachine e, soprattutto, nei Mgła. Siamo sempre nel solco
dell’inflazionatissimo post-black melodico tanto in voga negli ultimi anni ma i
Nostri sono capaci di restituirci composizioni molto personali, grazie a un
songwriting sempre “a fuoco” in cui la matrice black si sposa perfettamente con
stilemi post-rock e ambient, a donare un particolare tocco melanconico da
‘piovosa giornata invernale’. Promossi al primo colpo!
Ὁπλίτης (HOPLÍTES) – “Παραμαινομένη” (12/01): la traslitterazione alfabetica,
dal greco, del titolo dell’album in questione, Paramainoméni, sta a
significare perpetuato. E il nome della band, soldato (i gucciniani conosceranno già il termine oplite). E quindi
tuffiamoci nella Grecia antic…ehm, no. Fermi fermi…la Grecia non c’entra ‘na
beata m°*!”a! Perché il mastermind del progetto Hoplítes, tal Πτολίπορθος (Ptoliporthos)
altrimenti noto come J.L., ragazzo classe 2000, non è greco
bensì…cinese (sic)! E per la precisione di Ningbo, provincia dello Zhejiang, a
sud di Shangai. Seppur, a quanto pare, il ragasso si sia spostato in
tempi recenti a Parigi. Affetto da bulimia compositiva (4 full lenght in 2 anni
per lui), J.L. tira fuori un disco originalissimo in cui un furente technical
death si sposa con una serie di altri stilemi che spaziano dal prog fino al black (soprattutto nell'utilizzo delle vocals) passando per il free form.
Per chi è alla ricerca di emozioni forti e proposte nuove, questo progetto sino-franco-ellenico fa per lui!
SGÀILE – “Traverse the Bealach” (19/01): seconda fatica per Tony Dunn, uomo solo al comando del progetto Sgàile (ombra, in scozzese). Supportato
dalla nostra Avantgarde Rec., il buon Tony ci propone una sorta di malinconico
progressive post-metal che fa incetta di diversi registri (atmospheric, folk,
bordate nu in alcuni passaggi e riff portanti). L’opera è attraversata
da un forte flavour epico tanto da farci immedesimare in quel viandante,
armato solo di una pelliccia e di un nodoso bastone, che, di schiena, guarda di
fronte a sé il lago da attraversare del titolo, coronato da una
catena montuosa. Tutti i brani hanno pari valore in questo ideale viaggio tra
le lande montuose scozzesi ma, personalmente, ho trovato particolarmente
ammaliante l’accoppiata finale “The Brocken Spectre” (sì, col ck) –
“Entangled in the Light”.
Cornamusa in spalla e kilt allacciato in vita, approcciate con spirito avventuriero
questo splendido disco…
VEMOD – “The Deepening” (19/01): Dark
ethereal metal. Così si autodefiniscono i Vemod (parola
piuttosto particolare che, impossibile da tradurre in italiano, identifica a
grandi linee uno stato d’animo nostalgico del passato), terzetto norvegese
che, in appena 4 lunghi brani (+ 2 brevi strumentali) confezionano quello che,
per chi scrive, è il miglior album di black atmosferico del 2024. I
canoni del filone sono tutti rispettati: ritmiche battenti ma soffuse, un
sofferente scream disarticolato e suggestivo e moduli burzumianamente
ricorsivi. Ma, a distaccare l’opera dalla massa, è l’ispiratissimo lavoro alle
sei corde che guida le lunghe composizioni verso lidi di mesta bellezza. Le
linee melodiche, tra riff gelidi e caldi arpeggi (a tratti ai limiti del post-rock), sono tutte meravigliose, le
armonie tanto semplici quanto emotivamente potenti, facilmente memorizzabili. Per un risultato finale che commuove ad ogni
passaggio.
Fate questo viaggio tra i Fiordi
di Namsos…lì, Der guder dør (Dove gli dei muiono)
CALIGULA’S HORSE – “Charcoal
Grace” (26/01): dopo l'ottimo “Rise Radiant”, tornano trionfalmente sul mercato i progsters
australiani con un disco che è quanto di meglio il prog metal nella sua forma
‘classica’, seppur rivista e corretta secondo i canoni contemporanei (cioè con
spruzzate di math/djent/-core nei riff portanti) possa oggi offrire a livello
mondiale. Un’ora di eleganza compositiva senza cedimenti, senza filler in cui a
rifulgere è un songwriting che sapientemente fonde assieme sezioni ariose e
melodiche, assoli di heavy classico e riffoni portanti dalla tempra decisamente
metallosa. I singoli prescelti (le buonissime “Golem” e “The Stormchaser”)
sono solo un assaggio, e nemmeno il più appetitoso, di quello che troverete nei
62’ del platter. L’opener “The World Breathes with Me” ammalia e impatta nei
suoi 10’ di saliscendi emotivi, con un Jim Gray che si conferma uno dei singer
più talentuosi in circolazione; mentre la title track, suite in 4 movimenti
della durata gargantuesca (quasi 25’), è di una bellezza e raffinatezza rara.
Ma il meglio, i Nostri lo riservano nel finale: i 12’ di “Mute” sono,
semplicemente, quanto di più bello potrete ascoltare nel 2024. Insomma, secondo, nella loro produzione, solo all’inarrivabile “In Contact”, “Charcoal Grace” è un disco superlativo, un
semi-capolavoro che non potrà deludere!
DISSIMULATOR – “Lower Form Resistance” (26/01): ma cosa si
respira nel Canada francofono?! Saranno le essenze che emanano le foreste
di pioppi e abeti a rendere così ispirati i musicisti? O lo sciroppo d’acero
con il pancake a colazione? Sia quel
che sia, sta di fatto che la provincia québechiana è sempre stata
foriera di grandi gioie metallare. Non fa eccezione questo debut album dei
Dissimulator, super-trio di Montréal che, riprendendo in modo evidente
l’eredità dei Numi Tutelari Voivod, loro conterranei, mettono assieme 40 minuti
di notevolissimo technical thrash (con voce death) a tema sci-fi e tecnologico
(la copertina è programmatica, in tal senso). I tre giovini sfruttano al
meglio il total running time a disposizione per condensare molte idee,
supportati da una tecnica sopraffina. Idee che con un piede guardano alla
tradizione (Voivod, Coroner, Vektor, svisate à-la Atheist e le lezioni del
sempiterno Chuck) e con l’altro esprimono la loro personale visione del thrash
degli anni correnti. Epifanici!
MADDER MORTEM – “Old Eyes, New Heart” (26/01): mi cospargo il capo
di cenere per non aver conosciuto prima questo straordinario ensemble di Oslo, ormai a giro da un
quarto di secolo e giunti al loro ottavo full lenght! “Old Eyes, New Earth” ci offre 48’ di articolato, a tratti straniante, prog
rock/metal che non disdegna diverse digressioni in territori doom/dark/psych e,
a tratti, persino groovy. Ma l’offerta sonora va al di là di qualsiasi
etichetta, essendo la sorpresa sempre dietro l’angolo, con ogni brano che
rifulge di un’originalità tutta sua e che, anche al loro interno, sanno
spiazzare in modo intelligente l’ascoltatore. Su ogni passaggio aleggia,
austera, profonda ed espressiva, la voce dell’ottima Agnete Kirkevaag. I
sentori, giusto per rimanere in Norvegia, vanno dalle cose più “morbide” degli
In the Woods…alle recenti, sensazionali prove dei connazionali Meer e Seven Impale. Non per tutti ma davvero sorprendenti!
Menzioni onorevoli di gennaio: EXOCRINE – “Legend”
(26/01)
ETERNAL STORM – “A Giant Bound to Fall” (16/02): ma facciamoci un giro in Spagna, dai! Che da quelle parti raramente si va per cercare forme metallare davvero degne di nota. E i madridisti Eternal Storm (ehm…in realtà trapiantati in Terra d’Albione) lo sono, eccome! Ma dimenticatevi umori mediterranei e landscape soleggiati: in “A Giant Bound to Fall” (titolo dell’anno, per me) sembra di stare in Scandinavia in pieno inverno…melodic death/prog metal coi controrazzi quello proposto dai Nostri che pescano a piene mani dalla vecchia (Amorphis e Insomnium su tutti) e nuova (Be’lakor, Swallow the Sun) scuola. Brani lunghi, articolati ma che scorrono via che è un piacere grazie a un altissimo tasso emozionale in cui sfuriate melo-death con growl vocals si alternano ad aperture ariose, solos di heavy classico e commoventi arpeggi che si intersecano con trame di tastiera enfatiche il giusto. I primi 20’ dell’opera (“An Abyss of Unreason” + “A Dim Illusion”) sono da incorniciare, mettendo in mostra tutta la versatilità del songwriting della band. E il resto non è da meno, con picchi notevoli raggiunti in “Lone Tree Domain” e nella title track conclusiva. Super-rivelazione!
COUNTING HOURS – “The
Wishing Tomb” (23/02): monicker e
titolo da suicidal BM per questi finlandesi che, in realtà, sono fautori
di un melo-doom di lacrimevole bellezza. E non ci stupisce il fatto che le due
asce della band abbiano fatto parte in passato degli Shape of Despair, una delle colonne del funeral doom. Ecco, forse proprio despair
è il termine che più calza per la proposta dei Nostri che si muove tra effluvi
gotici ed esplosioni death-doom di britannica matrice, non perdendo mai di
vista toccanti linee melodiche. Preparate i kleenex e scendete in questo agognato sepolcro…
SLEEPYTIME GORILLA MUSEUM – “Of the Last Human Being” (23/02): no
vabbeh…questo disco vince la palma come album
più folle del 2024! Faccio mea
culpa perchè non conoscevo questo quintetto californiano che, costruendosi
addirittura degli strumenti per se stessi (sic!), portano in scena, con spirito
totalmente destrutturante e dadaista, un rock/metal d’avanguardia in cui si
spazia dal prog metal a sentori medievaleggianti, dal circense al folk,
dalla musica da camera al rock demenziale fino all’avantgarde-black di “The
Gift” (ri-sic!). Zappa e Capt. Beefheart sarebbero fieri di questi loro ideali
discepoli che, davvero, suonano come nessun altro. Comprate il vostro biglietto
ed entrate in questo Parco Avventura
dove tutto può accadere!
Menzioni onorevoli di febbraio: NECROWRETCH – “Swords of Dajjal” (02/02); MORBID SAINT – “Swallowed by Hell” (09/02); PONTE DEL DIAVOLO - "Fires Blades from the Tomb" (16/02); BORKNAGAR – “Fall” (23/02)
ATROPHY – “Asylum”
(15/03): il periodo del tardo-thrash, quello a cavallo delle due decadi 80/90,
seppe ancora esprimere fior fior di album da una pletora di band che,
all’epoca, vennero considerati “minori” ma che, con uno sguardo retrospettivo,
avevano in realtà grandi capacità tecnico-compositive; e i cui album vanno a
creare il sottostrato fondamentale sulle spalle del quale il genere ha saputo
sopravvivere e arrivare, con alterne fortune, fino ai nostri giorni. E
quest’anno, proprio come i succitati colleghi Morbid Saint, a distanza di 34
anni tornano gli Atrophy che, di quel periodo, sono stati uno dei nomi più
significativi. Del quintetto originario, oggi sopravvive solo il singer Brian Zimmerman il quale si carica di
tutto il fardello lirico e compositivo e sfodera questo “Asylum” (dalla
copertina sensazionale!): tre quarti d’ora di super thrash classico ma che
suona fottutamente moderno. Come genere vuole, il sound è portato avanti da
chitarre affilate ma corpose, sezione ritmica travolgente e una voce, quella di
Brian, che non ha perso un briciolo in cattiveria e capacità interpretative.
Non ci sono cali di tensione o filler, con diversi highlights (“Close My Eyes”
e “Five Minutes ‘til Suicide” su tutte) a impreziosire un album che potremmo
sicuramente indicare come il miglior album di genere del 2024. Bentornati!
HAMFERÐ - “Men Guđs Hond Er Sterk” (22/03): ma la mano di Dio è forte…dietro il titolo di questa terza fatica dei
færøeresi, si cela una storia drammatica di morte e insperata
salvezza (14 marinai che persero la vita durante una caccia alle balene).
Un’opera di concetto, che vuole ripercorrere il fatto tragico simulando una
discesa tra i flutti dell’oceano che circonda l’arcipelago, fatta di una
struttura melodic death/doom e in cui le tastiere di Esmar Joensen da un lato e
la mutevole voce di Jón Aldará (che ripeterà, nel 2024, la prestazione anche
con i danesi Iotunn, nell'ottimo “Kinship”), ora cavernosa ora di una
pulizia sublime, creano un intenso pathos. Un’opera in cui l’insieme è maggiore
della somma delle parti e che, nel suo genere, rappresenta una delle uscite più
significative dell’anno.
DÖDSRIT – “Nocturnal Will”
(22/03): gli svedesi Dödsrit, giunti al loro 4° full lenght, abbandonano definitivamente
le loro origini crust per abbracciare in toto un melo-black dai forti
connotati epici. Il risultato, introdotto da una copertina di rara bellezza, lo
possiamo ritrovare condensato subito nelle prime due, lunghe composizioni di
questo “Nocturnal Will”: i 10 minuti dell’opener “Irjala” (in cui un inizio e
un finale melo-black all’arma bianca, sono intervallati da intermezzi
arpeggiati dal gusto folkish da pelle d’oca) e gli 8 di “Nocturnal Fire”. Il
disco procede filato, tenendo alta la qualità delle composizioni che, pur non
brillando di originalità (tutta la tradizione svedese del death e black
melodico è qui richiamata), sanno emozionare. E per noi, cuori sensibili, ci
basta, e avanza, per annoverarli in questo brainstorming…
KÓLGA – “Black Tides” (29/03): vi ricordate John Travolta che balla il twist
con Uma Thurman nella mitica scena di “Pulp Fiction”?! Ecco: prendete
quella colonna sonora, aggiungete una bella dose di surf rock à-la Beach
Boys, una spruzzata di psichedelia sessantiana e, dulcis in fundo…un
efferato screaming blackish! Ebbene si: questi 5 pazzoidi texani, formatisi nel
2018 ma con alle spalle miriadi di progetti precedenti, riescono a fondere, con
un approccio irriverente e fantasioso, mondi apparentemente inconciliabili,
quando non antitetici. Theremin, nacchere, organo, gong, glockenspiel,
tamburino, waterphone: ogni strumento è buono (persino l’utilizzo del
battimani!), in questi geniali 27 minuti, per creare un sound che,
oggettivamente, possiamo definire “diverso”, di un’originalità mai fine a se
stessa. E, datemi retta, un brano come “Thetys” è letteralmente da consegnare
ai posteri. Forza, allora: tutti in pista a ballare al ritmo delle Maree Nere!
Menzioni onorevoli di marzo: SKELETAL
REMAINS – “Fragments of Ageless” (08/03); GIVRE - “Le Cloître”
(29/03)
IN VAIN – “Solemn” (19/04):
appena 5° album in oltre 20 anni di carriera. Torna il sestetto norvegese,
composto da tutti i live session di cui si sono avvalsi in passato i Solefald
(più l’attuale batterista live di Ihsahn). Grande professionalità quindi per
una band che fa del progressive death/black la sua matrice. Ma è la profonda
evocatività del sound la caratteristica precipua di “Solemn”, capace di narrare
vere e proprie epopee in ogni brano, raggiungendo climax evocativi da pelle
d’oca nei chorus grazie all’interpretazioni magistrali di Sindre Nedland (il fratellino del più celebre Lazare dei Solefald). Non c’è un brano sottotono in questo tomo di
61’ ma nota di merito per “At the Going Down of the Sun”, con i suoi intrecci
vocali da brivido, e per la conclusiva “Watch for Me On the Mountain” che
chiude il disco con un afflato epico che non può lasciare indifferenti. E
nemmeno noi lo rimaniamo…
Menzioni onorevoli di aprile: HIGH
ON FIRE - “Cometh the Storm” (19/04); INTER ARMA - "New Heaven" (26/04)
To be continued
A cura di Morningrise