Ci sono un americano, un taiwanese,
un afgano e, loro leader, una graziosa donzella dalle bionde treccine. I
quattro decidono di mettere su una metal band…
No, non è l’incipit di una
barzelletta, ma la storia di uno dei gruppi più sottovalutati e poco conosciuti
del panorama metallico: i Crisis
(nulla a che vedere con la punk band inglese di fine settanta). Il che è
alquanto inspiegabile, posto che il multietnico combo newyorkese, capitanato
come detto dalla carismatica Karyn Krol
(a.k.a Karyn Crisis), al pari dei superblasonati Korn, Machine Head e Deftones,
può a diritto essere annoverato come uno dei padrini di un certo modo di fare nü
metal (e per certi versi in modo decisamente più vario e convincente delle
icone sopracitate).
E per dirlo io che non amo queste sonorità…
Se ai nostri lettori i Crisis,
ad oggi sciolti, fossero sfuggiti, non c’è da preoccuparsi: c’è Metal Mirror
che, attraverso una delle sue “Guide rapide per chi va di fretta”, fa un po' di
ordine, rendendo il giusto merito ai Nostri.
Come sempre, partiamo
dall’inizio. Partiamo con:
“8 Convulsions” (1994)
Il debut dei Crisis dura appena
33’, ma è una mezz’ora di un’intensità pazzesca. Karyn mette in mostra
immediatamente le sue doti canore che farebbero invidia a molti frontman di ben
più blasonate death metal band (c’è chi l’ha paragonata persino a Jeff Walker!).
Sbraita, urla, impreca. I suoi strepiti sembrano provenire da un essere umano
messo sotto tortura (“Drilling me”). Ma poi, quando meno te lo aspetti, si
placa…strappandoti persino, per la sua dolcezza, qualche lacrima (come nella
sensazionale “Gemini”). La musica partorita è figlia dei tempi, di quegli anni
’90 culla della commistione spinta tra sottogeneri diversi. Thrash in stile east-coast,
groove panteroso, rallentamenti doomici (come nella malsana opener “There goes
my soul”, uno degli highlight del disco), funk, scorie noise e a tratti persino
grunge. Insomma, lontano anni luce da un qualcosa di prevedibile o monotono.
Nervoso, spezzato, incoerente, epidermico: il metal dei Crisis, seppur ancora
acerbo, mette in mostra idee e personalità. E una sensazione di disagio non costruita, reale, con dei testi ricchi di pathos oscuro che rivelano una
profondità lessicale non comune (“So lend me your crown and I’ll bear your pain
[…] Fill me up with your
negativity/Your wrath is just for me”, da “Smash to pieces”).
Decisamente non male come esordio…
Voto: 7
“Deathshead Extermination” (1996)
I Crisis bruciano le tappe e già
alla seconda prova in studio fanno il crack. "Deathshead Extermination" (ma che bel titolo! E che
cazzo di copertina da paura!) è un
fottutissimo quasi-capolavoro.
“Caricato” a bordo il bassista taiwanese Gia
Chuan Wang, e acquisita maggior consapevolezza nei propri mezzi, i Nostri
mettono le carte in tavolo già con la splendida intro “Onslaught” che ci
immette nella vera opener “Working out
the graves”, 7’ di terremotante groove metal dove la chitarra di Afzaal Nasiruddeen (l’afghano
dell’incipit) dimostra un’inventiva fuori dal comune. A farla da padrone per
tutta la durata del platter, l’eclettica voce di Karyn che, all’interno della
stessa strofa (ma a volte anche della stessa…parola!) cambia timbro vocale
cimentandosi in growling cavernoso, screaming lancinante quando la rabbia
esistenziale tracima, e un pulito sofferto nei momenti più “pacati” (aggettivo
da prendere con le molle). L’incredibile “Wretched” è una lampante riprova di tutto questo.
I
Crisis risultano convincenti, e paurosi, sia sui tempi più sostenuti, quando si
spingono in territori death/post thrash (come in alcuni momenti di “Nowhere but
lost”), che quando rallentano (“Methodology”). Mentre il drumming tellurico di Fred Waring crea dei pericolosissimi
vortici sonori. Ma non giriamoci attorno: è sempre la voce di Karyn, capace di
cambiare tono e registro nel giro di centesimi di secondo, a guidare le danze.
E i calci, dolorosissimi, nello stomaco dell’ascoltatore.
Per chi pensa che il nu metal
dica sempre le stesse cose…
A cura di Morningrise
(continua e finisce domani)