Il nuovo film di Cronenberg, "The Shrouds" (letteralmente I sudari), è una buona rappresentazione, molto concettuale come nello stile più recente del regista, del rapporto col pensiero della morte.
Cronenberg è un regista che da sempre riflette sul senso ultimo della “materia”, partendo dal tema della malattia che disintegra il corpo, la matericità dei sentimenti e degli stati d’animo ("Brood - La covata malefica"), la suddivisione dell’individuo in più parti di sé complementari o doppie ("Inseparabili"), la metamorfosi dell’uomo in qualcosa di diverso e più consapevole ("Videodrome", "La mosca") con esiti in aberrazioni o mostruosità. Ad un certo punto il tutto diventa meno visuale, o meglio sempre visuale ma più metaforico, cosicché ci si sposta verso l’indagine sull’ineluttabilità del proprio sé, che come un tumore avviluppa il cambiamento e lo stritola da dentro ("A History of Violence"), l’illusione del controllo della mente e la concretezza della follia, rispetto a cui non c’è una terza via (Maps to the Stars"), e così via.
Il tema attuale sembra fatto apposta per focalizzare bene il senso della poetica death metal. Il tema non è genericamente la morte, ma è quello di poter guardare la morte oltre la morte: spiare virtualmente in eterno la decomposizione fino all’osso e oltre, nell’illusione di un qualche legame “sostanziale” tra chi rimane in vita e chi muore, diverso dalla semplice visita al cimitero.
La storia è quella di un imprenditore che ha sviluppato un servizio cimiteriale privato, in cui i corpi sono sepolti in bare dotate di un sistema di telecamere, così che i parenti possano, direttamente sul posto tramite una lapide-monitor, o a distanza con un’app, rimanere collegati e guardarsi i resti da ogni angolazione e con ingrandimenti potenti dei dettagli. L'imprenditore ha un movente personale: non perdere mai il contatto con l'amatissima moglie defunta, tramite il protrarsi di un vero rapporto carnale “a distanza” con i suoi resti.
Ci sono altri ingredienti, che riportano ai temi visivi e concettuali di Cronenberg, ma la storia è sostanzialmente la stessa. Un uomo che entra in contatto con una realtà ulteriore, tramite cui si prospetta una nuova realtà umana, un nuovo livello di esistenza, di funzionamento. Da una parte, l’ombra di qualcuno che vuole servirsi di questa scoperta o novità per manipolare il mondo occultamente, dall’altra l’individuo che invece se ne vuole appropriare per gestirla in maniera pura e estrema. Il finale solitamente è pessimistico e distruttivo, perché l’uomo rimarrà se stesso, e non andrà oltre, ma imploderà.
E' comunque interessante soffermarsi sul tema del “voyeurismo” della morte, come nel film stesso è definito. Descrivere la morte, fare della tanatologia o tanatografia per fingere che la morte sia un momento estendibile all’infinito, uno stato dell’anima. La morte è la sospensione dei giudizi tra l’integrità e l’ignoto. E’ la disintegrazione, che da una parte rivela come è costruita la realtà (attraverso i suoi pezzi scomposti) e dall’altra apre il baratro della non-esistenza, ma al contempo lo riempie di materia disfatta.
Mentre si guarda questo processo non si fa altro che scoprire e studiare ciò che sta dietro la vita: la sua struttura, le sue combinazioni, la magia del suo funzionamento che brilla proprio quando si interrompe, si disgrega, si scompone. Da qui l’estetica negativa degli atti distruttivi, dal taglio all’esplosione, e la fascinazione della malattia, dall’infezione alla demenza.
Il death contemporaneo ha raggiunto uno stadio di consapevolezza superiore a quello degli esordi, che prediligeva più il macabro puro e semplice. Lavori come l’ultimo Obituary, Marduk ma anche i Blood Incantation indicano la ricerca di una senso mortuario della vita. La morte è un momento mentale in cui si esprime un impulso viscerale nei confronti della vita, un’idea da cui ci torna indietro tutto l’attaccamento alla nostra materia umana: la carne e le ossa.
Gli Obituary con "Dying of Everything" compongono una marcia funebre all’inverso, che più si addentra oltre la porta del non-ritorno, più genera un reflusso di corrente verso la vita. "My Will to Live" è un brano “manifesto” dell'intero album e di questo stadio lirico del death. I Marduk con “Memento Mori” fanno del funerale, e delle sue varie parti e componenti, un’allegoria del vivere. Se “World Funeral” era un album focalizzato sulla celebrazione della morte totale, questo è invece un passo avanti. Oltre la morte, c'è il fatto che la morte è la vita, o meglio che la vita è il “morire”, e quindi più che la distruzione come atto finale, la morte altro non è che una spasmodica rincorsa della vita mentre essa se ne sta andando, fin dalla nascita.
I Blood Incantation invece scagliano la pietra più in là. La morte non esiste perché, semmai, esiste la morte dell'infinito. Noi moriamo dentro un sistema che si rigenera continuamente, ne siamo solo un momento, un luogo nello spazio-tempo. Bella suggestione, ma siamo anche uomini, e come tali vorremmo essere eterni e significare qualcosa. Così, lo spazio infinito non è altro che un immenso sepolcro da scrutare, in cui cercare i frammenti post-mortem della nostra storia e del nostro cadavere, sognando di vederli tornare in un qualche tassello del cosmo. Quest'angoscia i Blood Incantation la trasmettono fin dai titoli: la morte è un “Absolute Elsewhere”, inconcepibile eppure così vicino. Noi siamo continuamente in bilico tra ciò che siamo e “un altro dove infinitamente distante”.
Per il Marduk il corpo è il nostro sudario, il mondo il nostro sepolcro. Per gli Obituary il corpo stesso è il sepolcro della spinta a vivere. Per il Blood Incantation, noi siamo il sudario della nostra anima: la circondiamo e la guardiamo, la vorremmo tenere sotto controllo mentre scivola via verso l'infinito siderale, il gorgo spazio-temporale.
Noi siamo gli occhi dei vivi che spiano i propri defunti nella bara. Ma non spiamo cadaveri di altri, spiamo il nostro stesso cadavere che viene meno, che si disintegra, che perde i suoi connotati e ci avvicina al nulla. Convinti di poterlo trattenere per sempre nei nostri occhi e nei nostri sguardi. Mentre invece sarà lei, la morte, a risucchiare via occhi e sguardi.
Viene in mente, a vedere “The Shrouds”, un altro film sul tema, ovvero "Zeder" (1983) di Pupi Avati, molto più vicino al death anni 80-90. In quella storia, si narra di terreni in cui i cadaveri riprendono vita, anche se con qualche spiacevole sorpresa, e di una congrega di scienziati-esoteristi che cerca di studiare il fenomeno anche tramite videocamere nelle bare. Lì, il sogno è quello di poter far rivivere i propri morti nei terreni magici.
Lo sforzo lirico del death metal, simboleggiato dal suo stile vocale, il growling, non è la comunicazione della brutalità, ma una caccia al tesoro con la morte, con in palio l'illusione del suo superamento. Che sia nei non-morti che risorgono dalle tombe, nell'eternità dell'universo o nel voyeurismo del macabro.
Alla fine, nel film, il protagonista capirà che non può pretendere di tenere davvero in vita un rapporto con la moglie, e che in realtà il sudario che sogna è quello per se stesso, nell'illusione che qualcuno lo guardi in eterno da fuori, mantenendolo quindi in vita per sempre.
A cura del Dottore