Se
nella nostra classifica dei migliori album metal di sempre abbiamo
pescato per lo più dalla decade ottantiana, ciò non equivale ad affermare che
gli anni novanta siano stati un decennio a corto di creatività. Lo abbiamo già
visto nella lista dei dieci album che “sconvolsero” il metal, dieci
album rigorosamente usciti negli anni novanta che, forti di un approccio
"crossoveristico" ed aperto alla contaminazione, hanno saputo
svecchiare il metallo, la cui esistenza era stata messa in discussione dal
grunge e dalle "sonorità alternative" esplose ad inizio decade.
Eppure,
sempre in quegli anni, c'era chi in parallelo cercava di far progredire il
metal senza bisogno di ricorrere all'hardcore, al rap o all'elettronica, ma
rigenerandosi attraverso le lezioni dei grandi classici. Ecco la nostra
personale visione di questa straordinaria impresa che ebbe luogo nel corso
degli anni novanta!
Dream
Theater, "Images and Words" (7 luglio 1992)
Apriamo
la nostra rassegna con i Dream Theater, che, insieme agli oramai defunti
Pantera, sono stati gli ultimi fenomeni social-popolari del
metal, gli unici oggi ancora in grado di riempire stadi e palazzetti con la
sola forza del proprio nome. I cinque svilupparono in modo esasperante
l'approccio già tentato dai maestri Rush (quello di unire metal e
prog), elevando il virtuosismo a cifra stilistica: nel metal non sono mai
mancati musicisti tecnicamente dotati, ma Petrucci, Portnoy, Moore
e Myung sono il non plus ultra della tecnica votata al gusto ed alla
composizione intelligente ("Pull Me Under", "Take the
Time", "Metropolis", "Learning to Live",
tutte dotate di esaltanti parti strumentali, sono quanto di più tecnico
conoscesse il metal all'epoca). E con LaBrie (qui al suo primo
appuntamento in studio con i DT) trovano un interprete credibile dalla voce
versatile e singolare, capace di caratterizzarli fra mille altri nel mare vasto
del metal. La "rivoluzione gentile" dei DT, fra Genesis, Yes,
Kansas e Metallica, si farà largo in maniera subdola, ma
inesorabile: quei funambolismi che fecero tanto scalpore diverranno dei cliché
in un metal dalle vedute sempre più ampie. E se oggi il neo-progressive
è uno dei filoni più quotati, lo si deve anche a loro, a quasi venticinque anni
dall'uscita di "Images and Words".
Mayhem,
"De Mysteriis dom Sathanas" (24 maggio 1994)
Abbiamo
appena visto come negli anni novanta il prog-metal sia cresciuto rigoglioso,
affermandosi come genere a sé stante. A dimostrazione della fecondità artistica
di quel periodo e del suo carattere disomogeneo e contraddittorio è doveroso
precisare che gli anni novanta sono stati testimoni anche dell’ascesa di quel genere
che costituisce la perfetta antitesi del prog: il black metal. Genere
minimale e nichilista per eccellenza, così per lo meno come usciva dalle cantine
norvegesi, esso intendeva superare i limiti del metal estremo (thrash, death),
ma finì con il codificare un nuovo linguaggio, forse l'ultimo autentico
linguaggio forgiato nella fucina del metallo. Riff inediti che evocavano
il gelo scandinavo, velocità che polverizzavano la batteria, voci
disarticolate, suoni confusi e produzione scarna. L'apoteosi di tutto questo è
"De Mysteriis dom Sathanas" dei Mayhem, veri iniziatori
del genere. In questo album postumo, uscito dopo la morte di Euronymous
(ma con idee risalenti almeno a quattro anni prima!) vi è un lascito che verrà
preso a modello da una miriade di band negli anni a venire, ma che non verrà
mai eguagliato quanto ad intensità ed ispirazione: perché nessuno sa suonare la
batteria come Hellhammer, nessuno ha l'ugola marcia quanto Attila
Csihar, nessuno possiede la fantasia compositiva di Euronymous. E
brani come "Funeral Fog", "Freezing Moon",
"Cursed in Eternity", Pagan Fears", "Life
Eternal" e la stessa title-track sono inni immortali del
black metal che potevano essere scritti solo dai (True) Mayhem.
Death,
"Symbolic" (21 marzo 1995)
Il death
metal ha vissuto i suoi anni migliori in un breve periodo a cavallo delle
due decadi: quando esce il sesto lavoro dei maestri Death, il genere ha
perso le sue migliori energie, ma il genio artistico di Chuck Schuldiner
continuerà persistente fino alla fine. Se il precedente "Individual
Thought Patterns" è stato l'ultimo album propriamente death dei Death,
"Symbolic" porta avanti una ricerca che trascenderà il genere
per ricongiungersi con gli stilemi classici del metal, il tutto rielaborato
dalla forte personalità di Schuldiner, che dei Death è chitarra (sempre più
elaborate le sue ritmiche, più melodici gli assolo), voce (oramai un aspro screaming
che poco ha a che fare con l'antico growl) e anima (sempre più raffinato
il suo song-writing, profondi i suoi testi). Brani come la title-track,
"Empty Words" e "Crystal Mountains" sono la
brillante espressione di un metal che si rigenera dal metal stesso,
incarnandone l'essenza ed al tempo stesso eludendo ogni possibile
classificazione.
Blind
Guardian, "Imaginations from the Other Side" (5 aprile 1995)
In
anni in cui il groove-metal e il nu-metal imperversavano, e le brutture del
mondo erano il tema prediletto di questa nuova ondata di band che gridavano la
loro rabbia dall’altra parte dell’oceano, in Germania c'era gente che ancora venerava
il metal classico e guardava in modo bambinesco al mondo fantasy. E' il
caso dei Blind Guardian, musicisti sensazionali che sapranno rifondare
il power metal su nuovi presupposti stilistici: il ruggito di Kursh
ha poco a che spartire con le "sirene" del classico power metal
teutonico, l'epicità di ritornelli e cori va ben oltre l'epic metal, gli
inserti folk sono ben più che delle parentesi di pura suggestione, la
complessità delle composizioni rifugge dal semplice formato canzone per farsi
terreno mutevole e dissestato sotto i piedi del metallaro gaudente, guardando
persino alla pomposità operistica dei Queen. Su queste fondamenta i
quattro costruiranno una brillante carriera, ma il perfetto equilibrio fra la
rozza genuinità degli esordi e le costruzioni artificiose della maturità lo
troviamo proprio in questo gioiello che inanella pezzi epocali come la title-track,
"A Past and Future Secret", "The Script for My Requiem",
"Mordred's Song" e "Born in a Mourning Hall",
ancora oggi riproposte orgogliosamente dal vivo.
Paradise
Lost, "Draconian Times" (12 giugno 1995)
Come
se non bastasse, gli anni novanta sono stati anche la decade del gothic
metal. Il filone era stato avviato dagli stessi Paradise Lost con il
seminale "Gothic", l'opera che prima di ogni altra aveva messo
a punto una formula tanto semplice quanto efficace: un death rallentato
e disperante che riscopre il doom sabbathiano, con un occhio
rivolto alle atmosfere decadenti professate da certa darkwave di
ottantiana memoria. Ma nello spazio di soli due album ("Shades of God"
ed "Icon"), i cinque di Halifax si affrancano totalmente dalle
sonorità estreme, per confezionare questo gioiello che si fregia da un lato
degli intrecci chitarristici di Aaron Aedy e Greg Mackintosh (con
il suo wah-wah torrenziale che farà storia) e dall'altro della voce
pulita di un Nick Holmes in stato di grazia che accantona in toto il growl
per avvicinarsi al timbro di James Hetfield. I brani si fanno più brevi,
catchy e scorrevoli, del resto siamo negli anni del post "Black
Album", quando ammorbidirsi era un trend: ma in questo caso il
processo di allontanamento dal metal estremo coincide con una evoluzione
melodica che detterà legge negli anni a venire (con brani come "Enchantment" e "Hallowed
Land" che prendono in prestito il pianoforte, "The Last Time"
che scorre orecchiabile come una hit goth-rock da ballare in dance-floor
e una straziante "Forever Failure", aperta dalle parole di Charles
Manson).
In
Flames, "The Jester Race" (20 febbraio 1996)
Più
tradizionali di loro non c'è nessuno: l'idea degli In Flames è stata
quella di unire al death metal gli stilemi del metal classico, influenza,
questa, che è ben più presente rispetto ai colleghi At the Gates e Dark
Tranquillity. La band di Anders Friden e Jesper Stromblad (in
forza anche negli Hammerfall - ed è tutto dire!) ha incarnato più di
tutti questa necessità di calore, quella voglia di revival che si aveva
già a così pochi anni di distanza dalla fine dell'era gloriosa del metal. Idea
semplice ma vincente: riproporre melodie tipicamente maidiane calandole
in un contesto estremo. Qualcuno si indignerà e di rifiuterà di chiamare questa
musica death metal (verrà tirata fuori ad hoc l'etichetta “melo-death”),
ma per i più sarà difficile resistere all'appeal di brani scorrevoli e
con melodie azzeccate come "Moonshield", "Lord Hypnos"
e la stessa title-track, con quel pizzico di folk che il
metallaro non ha mai disdegnato.
Cradle
of Filth, "Dusk...and Her Embrace" (28 agosto 1996)
In
ambito black si ebbe una tendenza analoga. I Cradle of Filth
puntarono sul gotico e su un seducente immaginario vampiresco che fece subito
presa. "The Principle of Evil Made Flesh", con le sue
atmosfere romantiche, fu un fulmine a ciel sereno e l'EP "Vempire..."
una straordinaria conferma, ma è con "Dusk...and her Embrace"
che i Nostri toccano l'apice formale: composizioni tortuose ed imprevedibili, sontuose
orchestrazioni, la performance teatrale (e i bei testi) del leader
Dani Filth, ma soprattutto tanta tecnica e fantasia al servizio di un
metal ancora estremo, ma che sapeva annettere nel proprio corpo elementi metal
classici (dai Maiden agli Slayer - tanto che i Nostri descrissero
il loro lavoro come un "Reign in Blood" in versione
"colonna sonora da film horror", a dimostrazione di quanto
rimanessero forti i legami con il metal della Vecchia Scuola, contrariamente a
quanto teorizzato dai colleghi scandinavi), il tutto condito da lussuriose voci
femminili. Verranno dai "puristi" visti come troppo "leggeri",
ma la carne al fuoco è tanta e non a caso sono oggi da indicare fra i pionieri
del fortunato filone del symphonic black metal. E brani come "Funeral
in Carpathia", "Malice Through the Looking Glass" e
la title-track sono merce davvero rara.
Stratovarius,
"Visions" (26 aprile 1997)
Torniamo
al power e lo facciamo con “Visions”, l'album-simbolo di
questa seconda ondata di band che videro il massimo dello splendore verso la
metà degli anni novanta. Certo, già con l'ottimo "Episode" i
finlandesi guadagnarono la giusta visibilità, ma con questa opera della
consacrazione supereranno le altissime aspettative, sfornando l'album giusto al
momento giusto, destinato a divenire l’emblema di un'intera epoca. Dietro a
tutto, il virtuoso Timo Tolkki, chitarrista extraordinaire che
ebbe l'intuizione (e le qualità) per portare i neoclassicismi di Malmsteen
nelle tipiche speed-song in stile Helloween. Ad aiutarlo niente
meno che Jens Johansson (tastierista prodigio, già valida spalla di
Malmsteen) e Jorg Michael (piovra umana scippata ai granitici Running
Wild). A completare il quadro l'ugola cristallina di Timo Kotipelto,
sulla scia del grande Kiske. Ma la faccenda non si limita ad un mero
revival: ci sono ispirazione e linfa vitale. E classici come "The
Kiss of Judas", "Black Diamond", "Legions",
“Paradise" e la title-track (avvincente suite di
dieci minuti) sono lì a dimostrarlo.
Therion,
"Vovin" (4 maggio 1998)
La
creatura del geniale Christofer Johnsson si era distinta fin dagli inizi
per un approccio sperimentale che, sulla scia dei maestri dichiarati Celtic
Frost, aveva condotto a lavori superlativi come "Lepaca Kliffoth"
e "Theli", dove la componente death metal veniva erosa
da agenti “estranei” quali musica classica, opera, suggestioni mediorientali ed
occultismo, in un mix unico che farà proseliti. Con "Vovin",
di sicuro meno sorprendente del suo predecessore, si mette ordine definitivo a
questo stato di cose, con suoni limpidi, arrangiamenti elaborati ed affidando
le parti vocali interamente a soprani e baritoni. Il growl viene
definitivamente messo da parte e ci si fa dare una mano da Ralph Sheepers
(Gammaray, Primal Fear), primo di una serie di vocalist power
arruolati con sistematicità nei lavori successivi, a dimostrazione di come il
metal classico rimanga centrale nella visione artistica degli svedesi. Il tutto
però, rielaborato in modo estremamente personale, e brani come "Wine of
Aluqa", “Clavicola Nox", “The Wild Hunt" e
"Eye of Shiva", sospese fra ortodossia metallica ed atmosfere
da sogno, non sono certo roba alla portata di tutti.
Nevermore,
"Dreaming Neon Black" (26 gennaio 1999)
Se
finora abbiamo assistito allo strapotere dell'Europa, non significa che
dall'altra parte dell'oceano si abbia avuto a che fare solo con crossover e
nu-metal: molti sono stati infatti i gruppi americani in grado di rileggere con
inventiva la materia classica. Uno di questi sono stati i Nevermore,
nati dalle ceneri dei Sanctuary, e già forti di un capolavoro come era
stato "The Politics of Ecstasy" che riusciva a mettere in un
unicum indistinguibile potenza thrash, epica power e le
inquietudini sociologiche dei Queensryche. E proprio dai cinque di
Seattle si riparte per il monumentale "Dreaming Neon Black",
angosciante concept che ci consegna dei Nevermore più attenti
all'atmosfera che all'impatto fisico (che certo non manca): al centro del
palcoscenico ovviamente l'ugola versatile di Warrel Dane, diviso fra
acuti à la Halford e languori tipici del Tate più
riflessivo. Ma i suoi quattro compagni non scherzano, con il chitarrista Jeff
Loomis in prima fila, fautore di un sound tanto potente quanto cupo,
che prende in prestito persino qualche idea dall'amico Schuldiner.
Le
band di cui abbiamo parlato oggi, come se niente fosse successo, hanno
continuato a "creare metal", portando i capelli lunghi e vestendo giubbotti
in pelle, non rinnegando il passato, ma anzi rifacendosi al metal nella sua
forma più pura: quello dei vari Iron Maiden, Judas Priest, Helloween,
Queensryche, Malmsteen, Metallica, Slayer, Celtic
Frost. Forse queste opere hanno rappresentato gli ultimi flutti di una
ispirazione esplosa agli albori del metallo e comprensibilmente affievolitasi
con il trascorrere degli anni: come si è visto, gli anni zero tracceranno una
brusca riga, dopo la quale prolifereranno le sonorità "post",
che di classico conserveranno ben poco.
E’
la spietata selezione naturale, bellezza!