"Bentornati
nel 1996": questo doveva essere il titolo dell'ultimo album degli In
the Woods..., inaspettato ritorno discografico targato 2016, dopo diciassette
anni dall'ultima testimonianza da studio.
Torna
molta gente, e sono tornati anche loro, ma gli In the Woods...sono per noi un
gruppo troppo importante per poter "sfilare" senza essere osservato e
giudicato con severità, soprattutto dopo un'assenza dal mercato discografico
così lunga, soprattutto per chi come noi quel nome lo ha venerato quando uscivano
album epocali come "Heart of the Ages" (1995) ed "Omnio"
(1997).
Devo
dire la verità: in tutti questi anni gli In the Woods...non mi sono mancati.
Diciamola tutta: "Strange in Stereo", loro canto del cigno
targato 1999, era stato un mezzo troiaio. Per questo, averli potuti
salutare con il bel concerto d'addio "Live in the Caledonien Hall"
(2003), con tanto di riletture di brani di King Crimson e Jefferson
Airplane, era stato il miglior modo per accomiatarci da una band che ci
aveva dato così tanto, ma che rischiava di sputtanarsi definitivamente. Una
formazione straordinaria che tuttavia ad un certo punto si è ritrovata in un
vicolo cieco, impantanata nelle proprie ambizioni avanguardistiche.
Come
dire: si erano fermati appena in tempo: per quanto maldestro, l'ultimo passo
della loro carriera non era riuscito infatti a compromettere il buon nome della
band, che almeno in linea di principio si era dimostrata fino alla fine
coraggiosa e dedita alla causa di una gestazione artistica priva di compromessi.
Il sapore che avevano lasciato in bocca gli In the Woods... era dunque buono,
un sapore di "purezza", "sfortuna", "incomprensione",
"ingiustizia", "leggenda". In altre parole
fra questi solchi si formò un vero e proprio culto: un culto alimentato
dal fatto che i Nostri sono stati negli anni successivi presi come riferimento
basilare (per la loro scrittura libera e fuori dagli schemi) da molte band
appartenenti alle svariate correnti del post-black metal. Un culto che
si è alimentato, ovviamente, anche grazie alla lunga l'assenza dalle scene. Perché
dunque ritornare?
Riformatosi
nel 2014, dopo due anni di rodaggio sul palco, gli In the Woods...si
riaffacciano oggi su un mercato discografico totalmente diverso da quello di
vent'anni fa, sostanzialmente non subendo gli influssi di tutti gli eventi e
cambiamenti occorsi nel frattempo. Sostanzialmente rimanendo uguali a se
stessi. Un punto a favore se si va a guardare quel concetto di purezza
richiamato fin dal titolo dell'album (ma che brutta però quella copertina con
il vecchio che mangia la minestra, con tanto di costellazioni sullo sfondo). Un
punto di demerito, invece, per una band che si era dimostrata costantemente
"avanti".
Premere
play e farsi investire da un riff in stile Paradise
Lost/Katatonia può essere bello per gli amanti del gothic metal targato nineties,
ma può anche essere brutto per chi dagli In the Woods..., dopo così tanti anni,
si aspettava qualcosa di più caratteristico, peculiare, sorprendente: qualcosa
di "più In the Woods...".
L'ascolto
(oltre sessantasette minuti di materiale!) andrà a confermare questa
prima impressione: nonostante la durata piuttosto lunga dei brani, lo spirito
più squisitamente progressivo ed avanguardista si è andato un po' a perdere,
rimpiazzato da sonorità più convenzionalmente doom/gothic e persino da
qualche spunto black recuperato in extremis, anche se non se ne sentiva
tanto il bisogno.
Il
fatto è che gli In the Woods... sono sempre stati un gruppo "Oltre":
con "Heart of the Ages" si spinsero ben più in là delle già
lungimiranti band black metal dell'epoca. Basti pensate all'opener
"Yearning the Seeds of a New Dimension", dove si dovette
aspettare molti minuti prima dell'irrompere del gelido screaming per
certificare il prodotto ufficialmente come black metal: una lunga introduzione
che si era aperta con umori ambient per tingersi presto di sognanti colori pinkfloydiani
come nessuno aveva osato fare prima di allora. "Earth Metal"
lo definivano gli stessi autori, tanto era elevata la compenetrazione fra
musica e Natura (da qui il suggestivo monicker). Poi con "Omnio"
si sganciarono dal black metal, approdando alla psichedelia ed alle sonorità
post che, assieme ai connazionali Ved Buens Ende....., avevano
praticamente portato per primi nel black metal. Dispiacque che quell'atmosfera
da "falò crepitante nella foresta" si fosse un po' persa, ma questa
perdita veniva compensata da nuovi elementi, da sonorità tanto lontane dal
nostro mondo che potevano valere sia per descrivere gli abissi dell'inconscio che
luoghi posti da noi a distanze siderali. Gli In the Woods... cambiavano pelle,
ma non approccio, né la loro musica aveva perduto quella profondità spirituale
che era presente nel folgorante debutto. Anche "Strange in Stereo”, nel
suo piccolo, aveva avuto l'ardire di procedere ancora più Oltre,
distaccandosi persino dal metal per approdare ad un "qualcos'altro"
sospeso fra alternative-rock, dark-wave ed avant-garde.
E
"Pure"? Come molti altri album che segnano il ritorno di un
artista dopo molti anni di attività, esso preferisce bypassare l’ultimo
stadio evolutivo toccato in passato e collocarsi in una “terra di mezzo” in cui
la band forse viveva il momento più sereno da un punto di vista artistico
(anche perché l’evoluzione a volte può essere un processo artificiale). Così
fecero i Carcass, così fece Vikernes, ma che lo facciano anche
gli In the Woods...ci procura una strana sensazione: per la prima volta i
norvegesi non guardano avanti, retrocedendo in una zona ideale posta fra
"Heart of the Ages" ed "Omnio", normalizzando il proprio
suono, appiattendolo per certi versi, ma soprattutto perdendo quel modo di
procedere imprevedibile che aveva animato i due capolavori degli anni novanta.
L’incarnazione
attuale si cuce intorno ad un parziale nucleo originario composto dai fratelli Christian
e Christopher Botteri (chitarra e basso) e da Anders Kobro
(batteria), che nel frattempo si era tenuto allenato con i Carphatian Forest.
L'ossatura del "nuovo" corso si concentra quindi su questi strumenti,
a cui dobbiamo le principali gioie che il platter è capace di offrire.
Queste gioie (e ce ne sono!) si agganciano principalmente a passaggi
strumentali riusciti, con le classiche cavalcate dettate dalla batteria
incalzante di Kobro, il quale procede in modo ordinato, ma con quelle
variazioni/accelerazioni seminate al punto giusto che per davvero ci riportano
a venti anni fa. Anche le melodie della chitarra sono spesso avvincenti,
imperniandosi in giri ricorsivi di katatoniana memoria. Alle tastiere, invece,
sono lasciati solo i ricami, il dovere di riempire i frequenti intermezzi che
spezzano il fluire elettrico dei brani.
A
completare la formazione, dietro al microfono troviamo il nuovo vocalist
James Fogarty, pure chitarrista e tastierista (niente voci femminili a
questo giro, e la cosa un po’ ci dispiace). Meno "odinico" e più
influenzato dall'universo dark-wave (un tragico pulito, il suo, con
qualche "raschiata" qua e là di cui non si sentiva il bisogno),
Fogarty non fa rimpiangere chi lo ha preceduto (tutt'altro che estraneo alle
imperfezioni), ma si ha l'impressione che un po' il Nostro giri a vuoto, non
colpendo sempre nel segno e disperdendosi in vocalizzi che non riescono a
salvare quei passaggi che suonano meno consistenti.
Si
poteva sforbiciare qualcosa, si poteva correggere qualcosa, e se
anche è appurato che gli In the Woods...non sanno cosa siano le forbici né le
gomme per cancellare, le imprecisioni che da sempre caratterizzano il sound
"de core" dei Nostri, oggi si digeriscono peggio, in quanto non
contornate da guizzi di bellezza degni di nota. E il fatto che le emozioni più
forti si abbiano al termine di "Towards the Black Surreal", in
cui si citano in modo palese stralci di "Heart of the Ages", spiega davvero
tutto.
Lungi
dall'essere un'operazione biecamente nostalgica, quello degli In the Woods...
rimane un gradito ritorno, un ritorno che però non sconvolgerà le
nostre esistenze.