Ci
siamo divertiti a stilare la lista dei migliori dieci album metal di sempre,
e con il grugnito di Megadave che gridava il nome di un missile (il Polaris - parlavamo del capolavoro dei Megadeth "Rust in Peace")
abbiamo chiuso un cerchio che avevamo deciso di aprire simbolicamente con le sirene anti-raid di
"Paranoid" dei Black Sabbath, anno 1970: venti anni di
metal che si fermavano proprio un attimo prima del 1991, vero "anno terribilis" per il
metal classico. In quell'anno, di fatto, venivano pubblicati "Nevermind"
dei Nirvana e "Ten" dei Pearl Jam: opere che segnarono l'avvento del grunge e sancirono di conseguenza l'inizio di una Nuova Era per il metal…
…l’inizio
di una Nuova Era e la crisi di molti dei cliché classici, stilistici ma
anche di costume, fioriti nei fecondi anni ottanta. Ma il metal non decise di
starsene seduto a prendere le sberle in silenzio. La riscossa era infatti
dietro l'angolo, e già a partire dal 1992 sarebbero uscite in stretta
successione opere capaci di riformare dall'interno il movimento: signore e
signori ecco i dieci album che sconvolsero il metal, o
meglio, i dieci che salvarono il metal!
Pantera,
"Vulgar Display of Power" (25 febbraio 1992)
"Vulgar
Display of Power" costituisce senz'altro un fondamentale punto di snodo nella storia del
metal. I Pantera, potremmo dire, stanno al metal degli anni novanta come lo è stato Tarantino
per il cinema dello stesso periodo: rifacendosi ai numi tutelari del genere (Metallica,
Black Sabbath, con punte di aggressività che sfioravano il death metal),
i quattro texani cuciono una veste moderna e succinta per contenere e tornire il
paffuto corpo da "vecchia signora aristocratica" del metal. Gli
ingredienti sono sostanzialmente due: da un lato il groove,
generato dalla commistione prodigiosa fra il riffing potente e
fantasioso di Dimebag Darrel e le ritmiche trascinanti e foriere di
cambi di tempo del fratello Vinnie Paul; dall'altro il carisma vocale
dello scatenato Philip Anselmo, fra urla rabbiose ed un efficace pulito.
Certo, le caratteristiche di questo sound fresco e selvaggio (lo
chiameranno "groove metal") erano già presenti nel precedente
"Cowboys from Hell", ma è nella sequenza mozzafiato di brani
adrenalinici e dai ritornelli memorabili come "Mouth for War",
"A New Level", "Walk", "Fucking
Hostile" e la feroce ballata "This Love" che troviamo
quel fragoroso pugno in faccia al metal ritratto efficacemente in
copertina.
Faith
No More, "Angel Dust" (16 giugno 1992)
Quando
uscirono con questo quarto album i Faith No More erano già
un'istituzione, forti della credibilità guadagnata con un lavoro come "The
Real Thing" e della popolarità che aveva garantito loro un singolone
come "Epic". Ma è in "Angel Dust" che
troviamo la piena maturità che permise di procedere oltre, trascendere i generi
e comporre con personalità un caleidoscopio di suoni coerente ed equilibrato.
L'impeccabile base ritmica a firma Bill Gould/Mike Bordon che richiama
la potenza del funky, le tastiere di Roddy Bottum che apportano epicità
ed atmosfera (e persino un tocco di gotico) al tutto, la chitarra poliedrica di
Jim Martin (fra zappate thrash e assolo bislacchi), ma
soprattutto la superlativa prova dietro al microfono di Mike Patton,
cantante extraordinaire dal range vocale sorprendente: questi
sono i fattori fondanti dell'originale proposta dei cinque americani. Dal
singolo "Midlife Crisis" (che esprime tutto l'eclettismo dei
Nostri, fregiandosi delle improvvise impennate vocali di Patton) ai toni anni
cinquanta di "RV", dalla violenza espressa in brani come "Smaller
and Smaller" e "Kindergarten", alle atmosfere horror
di "Jizzlobber", per finire in bellezza con l'ironica cover
di "Easy" di Lionell Richie, "Angel Dust è un
viaggio bizzarro e disorientante, portato avanti con il gusto per lo sberleffo,
senza che però si abbia per un singolo istante l'impressione che la band perda
la bussola. Lo chiamavano crossover, e i Faith No More, non a caso,
verranno riconosciuti fra i padri del nu-metal, prossimo ad esplodere. Ma la
lezione che Patton e soci impartiscono al mondo è qualcosa di molto più
importante e trasversale: fra questi solchi troviamo infatti una libertà
espressiva, un pensare fuori dagli schemi che costituirà per il metal una via
per uscire dall'impasse.
Kyuss,
"Blues for the Red Sun" (30 giugno 1992)
I Kyuss,
nati come un nome di culto (un nome poi destinato a divenire leggendario, anche
grazie alla popolarità raggiunta in seguito dai Queens of the Stone Age
del fuoriuscito Josh Homme), raggiungevano la piena maturità con questa
opera seconda che, artisticamente e sociologicamente parlando, gettò un ponte
importante fra il metal e quel mondo alternativo e debitore degli anni settanta
che si era risvegliato con l'avvento del grunge. Alla base vi è una inedita
commistione fra linguaggio sabbathiano, psichedelia e southern rock, con
il deserto (padre spirituale di questa musica) a fare da sfondo: questo
è lo stoner e lo potete trovare al suo meglio in "Red Blues for
the Sun", dove i riff polverosi di Homme, efficacemente
supportati dalla eccellente base ritmica composta da Nick Olivieri e Brant
Bjork, si scontrano con la voce grintosa di John Garcia, in un
equilibrio che ha del miracoloso (ascoltare "Green Machine"
per credere!).
Ministry,
"Psalm 69: The Way to Succeed and the Way to Suck Eggs" (10
luglio 1992)
I paladini dell'industrial-metal Ministry forniscono
un’ulteriore importante sfumatura di questa tendenza del metal, all'alba degli anni
novanta, a voler flirtare con altri universi sonori. Dall'elettronica e i suoni
sintetici degli esordi, previa una progressiva iniezione di chitarre, la
premiata ditta Al Jourgensen/Paul Barker giunge con questo quinto lavoro
ad un sound ultra-massiccio caratterizzato da una forza d’urto e da una
potenza che potremmo definire slayeriane. La voce raschiante e filtrata
di Al Jourgensen si fa quasi growl, le chitarre taglienti si innestano
su basi micidiali che continuano ad evocare la meccanicità di Killing Joke
e Swans. "Psalm 69" è un olocausto sonoro infestato da suoni
campionati ed un'attitudine noise che non impedisce alla band di imporsi
anche sulle emittenti musicali con svariati video (ben tre i singoli estratti:
"N.W.O.", "Just One Fix", "Jesus
Built My Hotrod"), raggiungendo un successo (certificato con il disco
di platino) davvero clamoroso per una band irriverente, anti-sistema e lontana
da ogni compromesso. Per saperne di più sull'industrial-metal, prego passare da
queste parti.
Rage
Against the Machine, "Rage Against the Machine" (3 novembre 1992)
Rimaniamo
ancora nel 1992 (ma che anno clamoroso è stato??), rimaniamo negli Stati
Uniti d'America (vero teatro d'azione delle menti metal più creative di questa
ondata di innovatori): l'opera di debutto dei Rage Against the Machine
esplose come una bomba nello scenario dell'epoca, sconvolgendo il panorama
della musica dura; peccato per chi ha deciso di fare orecchie da mercante solo
per il fatto che questa volta il crossover si compiva fra metal e il
tanto vituperato rap. Timmy C. e Brad Wilk assicurano una
base ritmica con i controcazzi, mentre la chitarra di Tom Morello
si muove adrenalinica citando Jimi Hendrix, Led Zeppelin e i
soliti imprescindibili Black Sabbath. Completano il quadro le invettive
e i testi al vetriolo di Zack De La Rocha, che pur nella sua vocazione
di rapper, sa alzare la voce e proclamare con energia ritornelli anthemici
come quelli di "Bombtrack", "Killing in the Name",
"Bullet in the Head" e "Freedom". Il metal
sveste gli abiti del qualunquismo per porsi in prima fila sul fronte della
rivoluzione: fra rabbia ed intelligente denuncia, i RATM devono la loro credibilità
ad una brillante scrittura ed eccelse capacità tecniche, elementi che,
mischiati ad una spiccata originalità, li consegnerà alla storia come una delle
band più influenti e popolari degli anni novanta.
Sepultura,
"Chaos A.D." (2 settembre 1993)
Forti
di una ascesa artistica vertiginosa che li portò in pochi anni dal rozzo "Morbid
Visions" ad opere mature come "Beneath the Remains"
ed "Arise", i Sepultura dei fratelli Max e Igor
Cavalera tenteranno il colpaccio con il rivoluzionario (in tutti sensi) "Chaos
A.D.". I postumi del ciclone Pantera si fanno sentire (già, nel frattempo il mondo si era panterizzato) e il sound
dei brasiliani si fa, coerentemente con il periodo, più diretto,
approfittandone di traverso per rispolverare le radici hardcore a
scapito di quel thrash/death elaborato che si era meravigliosamente
manifestato nel cupo “Arise". Dietro ad una apparente semplificazione, vi
è pero una maggiore definizione identitaria, dove lo stile inconfondibile dei Seps
viene confermato dai proverbiali ritmi tribali di Igor e dal ruggito riottoso
di Max. Istanze terzomondiste, condite da riff spezza-collo ed assonanze
assortite (complice anche l'infortunio alla mano di Andreas Kisser, che
gli impedì di prodigarsi in assolo troppo elaborati) sono la materia con
cui viene plasmata una dozzina di brani stellari (citiamo solo le famigerate
"Refuse/Resist", "Territory" e "Slave
New World") capaci, ognuno a modo suo, di restituirci la complessa e
variegata visione artistica dei carioca (nell’album trova spazio
anche un brano interamente acustico, "Kaiowas", che lega a
doppio filo i Nostri al folclore delle tribù dell'Amazzonia, a rimarcare il
forte vincolo con la propria terra: un percorso che verrà ulteriormente
sviluppato nel successivo "Roots").
Korn,
"Korn" (11 ottobre 1994)
I
Korn raccolgono i semi gettati dalle band sopra enunciate (in particolare Pantera,
Faith No More e Sepultura) e confezionano quello che verrà
riconosciuto ufficialmente come il primo album nu-metal della storia.
Chitarre accordate in tonalità più basse, riff imponenti, basso
gagliardo, tanto tanto groove, ma soprattutto l'interpretazione teatrale
di Jonathan Davis, la cui voce oscilla con schizofrenia incontrollata
fra growl, scatting (forma di canto adoperata nel jazz) ed un
isterico pulito. Laddove il metal si era già da qualche anno scollegato dai
vecchi cliché di moto, birre o tutt'al più spadoni, per farsi strumento
di denuncia e di espressione di rabbia contro il sistema, adesso tenta
l'introversione trainato dai fantasmi e dalle nevrosi di Davis. Fra rap e
death-metal, supportati da un bell'apparato di marketing che decreterà un
successo stratosferico (anche qui ben tre singoli estratti: "Blind",
classico dei classici, "Clown" e "Shoots and Ladders"),
i Korn si dimostreranno essere il gruppo giusto al momento giusto,
rapendo il cuore delle nuove generazioni, seminando al contempo odio ed
indignazione nelle vecchie. Come movimento il nu avrà vita breve, ma i
primi album dei Korn, come quelli di Deftones, System of a Down e
Slipknot rimarranno - vi piaccia o meno - una pagina importante
del metal.
Neurosis,
"Through Silver in Blood" (23 aprile 1996)
Si
cambia totalmente passo con i Neurosis, di cui tanto si è già detto su
questo blog. Cosa possiamo ricordare di loro in estrema sintesi?
I Nostri, dopo i trascorsi hardcore, decidono progressivamente di
ampliare il proprio campo d'azione, includendo nel loro sound scorie
industriali, psichedelia pinkfloydiana, strumenti atipici come
pianoforte, violino e cornamusa ed un catastrofismo squisitamente
sabbathiano (ancora lì si va a sbattere la testa!), conferendo alla loro
musica i contorni di un viaggio spirituale e dando di fatto vita ad un
nuovo genere, il post-hardcore. Uscito dopo "Enemy of the Sun"
(dove la "curva" era già stata imboccata, ma ancora non tutto era al
proprio posto) e prima di "Times of Graces" (dove il nuovo corso
sarà già istituzionalizzato, ma tutto suonerà più "formale"), “Through
Silver in Blood" è quel luogo sospeso fra epoche primordiali e scenari
post-apocalittici in cui le energie creative dei Nostri vanno a disegnare per
la prima volta, in modo compiuto, gli stilemi classici della loro musica: un
arsenale di suoni fatto di deflagrazioni chitarristiche di una potenza immane,
momenti di irrequieta stasi (preludio alla tempesta), impetuosi crescendo e il
proverbiale intreccio delle grida lancinanti di Steve Von Till e Scott
Kelly. Siamo agli albori di una nuova era.
Tool,
"Æenima" (1 ottobre 1996)
Non potevano mancare in questa rassegna i Tool, probabilmente la
band più importante del metal dopo la prima ondata degli anni ottanta. Già
forti di una popolarità guadagnata anche grazie agli orripilanti videoclip
tratti dal precedente "Undertow" ("Prison Sex"
e "Sober": capolavori di animazione in stop-motion), i
quattro si presentano sul mercato con l'opera della consacrazione,
mettendo a punto la loro formula. Una formula indefinibile che è stata
accostata al progressive, sebbene questa musica non ami indugiare sui
virtuosismi e sui cliché tipici del genere: ipnotici arpeggi di basso, riffing
ossessivo, ritmiche intricate quanto potenti, e su tutto lo spleen decadente
delle vocalità dimesse ed alienate di Maynard James Keenan ad incarnare
le afflizioni dell'uomo contemporaneo. Ad aprire le danze una sinuosa "Stinkfist"
corredata dal consueto video inquietante, seguita da ulteriori quattordici
tasselli (fra composizioni lunghe e tortuose ed intermezzi atmosferici) che
pavimentano una indagine esistenziale in cui si perdono i riferimenti al
mondo conosciuto (Metallica? Black Sabbath? King Crimson?),
tanto che all'epoca non si trovò miglior definizione che l'insensata etichetta
di "post grunge". "Æenima" è un incubo di quasi
ottanta minuti che ritrae il metal al centro di un crocevia dove si incontrano potenza,
intelligenza, ricerca e profondità esistenziale. Difficile
fare di meglio.
The Dillinger Escape Plan,
“Calculating Infinity” (28 settembre 1999)
Chiudiamo
questa seconda carrellata di album con un’opera emblematica che uscirà proprio
agli sgoccioli del decennio: “Calculating Infinity” dei Dillinger
Escape Plan. Gli americani debuttavano alla grande, in un mondo oramai già
trasformato e totalmente diverso da quello di appena dieci anni prima. Non c’è
più niente da sconvolgere, ma la ricetta degli americani a base di grindcore,
industrial, math-rock e free-jazz riuscirà ancora a
seminare entusiasmo, costituendo inconsapevolmente l’apice e la fine di un’era.
Si tratta dell’apoteosi del crossover, dove la perizia tecnica dei
musicisti (fatta eccezione per lo screming monocorde del cantante Dimitri
Minakakis, criticato da più parti in quanto cozzante con il virtuosismo dei
compagni) decostruisce definitivamente il linguaggio del metal, tracciando con
precisione matematica architetture sonore proibitive per chiunque altro (ed
infatti nessuno suonerà come loro, fra l’altro apprezzatissimi per le
devastanti performance dal vivo). Ricami free-jazz cuciti ad arte nel
fluire selvaggio di un metal in continua mutazione che non molla mai il piede
dall’acceleratore: più in là non si poteva andare ed infatti, in un certo
senso, il crossover, salito su questa cima, vivrà poi la sua fase di declino,
soppiantato da geometrie progressive e da derive post-metal che avranno la
meglio nel corso degli anni “duemila”.
Come
infatti si è visto nella nostra classifica dei dieci migliori album del"Nuovo Metal", saranno Neurosis e Tool, e non i Dillinger
Escape Plan, ad assurgere il ruolo di protagonisti per gli anni a venire.
Costoro non si limiteranno a fotografare un metal nel virtuoso atto di
superamento di se stesso, ma getteranno semi che determineranno il corso
evolutivo del metal nei suoi successivi venti anni di vita: venti anni in cui
il post-hardcore/post metal dei primi e il neo-progressive dei
secondi costituiranno l'ossatura principale intorno alla quale il metal si
sorreggerà, sempre più orientato verso schemi di scrittura libera e svincolati
dagli antichi schematismi (in particolare dalle ristrettezze del formato canzone),
aprendosi di fatto a nuovi imprevedibili orizzonti.
Ma
attenzione, gli anni novanta non sono stati soltanto groove, crossover,
suoni diretti e corrosivi: in quegli stessi anni si stavano preparando le forze
della restaurazione, che non significa solo nostalgia ed immobilismo. Vi fu
infatti un manipolo di temerari che cercarono, fra innovazione ed ortodossia
metallica, di tenere in vita il metal guardando sì in avanti, ma senza allontanarsi
troppo da casa…