29 dic 2018

I DIECI MIGLIORI LIVE-ALBUM DEL METAL: CONCLUSIONI


E’ il palcoscenico la dimensione ideale affinché il metal possa manifestarsi nel pieno delle proprie potenzialità? Il luogo dove il metal può librarsi selvaggiamente in volo, finalmente libero "dai lacci e dai lacciuoli" imposti da un ambiente asettico quale è lo studio di registrazione? Oppure il palcoscenico è frontiera di insidie per chi, al di fuori dello studio, non è in grado di ricreare la potenza della propria visione artistica? 

Lungo dodici mesi ed attraverso ben dieci pietre miliari, abbiamo potuto constatare che il metal si difende bene dal vivo. Abbiamo parlato dei più grandi, dai Judas Priest agli Opeth, passando per Motorhead, Iron Maiden, Ozzy, Slayer, Kiss e Dream Theater. Abbiamo premiato chi ha voluto esagerare (si veda il triplo album live rilasciato dagli Iced Earth) e anche chi non è neppure montato sul palco (il "finto live" dei Type O Negative). Fra ritornelli anthemici e ritmiche spaccaossa, attraverso i classici che hanno fatto la Storia del nostro genere preferito, abbiamo spaziato fra i generi più disparati (heavy metal classico, thrash metal, prog, hard rock, doom) raccogliendo le testimonianze più memorabili che il metal abbia offerto on stage.  

Dobbiamo tuttavia ammettere che la selezione non è stata semplice, e non perché vi sia stato l’imbarazzo della scelta: trovare live-album degni di presenziare nella lista dei migliori dieci è stata impresa ostica. Siamo perlomeno contenti di poter dire che, per una volta, non ci siamo dovuti ammazzare in redazione per individuare una decina di titoli che soddisfacessero tutti (chi avremo mai scartato ingiustamente? Gli Scorpions di “World Wide Live”? I Savatage di “Ghost in the Ruins - A Tribute to Criss Oliva”? I Mayhem di “Live in Leipzig”?). Da un punto di vista di release discografiche, mancano all'appello nomi importanti come Metallica o Manowar (che dal vivo non sono certo mezzecalzette), mentre in certi casi si sfiora la delusione, come "Live in L.A. (Death & Raw)" e "Live in Eindhoven", che certo non rendono giustizia delle prodezze compiute in studio da Chuck Schuldiner e i suoi Death.  

Ma al di là di qualche episodio meno riuscito, il dato di fatto è che ci siamo imbattuti in tanti prodotti ben confezionati, ma che non avevano quel quid in più per poter dire: qui la band fa qualcosa di diverso o di migliore rispetto agli album in studio! Oppure regala una performance memorabile che potrebbe rivaleggiare con il repertorio ufficiale… 

Andiamo all'origine di quello che potrebbe essere il problema: quello che succede sopra il palco. Chi è attivo sul fronte dei concerti, si renderà facilmente conto che non è automatico che musicisti dotati sappiano ricreare le stesse alchimie prodotte in studio. Due esempi emblematici sono Nevermore e Blind Guardian, gente che sulla carta dovrebbe spaccare il culo ai passeri, ma che nei fatti si è rivelata assai debole per quanto riguarda la resa dal vivo. Tanto più che li avevamo visti al top della loro carriera: i primi in occasione del tour di “Dead Heart in a Dead World”, i secondi quando promuovevano il capolavoro “Nightfall in Middle-Earth”. 

Complici i suoni non perfetti, i Nevermore si resero responsabili di una prova approssimativa, con una scaletta che sceglieva gli episodi più diretti (quelli più facili da eseguire) e fiumi di imprecisioni a togliere mordente ai momenti più complessi (che delusione la versione impastata e confusionaria di “The Seven Tongues of God”!). Completava il quadro un Warrel Dane in veste di cowboy a sfoggiare il suo lato bello grezzotto di americano. 

Con i Blind Guardian, invece, tutto filò liscio, pure troppo: la metodicità teutonica fece sì che i brani venissero riprodotti fedelmente, tuttavia il concerto non decollò mai in modo definitivo. Hansi Kursh non è forse il front-man più spigliato del mondo (e certo avrà pesato il fatto che quello era stato il suo primo tour da cantante senza l’ingombro del basso, cosa che avrebbe dovuto agevolarlo ed invece svelò definitivamente la sua goffaggine), ma un po’ tutti sembravano ingessati, impegnati a seguire il copione, impossibilitati a far vibrare quelle note che ci avevano fatto sognare su disco. 

Ed è questo il punto: o le band, semplicemente, non riescono a riprodurre la musica da loro composta e registrata, o, quando ci riescono, non sono in grado di restituircela con la forza raddoppiata che ci aspetteremmo dal vivo. Peccato, per un tipo di musica come il metal che, come il rock in origine, dovrebbe essere valorizzata dai volumi alti, dagli amplificatori che vomitano watt su un pubblico potenzialmente disattento che cerca stimoli per rispondere gridando, saltando, pogando (insomma, non siamo seduti sulle poltroncine di un teatro!).

Ma il mondo è cambiato. Da anni ormai le tecniche di registrazione si sono evolute e permettono ai musicisti di fare cose inaudite: sovra-incisioni, effetti, sampling, aggiunta di cori ed orchestre intere. E dal vivo? Dal vivo abbiamo musicisti che non si divertono più, che pagano la loro ambizione di autori con il dovere di andare a tempo con le basi campionate, di concentrarsi in quei particolari passaggi che richiedono impegno ed attenzione. E l’improvvisazione? Il fuori programma? A risultare vincenti sulle assi di un palcoscenico sono non a caso coloro che ancora vedono il metal come basso-chitarra-batteria-voce, gruppi come i Sodom (e chi li ammazza?) o artisti come Udo (e chi lo ammazza?): gente che concepisce quello che sa fare e che scrive quello che può suonare.

C'è stato un capovolgimento: prima i brani nascevano in presa diretta e poi dovevano essere adattati per essere registrati, catturati in studio e incisi su nastro, tanto che quelle versioni sembravano spompate, la copia sbiadita di quello che succedeva in cantina o sul palco (basti ascoltare i primi album dei Judas Priest). Oggi invece la musica, anche il metal, viene creata in studio con tutti gli accorgimenti possibili, che da forma divengono sostanza, ossia strumento aggiunto al servizio della creatività dell’artista. Sui pro e contro artistici non ci pronunciamo (non è questa la sede, e comunque non riteniamo che le grandi produzioni siano di ostacolo alla creatività). È ovvio, tuttavia, che la dimensione live finisca per risentirne.

C’è poi un altro aspetto da sottolineare: i live-album una volta erano dei best of, delle playlist ante-litteram, delle compilation che si distinguevano da quelle preparate su cassetta (i famigerati “misti”) in quanto consegnavano all’ascoltatore versioni diverse da quelle presenti su disco. Persa anche questa peculiarità, ha ancora senso parlare di live-album come di una reale necessità se essi devono essere la riproposizione fedele di brani ritoccati ed infiocchettati come se fossero registrati in studio? 

Stando a quello che possiamo vedere oggi, pare che la band metal incidano live-album o perché è una abitudine assodata (ogni tot le band metal devono pubblicare un album dal vivo), o per onorare contratti stipulati con la casa discografica. Il risultato è che sempre più raramente capita di imbattersi in live-album che ci facciano esultare (esaltazione dei fan a parte).

La nostra speranza è che nel metal si spenga la convinzione che il live-album debba essere un greatest hits preparato a tavolino (magari selezionando brani da diverse date - ohibò che tristezza!), e che invece si consolidi l’idea che esso possa essere una foto-ricordo di una serata davvero speciale!


(Vedi l'introduzione della rassegna e le altre puntate)